La storica processione del Venerdì Santo a Vallata. Noterelle e contrappunti. - Prof. Rocco De Paola

La storica processione
del Venerdì Santo a Vallata.
Noterelle e contrappunti.


“Alla spietata morte / allor dirò con gloria:

dov’è la tua vittoria, / dov’è, dimmi, dov’è?”

(Dai versetti della “Via Crucis”).


A cura del Prof. Rocco De Paola
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      La processione del Venerdì Santo rappresenta di sicuro uno dei più importanti lasciti del nostro patrimonio storico e culturale. La sua origine si perde nella notte dei tempi ed è ancora avvolta da un alone di mistero, non essendosi preservata alcuna traccia che possa darci lume sulla sua nascita e sullo svolgimento nel corso dei secoli. Ancora una volta, come per analoghi importanti eventi della comunità vallatese, i nostri “maggiori”, forse distratti da incombenze più immediate e cogenti della vita quotidiana, hanno disdegnato di tramandarci dei segni, sia pur minimi, che avrebbero potuto oggi rappresentare degli indizi utili a ricostruirne la genesi. Si deve, così, far ricorso ad analogie e deduzioni, talvolta aleatorie, talvolta fantasiose, per cercare di capire come e quando la storica processione avrebbe avuto i suoi natali e quindi i suoi esordi nel contesto delle stradine del nostro beneamato paese. Fissare una data certa, come pur si è tentato di fare sulla base di labili ed arbitrari indizi, è assolutamente impossibile. Se tra gli enigmi della grande Storia vi è ricompresa la datazione relativa alla “nascita” di Roma, sulla quale non vi sono ancora certezze, e persino la nascita di Nostro Signore pare debba essere retrodatata di qualche anno , appare ovvio che “l’histoire événementielle” relativa ad un frammento del microcosmo fattuale, rappresentato dal nostro “atomo opaco”, se non supportata da probanti documentazioni, non può essere surrogata da semplici supposizioni.
      La data del 1541, che viene propagandata ed affermata come irrefutabile, presenta quantomeno l’alea del dubbio. Estrapolarla dalla relazione di uno storico, comunque degno di fede, nel contesto di un discorso relativo ad altro tema prevalente1, suscita qualche perplessità evidente. Che in Vallata si sia insediata, in un certo periodo storico, probabilmente durante la seconda metà del secolo XV, una comunità ebraica è certo2, ma che la processione possa avere avuto origine in seguito alla “conversione forzata” degli Ebrei dell’anno 1541 appare quanto meno discutibile. Paradossalmente, quello è proprio l’anno della definitiva cacciata degli Ebrei dal Regno di Napoli3, non solo di quelli rimasti fedeli all’antica religione dei padri ma anche dei “marrani”, come venivano sprezzantemente chiamati i nuovi conversi alla religione cristiana. Nulla vieta di credere che i “cristiani novelli” possano essere sfuggiti alla nuova diaspora, tuttavia l’esodo degli Ebrei fu imponente, tanto che i territori in cui si erano insediati ne furono depauperati. Si calcola che diverse decine di migliaia di individui, che costituivano in massima parte un ceto imprenditoriale e mercantile particolarmente dinamico, esularono in altre regioni d’Italia e dell’Europa, determinando gravissime ripercussioni non solo sul piano sociale, ma soprattutto sul tessuto economico del nostro Meridione. Gli Ebrei si erano ben integrati in talune comunità locali, tanto da suscitare la diffidenza delle autorità religiose, come accadde ad Ariano, dove il presule Diomede Carafa, avendo convocato nel 1522 un Sinodo diocesano, nel decreto XXXI ordinava che “nullo Cristiano habbia da conversare strectamente con Judei”, ingiungendo, inoltre, che si negoziasse con essi solo nella forma strettamente necessaria alla conclusione dei negozi medesimi4. Se l’ipotesi di una genesi della processione in conseguenza di un evento storico che ebbe fasi alterne di accoglimento e di repulsione nei confronti del popolo “deicida” appare, dunque, poco plausibile, occorre esperire altri percorsi di indagine.
      Il “significato di una catechesi pubblica e severa”, allora, va ricercato nel contesto di quel vasto e profondo processo storico che prende nome di Controriforma e fu diretta conseguenza del Concilio di Trento (1545-1563), che tentò di arginare la Riforma Protestante, innovando profondamente la dottrina e la catechesi della Chiesa Cattolica. In quella fervente temperie religiosa, la ritualità legata alle cerimonie ed alle manifestazioni del calendario liturgico ebbe un potente rilancio, soprattutto mediante la spettacolarizzazione di determinati eventi, che vide come instancabili corifei gli adepti del nuovo ordine religioso denominato “Compagnia di Gesù”, sorta per iniziativa di un “hidalgo” spagnolo, Ignacio de Loyola, mutatosi in cavaliere della Santa Vergine e soldato di Cristo. I prodromi della processione del Venerdì Santo vanno dunque investigati in quel vivace contesto culturale e morale e gli antecedenti storici sono da individuare nelle cerimonie legate al rito dell’ “entierro”, di origine spagnola5, che ebbe la sua prima manifestazione nel 1506, quando, dopo la morte di Felipe I el Hermoso arciduca d’Austria, la moglie, regina Juana di Castiglia, diede vita, con l’ausilio di numerose confraternite, alla simulazione della sepoltura del Cristo, la cui statua era seguita da quella dell’Addolorata6. Da allora la cerimonia ebbe larga diffusione non solo in terra iberica ma anche nei territori italiani soggetti alla Dominazione Spagnola, tra cui vi era il Regno di Napoli.
      Le analogie della nostra storica processione con manifestazioni simili che ancora si svolgono in numerose città della Spagna sono molto stringenti. Intanto il costume caratteristico degli incappucciati, di colore bianco o rosso, con copricapo terminante a punta e due sole aperture circolari in corrispondenza degli occhi. I “Misteri”, tele con didascalie e statue che illustrano visivamente le varie fasi della Passione e della Morte di Cristo, una sorta di sacra rappresentazione di remota origine medioevale, mutuati dalla tradizione spagnola e diffusi a tutte le latitudini nella nostra penisola. La croce sormontata da un gallo, da una scala e da altri simboli della Crocefissione come le tenaglie, il martello, la lancia con cui Cristo fu colpito al costato7, i dadi, la colonna della flagellazione e i flagelli. E poi l’andatura cadenzata dei soldati, il cosiddetto “passo romano” scandito dal suono della tromba e del tamburo, ha delle affinità con il procedere ondeggiante del corteo che reca il corpo del Redentore nella processione di Siviglia. A Catanzaro esiste una usanza simile. La “naca” che regge il corpo esanime di Gesù è portata a spalla dai rappresentanti delle corporazioni dei mestieri con un “incedere leggermente annacante (dondolante)”8. Sono solo alcune delle similitudini fra la manifestazione che si tiene nel nostro paese e quelle che provengono dalla Spagna e da numerose altre località italiane. A conferma della origine della nostra processione a cavallo tra XVI e XVII secolo, non è da trascurare un altro indizio che deriva dai tratti somatici della statua del Cristo Morto, un vero capolavoro dell’arte napoletana, che richiamano le fattezze di un signorotto dell’epoca, con la corta barba ben curata.
      Anche la processione che si svolgeva il Giovedì Santo, al calar delle tenebre, seguiva il rituale dell’entierro spagnolo che aveva contestualmente introdotto la figura della Vergine “Soledad”, associando i due eventi del giovedì e del venerdì della Settimana Santa. Da noi era denominata “miserere”, termine che veniva usualmente adoperato per indicare decessi inesplicabili (è murt’ cu lu mjsarér’), dovuti talvolta a fulminei attacchi di appendicite, che si verificavano specie nelle ore vespertine. Nel corso del sacro rito si salmodiava il “parce Domine” da parte di un devoto dal corpo massiccio e dalla voce tonante di baritono, che batteva vigorosamente a terra, in cadenza, un grosso e nodoso bastone. La processione del giovedì si apriva con incappucciati disposti su due file che agitavano e strascicavano al suolo delle catene. Lo stridio del ferro sul magnifico selciato di via XX Settembre, i costumi dei figuranti, il sottofondo musicale della banda creavano una atmosfera mistica e surreale davvero molto suggestiva. E poi, ad ora tarda, il passaggio della ronda per le strade del paese, scandito dal rullo del tamburo e dagli squilli della tromba, di sole tre note replicate e con tonalità decrescente, suscitava emozioni indicibili specie nelle notti di plenilunio. Purtroppo, la processione del giovedì ha ceduto il passo ad una insignificante sceneggiata che ricalca la più vieta tipologia dei colossal storici di infausta memoria.
Così muore la tradizione e con essa la cultura vera di un popolo!
      Altro elemento caratterizzante della nostra processione è il canto, unico e straordinario, dei “terzetti”, squadre di “cantatori” un tempo tanto numerose da superare la dozzina . Il canto, una polifonia lenta e struggente, rappresenta davvero l’anima della manifestazione religiosa, che altrimenti si ridurrebbe a semplice parata senza alcuna “vis drammatica”. Esso illustra le quattordici stazioni della “Via Crucis”, per ogni stazione una coppia di quartine, ognuna formata da tre settenari piani e da uno tronco, con schema metrico abbc, in cui l’ultima rima si ripete nella quartina successiva. Dalla iniziale richiesta a Pilato (“Se il mio Signor diletto / a morte hai condannato / spiegami almen Pilato / qual fosse il suo fallir”), seguendo le varie fasi della passione di Cristo, si giunge alla consumazione del sacrificio con la morte del Redentore ed alla scena finale della afflitta Madre che prende nel grembo il Figlio, stringendolo al seno. Nell’ultima stazione, la promessa di non allontanarsi dalla tomba, che chiude nel suo alvo il nostro Signor “già morto”, fin quando Egli non sia risorto, erompe poi nella apostrofe alla “spietata morte” e, con l’interrogativo finale (dov’è la tua vittoria/dov’è, dimmi dov’è), preconizza il trionfo del Salvatore.
      Per inveterata tradizione i versi sono stati da sempre attribuiti a Pietro Metastasio (pseudonimo grecizzato di Pietro Trapassi), poeta sommo ed esimio rappresentante dell’Accademia dell’Arcadia, vissuto nel corso del Settecento e morto alla corte di Vienna. Sulla paternità delle quartine non vi è, allo stato, alcuna certezza, anzi lo stesso Metastasio, in una lettera riscoperta di recente, ribadisce all’interlocutore Costantino Morra di non essere assolutamente l’autore “dei brevi riflessi per la Via Crucis”9 a lui arbitrariamente attribuiti. Del resto, in nessuna antologia degli scritti del Nostro si trova traccia del sacro testo10. Solo in una edizione del sesto volume delle sue opere, realizzata a Lucca nel 1806 dalla tipografia Bendini11, su “un foglio volante” posto in appendice, è riportata la via crucis con il nome del poeta cesareo sul frontespizio. C’è poi l’autorità della Chiesa, che nei libri devozionali in cui è riprodotta, l’ascrive senz’altro a Metastasio12. Una conferma ulteriore la si è avuta in occasione della tradizionale funzione del Venerdì Santo tenuta al Colosseo da Giovanni Paolo II nel 1999. In quella circostanza, Mario Luzi, poeta tra i maggiori del nostro Novecento, ha redatto la sua Passione di Cristo, facendo ampio ricorso proprio all’opera metastasiana13. Infine, i numerosi autori che, nel corso del tempo, ne hanno musicato i versetti, lo hanno sempre riconosciuto come autore dell’opera14. Se tutto il complesso di queste qualificate attestazioni depone a favore di Metastasio quale autore della “Via Crucis”, manca tuttavia “l’experimentum crucis” che possa diradare i residui dubbi relativi alla paternità dell’opera. Elementi risolutivi potrebbero essere individuati mediante una accurata indagine filologica del testo con relativa comparazione con altri testi simili del medesimo autore15. Occorrerebbe, in tal caso, il concorso di esperti della materia al fine di sciogliere questo nodo gordiano che angustia tanti appassionati ricercatori e studiosi di numerose contrade del nostro Belpaese16. I versetti della “Via Crucis”, difatti, sono diffusissimi in diverse città e paesi d’Italia pur se differenti sono le melodie mediante le quali sono proposti durante i riti della Settimana Santa. Una particolare fortuna ha avuto la trasposizione in musica per un duo, tenore e basso, con accompagnamento di pianoforte o harmonium, operata da Padre Serafino Marinosci, al secolo Francesco17. Nato a Francavilla Fontana e rimasto orfano dei genitori, seguì la sua innata e fervente vocazione religiosa e la sua straordinaria vena artistica. Nel 1893 a Taranto, dove era stato ordinato sacerdote, compose una “Via Crucis”, sui versi attribuiti a Metastasio, che divenne in breve tempo molto popolare, tanto che ancora oggi è riproposta in diversi luoghi d’Italia18.
      Del “nostro”canto non esistono spartiti, esso si è trasmesso di generazione in generazione, secondo una tradizione orale ininterrotta e che, purtroppo, in anni recenti, rischiava di estinguersi irrimediabilmente. Fortunatamente, per merito di taluni volenterosi “cantatori”19, ancora è possibile oggi riascoltare le note dolenti della via crucis messa in versi, secondo tradizione, da Metastasio. L’autore della commovente melodia è del tutto ignoto. Credo che essa abbia avuto una origine colta, come sta a dimostrare il fatto che si tratta di un canto polifonico con almeno tre voci, per poi trapassare ad un progressivo “volgarizzamento”. Fino a qualche decennio orsono interveniva anche una voce bianca che accompagnava l’ultima nota finale dei versetti, concorrendo a renderli molto più suggestivi. “Ab antiquo” era usanza consolidata provare il canto in case private qualche settimana prima dell’evento, senza che i “cantatori”, impegnati a sostenere uno sforzo notevole, disdegnassero di corroborare adeguatamente lo stomaco e l’ugola. E le voci, all’imbrunire, si rincorrevano di casa in casa con un effetto eco che penetrava nei più intimi precordi. Il Venerdì Santo, era d’uso offrire vino ai componenti dei “terzetti” per rinfrancare le loro corde vocali. Ma al termine della processione le abbondanti libagioni determinavano spesso acute sindromi di etilismo. Fortunatamente, questa deprecabile consuetudine è del tutto decaduta!
      Se l’autore dell’originaria partitura ci è ignoto, la stessa incertezza si rileva nel volerne determinare la datazione. Qualora i versetti siano da assegnare a Metastasio, la composizione andrebbe collocata prima del 1765, anno della lettera a Costantino Morra, nella quale il poeta nega in modo reciso non solo di esserne l’autore, ma anche di averli mai visti prima. La composizione del canto, allora, andrebbe collocata in quel torno di tempo. Ove poi si dovesse accreditare l’ipotesi, piuttosto inverosimile per quanto già detto, che quei versetti si possano retrodatare ad epoca antecedente, tra la seconda metà del XVII secolo e l’inizio di quello successivo, potrebbe addirittura essere presa in considerazione la congettura che autore della base musicale possa essere stato un nostro illustre e del tutto sconosciuto concittadino, il reverendo Giovanni Battista Racchiano, musico e apprezzato autore di componimenti sacri20. Ovviamente si tratta di una mera supposizione, in mancanza assoluta di documenti. Se, tuttavia, si riuscisse, attraverso indagini storiografiche e musicologiche, a reperire qualche elemento che lo possa comprovare, si avrebbero anche maggiori certezze sull’epoca di esordio della nostra processione.
      Intanto, a mio parere, occorre ripristinarla secondo le costumanze del passato, mediante una sua rilettura filologica. Questo mio invito non vuole assolutamente apparire come una velata critica all’impegno encomiabile del comitato21, che si spende con grande solerzia per conservarne l’usanza, consentendo di anno in anno un ordinato svolgimento della processione. Tuttavia, è necessità inderogabile che la tradizione venga salvaguardata, altrimenti andrebbe disperso un cospicuo patrimonio che rappresenta la nostra storia vera e la nostra originale cultura. Il testo del canto, riportato in appendice al presente scritto, manca del prologo e dell’epilogo che si trovano in altre edizioni. Esso inizia direttamente dalla prima stazione e termina alla quattordicesima, con una postilla finale, una invocazione alla Vergine Addolorata che chiude, con un ultimo toccante motivo, il rito della celebrazione della Passione e della Morte del Redentore.

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1) Mi riferisco alla relazione tenuta dal prof. Francesco Barra, il 6 maggio 1996, al Convegno organizzato dall’Amministrazione Comunale in occasione del V Centenario della battaglia di Vallata, che aveva come tematica appunto quell’infausto evento. A conclusione della sua relazione, il prof. Barra faceva riferimento ad una piccola ma fiorente comunità ebraica stabilitasi a Vallata e dedita al commercio del bestiame, della lana e delle pelli oltre alle consuete attività creditizie. E si lega a tale presenza la tradizione della processione del Venerdì Santo che avrebbe avuto origine in seguito alla “conversione forzata del 1541” e che avrebbe assunto il “significato di una catechesi pubblica e severa nei confronti degli antichi ebrei, ora divenuti cristiani novelli”. Vallata 5, notizie, a cura dell’Amministrazione Comunale, marzo 1999, pag. 58.
Vedi, a tale proposito, il mio articolo “Vallata e il simbolo del gallo: un rapporto engimatico” (in www.vallata.org.), in cui riprendevo la notizia del prof. Barra.
2) Nicola Ferorelli, Gli Ebrei nell’Italia Meridionale dall’età romana al secolo XVIII, edito a cura della rivista “Il Vessillo Israelitico” Torino, 1915. Nel capitolo III, parlando delle immigrazioni ebraiche nell’Italia Meridionale durante la seconda metà del secolo XV, tra le altre numerose località in cui dimorarono gli Ebrei è espressamente citata anche la nostra Vallata. Ivi, pag. 98.
3) Idem, ibidem, capitolo X, Dal 1511 al 1541, pagg. 236 – 237.
Si veda anche Francesco Paolo Volpe, Esposizione di talune iscrizioni esistenti in Matera e delle vicende degli Ebrei, Napoli, Stamperia all’insegna della Sirena, 1844, pag. 25.
4) Tommaso Vitale, Storia della città di Ariano e sua diocesi, in Roma, MDCCXCIV, nella Stamperia Salomoni, pagg. 215-216.
5) Claudio Bernardi, La drammaturgia della Settimana Santa in Italia. Vita e Pensiero, Milano, 1991, pag. 275 e seguenti. Se è certa l’origine spagnola dell’ “entierro” (letteralmente = sepoltura) ed innegabile “l’influenza della cultura cerimoniale e rituale spagnola”, la cerimonia legata al rito del giovedì e del venerdì della Settimana Santa, almeno per la città di Milano, potrebbe avere avuto una origine gesuitica.
6) Passione, un rito che sul Verbano si chiama Entierro, articolo su Varese News di Yelena Apebe, pubblicato il 03 aprile 2015.
La scomparsa del marito fu un colpo durissimo per Giovanna, regina di Castiglia dopo la morte della madre (1504). Ella cadde in una morbosa forma di prostrazione e di melanconia poi degenerata in pazzia. Terminò i suoi giorni nella fortezza di Tordesillas dove era tenuta prigioniera (n.d.r.).
7) Una rassegna completa delle varie fasi del sacro rito, con tutti gli oggetti che vengono recati in processione dai figuranti, si trova in “Gerardo De Paola, Vallata rassegna storica civile religiosa”, III edizione, Valsele Tipografica, Materdomini, 1996, pagg. 271-275. Il testo si può consultare su www.vallata.org.
8) La processione del Venerdì Santo a Catanzaro, contributo postato da Francesco Vallone, 10 aprile 2009.
9) “ I brevi riflessi per la via crucis et a Maria addolorata sono componimenti ch’io non ò mai veduti non che scritti: e sono molto sorpreso della generosità di chi me gli attribuisce”. Il testo completo della lettera è consultabile sul sito web del museo metastasiano Burcardo, www.burcardo.org/museo/metasta.htm.
10) Tra le opere di carattere religioso dell’abate Metastasio vi è una “Passione di Gesù Cristo”, dramma in versi con diversi interlocutori, tra cui Pietro, Giovanni, Maddalena, Giuseppe d’Arimatea ed un coro dei seguaci di Gesù. Vedi in “Opere di Pietro Metastasio”, volume unico, Antonio Racheli editore, Trieste, Sezione letterario-artistica del Lloyd Austriaco, 1857, pag. 508 e seguenti. Tra i componimenti sacri vi è, poi, una “Parafrasi” del salmo “Miserere”che si trova a pag. 746 e seguenti del testo citato.
Di quest’ultimo componimento è di particolare interesse lo schema metrico formato da quartine di settenari, con rima abbc, con l’ultima rima che si replica nei versi di due quartine successive. Esso è un calco preciso dello schema metrico della “via crucis” di cui ci stiamo occupando. Potrebbe essere questo un indizio, seppur labile, per attribuire al Metastasio anche quest’ultima opera.
11) Giovanni Mascia, Teco vorrei, Signore. La processione del Venerdì Santo a Campobasso, pagg. 9 e 10;
testo tratto da G. Mascia, Aspetti di folclore religioso, storico e letterario, in Campobasso. Capoluogo del Molise, a cura di R. Lalli, N. Lombardi e G. Palmieri, II, Palladino Editore, Campobasso 2008; e da M. Gioielli, Il dolore celebrato. La processione del Venerdì Santo a Campobasso e Isernia (Con contributo di G. Mascia), Palladino Editore, Campobasso 2010.
12) Idem, ibidem, pag. 8. 13) Idem, ibidem, pag. 10.
14) Idem, ibidem, pag. 8 e seguente. Tra gli autori citati vi sono Michele De Nigris, Giacomo Insanguine detto Monopoli, il frate dei minori Alcantarini di Lecce Serafino Marinosci, Matteo Rossi, Giovanni Griffi e Dino Mariani molisano di origine e milanese di adozione.
15) Indizi importanti possono essere individuati nel testi sacri composti da Metastasio e menzionati nella nota n°10. Specie nella parafrasi del “Miserere”, comparando la metrica utilizzata con quella della via crucis, emergono elementi molto interessanti.
16) Sulla Via Crucis settecentesca di Spezzano Albanese di G. Cesare De Rosis, pubblicato il 29 marzo 2010.
17) Le notizie biografiche sono tratte da www.musica-sacra.it “Le quattordici stazioni della Via Crucis nella versione “minore” e “solenne” di Padre Serafino Marinosci su testo di Pietro Metastasio”, revisione a cura del prof. Domenico Camarda, digitalizzazione e presentazione a cura di Eupremio Di Giorgio. S.d.
18) A Sessa Aurunca tradizione vuole che sia riproposta ogni domenica di Quaresima presso la Chiesa di San Giovanni a Villa. A Bologna è cantata dal coro di voci miste “Stelutis”. A Taranto viene eseguita ogni anno durante la Settimana Santa. E così avviene a Porto Cesareo, a Novoli, a Lecce, dove l’estro musicale di Marinosci si perfezionò alla scuola del maestro emerito Cazzella, ed in numerose altre località che non mette conto citare.
19) Per evitare che il canto del Venerdì Santo possa scomparire, ho tentato, da qualche anno, con altri amici e un gruppo di giovani, di rinverdirne la tradizione, costituendo un altro “terzetto” oltre quello già esistente. Ne fa parte anche un anziano “cantatore” ultranovantenne che è l’ultimo rappresentante di quegli antichi cantori che una volta erano tanto numerosi da costituire oltre una dozzina di squadre. La sua esperienza ci è stata preziosa per recuperare l’esatta melodia dell’antica via crucis (su youtube c’è un video di qualche anno fa con le “prove” del canto).
20) Di Giovanni Battista Racchiano si hanno pochissime notizie. Si sa per certo che nacque a Vallata e poi si trasferì a Gesualdo. Nel 1587 Scipione Riccio, editore e libraio napoletano, fece stampare a Venezia 200 copie delle composizioni di Racchiano, consistenti in diciassette mottetti e tre messe, compreso un requiem. (Keith A. Larson, Condizione sociale dei musicisti e dei loro committenti nella Napoli del Cinque e Seicento, in Musica e cultura a Napoli dal XV al XIX secolo, a cura di Lorenzo Bianconi e Renato Bossa, Firenze, L.S. Olschki, 1983). La fonte storica delle scarse notizie relative a Racchiano è in Gaetano Filangieri, Documenti per la storia, le arti e industrie della provincia napoletana, Napoli 1891, pag. 328.
21) Sul sito web curato dal comitato è possibile rivivere la suggestione della processione del Venerdì Santo mediante foto e video pubblicati anche da privati.

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APPENDICE

Introduzione
Teco vorrei, Signore
oggi portar la croce,
nella tua doglia atroce
io ti vorrei seguir.
Ma troppo infermo e lasso
donami tu coraggio,
acciò nel mesto viaggio
non m’abbia da smarrir.

Col tuo prezioso sangue
vammi segnando i passi
ch’io laverò quei sassi
con il mio lacrimar.
Né temerò smarrirmi
pel monte del dolore,
quando il tuo santo amore
m’insegni a camminar.

I stazione: Gesù è condannato a morte.
Se il mio Signor diletto
a morte hai condannato,
spiegami almen, Pilato
qual fosse il suo fallir.
Che se poi l’innocenza
error da te s’appella
per colpa così bella
potessi anch’io morir.

II stazione: Gesù è caricato della croce.
So che del tuo supplizio
appare reo ch’il porta.
So che la pena è scorta
del già commesso error.
Ma se Gesù si vede
di croce caricato
paga l’altrui peccato
sol per immenso amor.

III stazione: Gesù cade la prima volta sotto la croce.
Chi porta in pugno il mondo
a terra è già caduto,
né gli si porge aiuto:
oh, Ciel, che crudeltà.
Se cade l’uomo ingrato
tosto Gesù il conforta;
ed è per Gesù morta
al mondo ogni pietà.

IV stazione: Gesù incontra la sua Santissima Madre.
Sento l’amaro pianto
della dolente Madre
che gira tra le squadre
in traccia del suo Ben.
Sento l’amato Figlio
che dice: Madre, addio;
più fier del dolor mio
il tuo mi passa il sen.

V stazione: Gesù è aiutato dal Cireneo a portare la croce.
Se di tue crude pene
son io, Signore, il reo,
non deve il Cireneo
la croce tua portar. S’io sol potei per tutti
di croce caricarti
potrò nell’aiutarti
per uno sol bastar.

VI stazione: Gesù è asciugato dalla Veronica.
Sì vago è nel tormento
il volto del mio Bene
che quasi a me diviene
amabile il dolor.
In Cielo che sarai
se in rozzo velo impresso
da tante pene oppresso
spiri sì dolce amor?

VII stazione: Gesù cade la seconda volta.
Sotto i pesanti colpi
della ribalda scorta,
un nuovo inciampo porta
a terra il mio Signor.
Più teneri dei cuori
siate voi, duri sassi,
né più ingombrate i passi
al vostro Creator.

VIII stazione: Gesù consola le donne di Gerusalemme.
Figlie, non più su queste
piaghe che porto impresse,
sui figli e su voi stesse
v’invito a lagrimar.
Serbate il vostro pianto,
o sconsolate donne,
quando l’empia Sionne
vedrete rovinar.

IX stazione: Gesù cade la terza volta.
L’ispido monte mira
il Redentor languente,
e sa che inutilmente
per molti ha da salir.
Quest’orrido pensiero
sì al vivo il cor gli tocca
che languido trabocca
e sentesi morir.

X stazione: Gesù è spogliato e abbeverato di fiele.
Mai l’arca del Signore
del vel si vide scarca,
e ignudo il Dio dell’Arca
vedrassi e senza vel?
Se nudità sì bella
or ricoprir non sanno,
dite, mio Dio, che fanno
i Serafini in Ciel?

XI stazione: Gesù è inchiodato sulla croce.
Vedo sul duro tronco
disteso il mio Diletto
e il primo colpo aspetto
dell’empia crudeltà.
Quelle divine mani
che al tornio sembran fatte,
ahi! che il martel le batte
senz’ombra di pietà.

XII stazione: Gesù muore in croce.
Veder l’orrenda morte
del suo Signor non vuole
onde si copre il sole
e mostra il suo dolor.
Trema commosso il mondo,
il sacro Vel si spezza,
piangon per tenerezza
i duri marmi ancor.

XIII stazione: Gesù deposto dalla croce è dato in braccio alla sua SS. Madre.
Tolto di croce il figlio,
l’avide braccia stende
l’afflitta Madre e prende
nel grembo il morto Ben.
Versa per gli occhi il cuore
in lagrime disciolto:
bacia quel freddo volto,
e se lo stringe al sen.

XIV stazione: Gesù è deposto nel sepolcro.
Tomba, che chiudi in seno
il mio Signor già morto,
fin ch’Ei non sia risorto
non partirò da te.
Alla spietata morte
allor dirò con gloria:
Dov’è la tua vittoria,
Dov’è, dimmi dov’è?

Mottetto alla Vergine.
Teco diletta Madre
mi fermo a piè del Legno
acciò mi facci degno
di teco lagrimar.
Vinto da tante pene
mi trema in petto il core
dal duolo, dall’amore
mi sento lacerar.

E se di più potessi
di più penar vorrei,
che maggior merto avrei
nel mio maggior dolor.
Ma col fermarmi teco
spero che il tuo dolore
insegnerà al mio core
di più patir ancor.

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