DIMORE ANTICHE DI VALLATA: PALAZZO CATALDO.- A cura di Angelo Silvestro. - www.Vallata.org

Dimore antiche di Vallata: Palazzo Cataldo.
A cura di Angelo Silvestro.

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        Con piacere accolgo l’invito dello staff di Vallata.org per l’iniziativa promossa di recensire una serie di articoli sugli edifici antichi di Vallata.

        Tale lodevole proposta accresce la conoscenza storico-culturale sul patrimonio edilizio della nostra comunità.

        Palazzo Cataldo è uno degli edifici storici del centro dell’abitato antico di Vallata, ma non si dimentichino per il loro pregio anche: palazzo Laurelli/Tullio Cataldo, Gallicchio, Netta, Monaco ed altri.

        L’edificio, dall’alto dei suoi 870 m. s.l.m., offre la vista di uno stupendo panorama a tutto campo.

        Ad Oriente la valle del Calaggio, i Comuni di Anzano di Puglia e S. Agata di Puglia ed il lontano Monte Vulture; a mezzogiorno il Formicoso, i Comuni di Andretta e Guardia dei Lombardi; ad occidente il boscoso monte S. Stefano della vicina Trevico.

        L’edificio è ubicato tra la via Chianchione o Chiancone (così come riportato in alcuni manoscritti), il fossato di mezzogiorno (la rampa scoscesa che da Piazza Tiglio, con accentuato dislivello, termina a via Mastroprospero), ed il Fossato di levante, l’attuale rotabile che si congiunge alla via Chianchione nella Piazzetta di S. Rocco.

        Nella Pianta del sito della Terra di Vallata (1723) è espressamente disegnato l’ingresso della Porta Nova, una stradina che arriva a S. Rocco ed alla vicina S. Vito, una “Tiglia”, un raggruppamento di piccole case ubicate intorno all’attuale Cappella di S. Maria e sovrastante la via Chianchione e due personaggi che dialogano l’uno di fronte all’altro.

        A ridosso della porta Nova, all’interno, è presente insieme ad altre abitazioni, una torre circolare e la dicitura castello.

        Non vi sono abitazioni lungo la stradina Chianchione che, con dolce pendio, costeggia l’altura di S. Maria.

        Tale è la fotografia dei nostri luoghi nell’anno 1723. La costruzione del palazzo iniziò certamente dopo tale anno.

        Di certo abbiamo due riferimenti:
       

a) una epigrafe che così recita:
        VITUS ISIDORUS QUAGLIA HANC DOMUM PRO SE SUISQE
        A FUNDAMENTIS EREXIT: AD. MDCCCXXVII
        ( Vito Isidoro eresse questa casa per se e per i suoi discendenti dalle fondamenta. Anno del Signore milleottocento ventisette)

        b) le iniziali DQ scolpite sull’architrave del portone principale di ingresso all’edificio, sovrastate dallo stemma del casato, vi sono: una palma, un leone rampante e due quaglie. Il tutto sotto una corona dentata.


        L’edificio si presenta a pianta rettangolare (dimensioni 28m x 18m) con un elemento di spicco: l’alta torre (8m x7m) che in altezza è di poco inferiore al campanile della Chiesa madre.

        Quanto premesso ci aiuterà a formulare alcune ipotesi sulla costruzione dell’edificio e dell’appartenenza del casato. Da ricerche araldiche dello stemmario italiano, la blasonatura del nome Quaglia così viene descritta: ”d’argento alla banda d’oro, orlata d’azzurro; carica di tre quaglie al naturale; col capo d’argento, sostenuto d’azzurro e caricato di un leone d’oro, cucito, nascente” ( fonte: Patriziato subalpino A. Manno, Torino 1895-1906 ed online a cura di A. Scordo.)

        Non vi è dubbio che il primo proprietario del palazzo sia stato Vito Isidoro Quaglia che edificò per sé e la sua discendenza.

        Ci poniamo una prima domanda: la fabbrica richiedeva una enorme quantità di pietra locale, da lavorare e squadrare, per la costruzione. Ricordiamo che lo spessore dei muri perimetrali esterni misurano 1,10 m. e le divisioni interne degli ambienti 0,90 m. A tutto questo si aggiunge in più l’ulteriore quantità di materiale per l’elevazione della torre.

        A che cosa serviva questa struttura così imponente?

        E l’enorme cumulo di terreno smosso per le fondamenta dove è finito?

        Attualmente non abbiamo notizie della persona incaricata della progettazione né esistono piante o disegni del fabbricato. Quanti anni richiese il completamento della costruzione?

        A tutti questi interrogativi non possiamo rispondere con prove documentali. Il sito scelto per la costruzione è a ridosso della Piazza Tiglio. A questo punto dobbiamo fare riferimento alla Pianta del Sito della Terra di Vallata del duca Orsini. L’unica descrizione visiva della Vallata anno 1723. Sulla pianta è disegnato l’intero circuito delle mura che circondavano l’antico abitato (….di passi n.°598 ) e per il luogo che ci riguarda: l’ingresso di Porta Nova, una Tiglia, una stradina che, sottostante un gruppo di abitazioni ( il colle di S. Maria ) conduce alla chiesa di S. Rocco, adiacente la chiesa di S. Vito. Due omini disegnati sembrano discutere tra di loro. Retrostante la Porta Nova, all’interno dell’abitato si può leggere la parola castello scritta su muri diroccati in prossimità di una torre circolare di cui non si ha menzione.

        Da tutto ciò possiamo arguire che la materia prima (la pietra) era largamente disponibile per l’edificanda costruzione sia attingendo dal diroccato castello sia da vecchie abitazioni già in rovina. Per di più il costo di trasporto del materiale era molto ridotto essendo “la cava” a due passi dal sito prescelto. Per lo smaltimento dell’enorme massa di terra di sedime del fabbricato anche qui possiamo ipotizzare che potesse essere stata sversata per allargare la Piazza Tiglio riempiendo così parte del fossato di mezzogiorno con risparmio, anche qui, sui costi di costruzione. L’enorme struttura della torre e la sua altezza troverebbe giustificazione come edificio/difesa di rapido avvistamento di eventuali pericoli provenienti dalla vicina Puglia o Basilicata.

        Forse è ancora sentita dai cittadini vallatesi, a distanza di tre secoli, la tragedia di Chianchione. Infine si potrebbe anche ipotizzare semplicemente una torre colombaia quale immediata fonte di cibo nei periodi di carestia. Un grazioso loggiato, con colonnine in pietra ed archi a tutto sesto, snellisce ed abbellisce tutta la facciata in pietra della severa costruzione. Come in tutti gli antichi edifici non mancano presenze di stanze o luoghi segreti da tenere nascosti e non sempre sono rivelabili a tutti. Il Palazzo, nel corso degli anni, ha subìto ristrutturazioni di interni ed esterni adattando gli ambienti alle continue successioni ereditarie. Pertanto dobbiamo seguire la genealogia di Vito Isidoro Quaglia, così semplificata: gli succedono la figlia Giuseppa Maria Quaglia che sposa Nicola Cataldo dott. fisico di Castel baronia ed il figlio dott. fisico Donato Quaglia.

        A Donato Quaglia gli succede l’unigenito Angelo Maria Quaglia che sposa Donna Elisabetta (Bettina) Batta. Hanno tre figli Angela Rosa, Vitamaria e Donato (deceduto all’età di tre anni). A Giuseppa Quaglia le succede il figlio avv. Pietro Cataldo. Per la morte prematura di Angelo Maria Quaglia e del piccolo Donato, la stirpe Quaglia si estingue e come nella tradizione il patrimonio doveva essere salvaguardato.

        Pertanto alla giovane vedova Elisabetta Batta (1835-1910), madre di due bambine venne data in sposa l’avv. Pietro Cataldo (1821-1877), cugino del defunto primo marito. Alla novella famiglia seguirono altri figli: Alessandro Cataldo (1863-1894), Nicola Cataldo (1865-1952), Giovanfrancesco Cataldo (1871-1944), Antonio Cataldo (1872-1899), Giuseppa Cataldo (1869-1946) ed Eugenio Cataldo(1867-1876), deceduto fanciullo per una rovinosa caduta dalla Torre.

        Da qui la nuova denominazione palazzo Cataldo e non più Quaglia. Donna Bettina ed i figli avuti con l’avv. Pietro Cataldo, dalla vendita di terreni, avevano costituito la dote maritale per Angela Rosa Quaglia che sposò tal Ciccone di Zuncoli e l’altra Vitamaria , nubile ,andò a vivere con la sorella.

        Ai quattro maschi di casa Cataldo vennero assegnati, alla dipartita dei loro genitori, a ciascuno un quarto di fabbricato: il piano terra a Giovanfrancesco ed Antonio; il piano superiore ad Alessandro e Nicola. A seguito della scomparsa prematura di Antonio celibe, (diabetico e dai capelli rossicci), questi lasciò il suo quarto di palazzo al fratello Nicola per i servizi di assistenza prestati nella lunga malattia. Anche Alessandro, sposato con Michelina Miele di Andretta, morì in giovane età e la sua quota, non potendo essere riscattata dai parenti più prossimi fu messa all’asta per la somma di Lire 11.000 circa ed acquisita al patrimonio di Donna Elisa Borrelli in Novia (fonte Gerardo Scanniello). A Giuseppa Cataldo, in dote maritale, furono assegnate numerose terre. La tradizione di assegnare ai figli maschi il casato ed alle figlie femmine le terre veniva così rispettata.

        A questa prima divisione ereditaria a seguito della morte dell’avv. Pietro Cataldo, l’edificio fu adeguato anche ad avere quattro ingressi indipendenti per ciascun coerede.

        Sul lato nord, nella chiostrina di accesso al piano nobile, la scalinata spostata e messa direttamente in comunicazione con l’esterno: la piazza Tiglio. Il portone principale di ingresso al palazzo venne assegnato, come unico ingresso, al quarto del piano terra.

        Sul lato sud, per rendere indipendenti gli ingressi agli altri due quarti degli altri coeredi Nicola ed Antonio, venne aggiunto un loggiato e da un vano venne creata una nuova scalinata per poter accedere al sovrastante quarto di Nicola. Nelle minute di famiglia è conservata una dettagliata relazione tecnica, redatta dal geom. Alfonso De Gennaro (1892) che descrive minuziosamente gli ambienti ed i vani dell’intero edificio, diremmo oggi con estrema precisione, nonché la sua stima economica. Il palazzo ha resistito ai disastrosi terremoti del 7/6/1910, del 23/7/1930 e del 15/7/1961, ma non ebbe mai un adeguato intervento di ristrutturazione, tanto che già nel decennio 1930-40 necessitavano urgenti riparazioni. Gli infissi in legno, ormai vetusti non avevano mai subìto interventi ricostitutivi, così come per i solai in canneto al primo piano ed alcune parti del tetto. In seguito al terremoto del luglio 1961 furono eseguiti dei lavori che riguardarono il consolidamento del tetto e del loggiato esposto a mezzogiorno del palazzo (perizia geom. Nicola Cataldo). Negli anni intorno al 1970 l’ampio sottotetto, sul versante sud, fu trasformato in abitazione con, quindi, relativa ristrutturazione del solaio ed innalzamento del tetto.

        Con il terremoto del 23 /11/1980, che comportò maggiori danni alla torre ed ai locali del primo piano, il progetto di ristrutturazione fu molto più incisivo (perizia ing. Vincenzo Salvatore): la torre fu ridimensionata in altezza, i solai del primo piano rifatti completamente ed abbattute tutte le volte a botte del piano terra e del primo; i muri perimetrali ed i tramezzi interni, tolte le pietre vennero sostituite con mattoni pieni. Questa ristrutturazione non riguardò il piano seminterrato ed il piano terra. Inoltre sul versante di levante dell’edificio, quello più esposto alle intemperie, vennero realizzate ampie terrazze le cui esposizioni ed utilizzazioni contrastano con il rigido clima del paese. Dell’antica struttura ne è uscito indenne il piano seminterrato che conserva ancora volte a botte, alte 4,75 m, con tre archi a tutto sesto per ciascun locale. Oggi, la conservazione di questo edificio impone agli attuali proprietari continui mini interventi di adeguamento al fabbricato. Solo con la collaborazione di loro tutti, nel rispetto delle numerose leggi sull’edilizia e nel ricordo affettivo di ciascuno, potremo conservare e consegnare ad altri questo comune bene.

        Le foto a cura del Prof. Severino Ragazzo

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