- Racconti - A cura del Prof Severino Ragazzo

Racconti
Quarta Parte

A cura del Prof Severino Ragazzo.
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Teste: Gallicchio Rosario
(sposato con tre figli, la moglie insegnante, ha svolto diversi lavori, oggi gestisce un sindacato a livello territoriale insieme al figlio Andrea. E' amante della recitazione con belle capacità espressive).

I tre monaci, la presunta peccatrice e il marito vendicatore.

    Anche nei nostri paesi della baronia di Vico, oltre ai religiosi secolari c'è stata sempre una presenza di regolari (benedettini, francescani ecc...).
    Non sono mancati esempi di nobili virtù e di religiosi che hanno fatto dire di se, con le proprie opere, tanto da avvicinarsi alla santità.
    Ma in alcuni periodi, specie alla fine del diciassettesimo secolo e nel diciottesimo secolo, alcuni frati sono entrati nella cronaca per il loro modo lascivo di svolgere la funzione talare, e si sono resi peccaminosi anche agli occhi dei superiori e della pubblica opinione cedendo al peccato della carne.
    Così si narra che tre monaci decidono di adescare una donna che, a loro parere, può essere disponibile per compiere atti di cupidigia.
    Convengono in confessione di offrirsi a lei, stante che quest'ultima frequenta giornalmente la chiesa.
    La donna si confida con il marito sulle “avance” dei religiosi e il coniuge per dare una lezione ai malintenzionati concorda con la moglie di far venire in casa i tre, uno alla volta, nello stesso giorno a distanza di dieci minuti ciascuno e che portino pure un bel regalo.
    Il primo monaco si presenta all'orario fissato e porta un bell'abito femminile su misura e mentre che la signora lo osserva trascorrono i dieci minuti e si sente bussare alla porta il secondo monaco.
    La donna fa nascondere in un armadio il religioso adducendo il motivo del marito che sarebbe tornato.
    Così entra il secondo che porta in regalo uno scialle ben ricamato e mentre lo osservano, passano i dieci minuti ed altro bussare alla porta.
    Anche per costui la padrona di casa adduce il motivo dell'arrivo del marito e lo fa nascondere sotto il letto.
    Entra il terzo che in verità non ha portato niente, dichiarando di essere un fraticello povero.
    Allo scadere dei dieci minuti altro tocco di porta e pure questi viene fatto nascondere in un ripostiglio della casa.
    Il marito che aveva concordato il tutto con la moglie, entra e ad alta voce, fingendo, rimprovera la consorte e le intima di rivelargli il presunto tradimento e così ad uno alla volta li scopre dove sono nascosti e li interroga in presenza della moglie.
    Il primo e il secondo frate che avevano portato il regalo li licenzia “cu 'nu stampatòne 'nculo”(con un calcio nel sedere) e al terzo che non aveva portato nulla fa un servizio particolare: gli fa abbassare le mutande e sul sedere nudo accende una candela la cui cera scorrendo produce un dolore indicibile al mal capitato.
    La domenica successiva, la moglie e il marito si presentano alla messa cantata indossando, la prima, gli indumenti regalati.
    Quando i religiosi avvistano la coppia, con canto tipico delle litanie liturgiche gregoriane incominciano a dire:
    (il primo): “mo se ne vene 'Sabbètta nostra!”( adesso se ne viene Elisabetta nostra)
    (il secondo): “co' tutte re robbe nostre”! (con tutte le robe nostre)
    (il terzo). “e ìjo ca nun tenève renàre, mittìtti lu culo pe' cannelàre!”(ed io che non avevo denari, misi il sedere per candelabro).

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Teste: S. Ragazzo

L'ingegnere Angelo Monaco

    Un personaggio che ha caratterizzato la sua presenza a Vallata per più di un cinquantennio.
    Discendente degli antenati Gaetano ed Oreste Monaco il primo liberale e attivo carbonaro nei moti del 1820, il secondo fervente patriota unitario che sfuggì alla morte sulle strade di Ariano Irpino il 4/9/1860, ha espresso l'umore di chi reagisce e anzi inveisce verso tutto quello che non condivide, a volte usando modi, anche nel linguaggio, non sempre 'civili'.
    Come tecnico, avendo la laurea in ingegneria, era rispettato anche perché agli inizi della seconda metà del 1900 erano pochi i laureati del ramo.
    Ha influenzato anche le scelte politiche nell'amministrazione di Vallata, essendone per decenni parte attiva.


“ra cà lu ciuccio nun passa, s'adda secà 'nu poch'”(di qua l'asino non passa si deve tagliare un poco)”

    L' ingegnere Angelo Monaco dirigeva i lavori di ricostruzione post-terremoto del 1962 di una abitazione lungo una traversa di borgo Sant'Antonio che iniziando da piazza Fontana finisce al lato nord sulla provinciale Vallata-Trevico.
    Gli abitanti viciniori ebbero il sospetto che la strada fosse stata ristretta lamentando al sindaco di allora il torto subito.
    La cosa ebbe risvolti amministrativi, giudiziari ed anche giornalistici.
    In sostanza i ricorrenti non fidandosi della scientificità degli strumenti tecnici di misurazione (il metro, il doppio metro, la rollina) avanzarono la verifica adducendo il fatto che prima un asino per quella strada riusciva a passare carico con le “nàche”(due contenitori a forma di culla, una disposta da un lato e l'altra dall'altro dell'animale) ed adesso non più: “ra cà lu ciuccio nun passa, s'adda secà 'nu poco” - dicevano.
    L'istituzione comunale non contenta delle spiegazioni del tecnico, mise in piedi la 'prova regina' cioè presero un asino, lo caricarono con le “nàche”, i covoni sopra e fecero attraversare l'animale il quale riuscì a passare.
    Allora il tecnico tra se e se disse: “èja passàto lu ciuccio e pur' lu conducènt'”(è passato l'asino ed anche il conducente).


“mi rispiàce, ma nun àggje maje vìste ca 'nu cappìdde stàje a lu post' ri 'nu cristijano” (mi dispiace ma io non ho visto mai che un cappello possa sostituirsi ad una persona)

    L'ingegnere Monaco, un giorno, da Vallata doveva prendere il pulman per andare ad un altro paese a svolgere le sue funzioni professionali.
    Se non che l'automobile era piena di persone, alcune perfino in piedi nel corridoio.
    Adocchiò un posto che era occupato da un cappello e prese questo, se lo mise in braccio e si sedette.
    Arrivò una persona che rivendicò il diritto a sedersi avendo inteso col cappello prenotare il posto.
    Al che l'ingegnere con espressione colorita così rispose: “mi rispiàce, ma nun àggje màje viste ca 'nu cappìdde stàje a lu post' ri 'nu cristijano”.


ma ìjo pinzava ca a fìglima la spusòsseve vùje e no' 'nu sanapurcèdd'” (ma io pensavo che a mia figlia l'avreste sposata voi e non un sanitario di maiali)

    L'ingegnere era vice sindaco della giunta 'Batta' dal 1956 al 1960, quando una mattina doveva celebrare il matrimonio civile di una coppia di vallatesi che erano anche suoi clienti.
    Se non che, il tecnico aveva avvisato un altro collega assessore che in sua mancanza assolvesse l'incarico allo stesso modo.
    Si verificò che il Monaco fu chiamato d'urgenza ad assolvere un impegno professionale e per cui subentrò l'assessore che col soprannome era chiamato “sana purcèdd' perché sterilizzava i maiali asportando i testicoli e le ovaie.
    Il genitore della sposa, il giorno dopo, vedendo l'ingegnere così lo rimproverò:”'ngignì, v'àggja fa 'n'appunt': ma ìjo pinzava ca a fìglima la spusòsseve vùje e no' 'nu sanapurcèdd'”.
    Come nota di colore bisogna constatare come la politica fino agli anni 50', anche dalla parte della gente del popolo fosse percepita come appannaggio di alcune categorie e non di altre, specie quelle dei più umili.

Osservazioni spiritose: l'ingegnere era attaccato alla terra e il suo interesse per l'agricoltura era notevole tanto da trasmetterlo anche al figlio Valerio e dal mondo agricolo aveva mutuato detti e proverbi che all'uopo snocciolava con ilarità delle persone che lo ascoltavano. Eccone degli esempi:
    -”fermàte lu bòlle, c'àdda piscià' la zita”(fermate il ballo perché deve urinare la sposa)
    -”a lu pèscje futtutòre, 'ntòppa lu pèle”(al peggiore fottitore da fastidio il pelo)
    -”se me vutòte è bùne, se nun me vutòte me teràte lu pèle chiù lungh'” (se mi votate è bene, se non mi votate mi tirate il pelo più lungo)

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Teste: Rosario Gallicchio e Severino Ragazzo.

unò, duè, avanti màrce, Manfurr' Manfurr'” (uno, due, avanti marcia, Manfurr' Manfurr'!)

    Era il periodo del ventennio e l'educazione fisica veniva privilegiata rispetto a quella intellettuale; di qui si capisce come i balilla già dalle elementari esaltavano le attività ginniche.
    I giovani, anche in funzione di missioni coloniali e del servizio militare, venivano addestrati alle marce e al sabato dalla località Festole fino alla piazza Fontana si effettuava l'esercitazione con decine di persone che venivano guidate da 'caporali' improvvisati.
    E fu così che a mo di sfottò un giovane di campagna con soprannome “Manfurr'”, di cognome Tanga (diceva un discendente che forse il termine fosse legato ad un modo di dire di un antenato un po balbuziente) veniva sempre redarguito così: ”unò, duè, Manfurr' manfurr'!
    Il giovane raccontò al padre del fatto e il genitore che “se facèva respettà li mustàzz'”(si faceva rispettare i baffi) e pronto a farsi giustizia da se, il sabato successivo si presentò anch'egli, individuò il caporale sfottitore e si mise dietro di lui.
    Quando iniziò lo sfottò, il genitore gli assestò un bel calcio nel sedere; il colpito cercò di reagire ma invano perché fu costretto a proferire la stessa frase fino alla Fontana subendo ogni volta lo stesso trattamento. “e accussì scìve pe' sfòtt' e restàje sfuttùt'”(e così andò per sfottere e restò sfottuto)

posto di blocco: maresciallo Tabbòscje

    Dopo l'otto settembre del 1943, alla caduta del regime, anche da noi saltarono le regole che fino a quel momento erano in essere e la guerra spinse alcune persone a darsi al contrabbando per fare affari.
    Fu così che un vallatese di soprannome “Tabbòscje”, vestendosi da maresciallo, nella località di Monte Vaccaro dove avveniva di tutto per lo smercio illegale tra la Puglia e la Campania, ogni mattina pretendeva di affermare un minimo di legalità, proferendo sempre il detto: ”posto di blocco, maresciallo Tabbòscje”.
    I contrabbandieri per paura dovevano consegnare parte della refurtiva, ma ben presto passarono alla controffensiva.
    Essendosi informati che il soggetto usava il travestimento della divisa, un giorno lo presero e lo fecero pieno pieno di botte.

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Testi:Severino Ragazzo

“Z'Affonzo lu curòtele” e l'esperienza di lavoro in America

    Zio Alfonso ebbe nella sua vita anche una breve esperienza quale emigrante negli Stati Uniti d'America e lavorando nell'edilizia a “pala e piche”(pala e piccone) fu incaricato dal datore di lavoro di insegnare ad un manovale di altro colore come usare questi due attrezzi.
    Il nostro, dovendo scavare dei fossi per poi metterci dei manufatti, fece prima vedere come usare il piccone poi consegnò questo all'apprendista, prese la pala e fece vedere come usare quest'ultima.
    Se non che l'alternare dei due mezzi servì solo al momento dell'istruzione perché successivamente al negro, prevalentemente faceva usare di volta in volta tutti e due gli strumenti limitandosi solo a tenerli per un po in mano e facendo fare continuamente l'uno e l'altro lavoro al secondo.
    Quando si dice che l'italiano è furbo; d'altronde il nostro “z'Affonzo” non era di meno a sfruttare il cervello per far lavorare l'altro ed egli affrancarsi e chi sa se la stessa situazione non si era verificata a parti invertite per i primi nostri emigranti che già dal 1870 avevano varcato le frontiere di quel grande paese che è dato dagli Stati Uniti d'America.

“Z'Affonzo e Z'Alivira Cùch'” (Zio Alfonso ed Zia Elvira Cuoco)

“già c...azzo tè, àmme fatto lu cìnema ri ri criature” (e già, abbiamo fatto il cinema dei bambini)

    Zio Alfonso e la consorte Elvira gestivano a Vallata il locale del cinema nell'attuale via Gramsci.
    Nel dopoguerra, esistendo solo la radio e in mancanza della televisione, il cinema favoriva il vedere 'lo spettacolo' dei fatti veri ed inventati che avvenivano a livello nazionale ed internazionale (poi lo scrivente lo capì meglio quando negli anni 60' il suo professore del liceo di Ariano irpino Camillo Marino , inventore della rassegna cinematografica del Laceno d'oro, lo invitava ad andare al cinema per meglio istruirsi).
    Era la passione di tutti andare al cinema che veniva programmato durante la giornata anche con le repliche della stessa pellicola.
    Gli adulti avendo un po di moneta pagavano il biglietto, ma i minori si arrangiavano per entrare gratis, specie quando zio Alfonso si allontanava dalla biglietteria e subentrava zia Elvira che aveva un occhio benevolo verso i piccoli.
    E fu così che un giorno zio Alfonso, entrando nel locale tra un tempo e l'altro, quando si accendevano le luci, constatò che la maggior parte dei presenti erano di minore età e non avevano il biglietto.
    Non riuscendo a trattenere il disappunto, zio Alfonso, così sbottò, anche per redarguire indirettamente la moglie che era tollerante: ”già c...azzo tè, àmme fatto lu cìnema ri ri criature”!

“Cùmba Mùccio” o Gerardo Gallicchio

    E' stato uno dei rivenditori e installatori di elettrodomestici a Vallata già dagli anni 50' del secolo scorso, con famiglia numerosa e il figlio Peppino che continua il suo mestiere).
    Negli anni 50' iniziarono a comparire le prime televisioni a Vallata.
    Le persone si radunavano a decine nell'abitazione del detentore della TV per vedere un evento particolare.
    Lo scrivente ricorda bene il maestro Salvatore Crincoli a Chianchione, Pietro Tullio Cataldo sul Tiglio e Gallicchio Gerardo in via XX settembre che ospitavano i ragazzi per far vedere la filmografia dell'epoca (Zorro, Rex ec...).
    Fu così che i ragazzi abituati ad andare dal Gallicchio , ogni volta che entravano erano soliti salutare così: ”bona sera, cùmba Mùccio”!
    Un giorno però il proprietario non c'è la fece più e così sbottò:
ma che cùmba Mùccio e cùmba Mùccio lu c...azzo, m'avìta chiamà Gerardo Gallicchio, avìte capìte?”(ma che compare e compare Mùccio, mi dovete chiamare Gerardo, avete capito?)

“Affonz' Capone” (Alfonso Tanga)

“Jàmm' a chi s' à mangiàt' l'ùvo” (forza a chi ha mangiato l'uovo)

    Alfonso Tanga era un discreto proprietario terriero di Vallata e quando era il tempo della “metènna”(mietitura) del grano invitava le paranze dei mietitori per raccogliere il frutto maturo, prima che arrivassero le mietitrebbie.
    Sul Formicoso e nello specifico di Piano Calcato la coltura del grano era molto diffusa già a partire dalla fine del 1700.
    In quelle località quante lotte si sono svolte tra le pretese del Capitolo, del feudatario, dell'Università e dei contadini che andavano a rivendicare un pezzo di terra da poterlo coltivare direttamente.
    Fino agli anni 50' del secolo scorso era diffuso molto il bracciantato agricolo ed alcune persone si invitavano presso il proprietario per fare qualche giornata di lavoro per arrotondare il magro reddito familiare.
    E “Affonzo Capone” per incentivare i mietitori alla competizione aveva un sistema particolare: invitava segretamente i mietitori uno alla volta e regalava un uovo sodo a ciascuno e poi quando tutti l'avevano avuto, uscendo nel campo dove ognuno aveva assegnato 'na porca”(una fascia precisa) da mietere, così diceva ad alta voce: “jàmm' a chi s' à mangiàt' l'ùvo”.
    A quel punto ognuno, pensando che il richiamo fosse diretto alla propria persona, accelerava la produzione, senza sapere che tutti avevano avuto lo stesso regalo.
    Bel sistema allora per favorire l'incentivazione ma anche oggi alcuni imprenditori fanno la stessa cosa col metodo dei fuori busta e di altri mezzi !

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Teste: Severino Ragazzo

L'imprenditore milanese e il suo dipendente vallatese

    Nel secondo dopoguerra a partire dagli anni 60' (iniziava il boom economico) anche alcuni vallatesi presero la strada del nord Italia.
    Un nostro paesano andò a lavorare come dipendente in una azienda a Milano che produceva sistemi elettrotecnici (macchine da scrivere, calcolatrici ecc...).
    Il datore di lavoro, ogni giorno che passava cercava di aumentare i tempi di produzione al punto da impegnare il lavoratore per quasi tutta la giornata.
    All' inizio il nostro paesano, dovendo scalare tutti i livelli di carriera, si prestava a tutte le richieste, ma quando raggiunse il massimo ed avendo acquisito una propria autonomia nella gestione dell'azienda così un giorno, non potendone più e per sfogarsi a modo liberatorio di tanti anni di pressione, rispose al datore di lavoro, in vernacolo vallatese: “patrò, tu me pare cùm'a la massarìa ri fattobene: a la matìna prìst' , a lu jùrn' trotta trotta, e a la sera 'nu pìcc' a notte!” (padrone, tu mi sembri come la casa di fatto bene: alla mattina presto, al giorno correre correre ed alla sera un poco a notte!).
    Come si vede, non solo nel mezzogiorno, a volte l'egoismo della impresa esiste a qualsiasi latitudine nel paese Italia.

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Teste: Rosario Gallicchio

“lu Zémmere scangiàto pi 'nu canguro” (un caprone scambiato per un canguro)

    L'emigrazione dei vallatesi ha seguito nel tempo di circa 140 anni destinazioni diverse; fino alla seconda guerra mondiale era l'America ad attirare i nostri compaesani in cerca di lavoro.
    Nel dopo guerra è l'Europa il miraggio (Francia, Belgio, Inghilterra, Svizzera e Germania); dal 60' in poi sarà il nord Italia a calamitare l'interesse.
    Ma non è mancato il caso di qualche vallatese che ha scelto paesi di destinazione diversa da quelli sopra indicati.
    E fu così che un vallatese, emigrato in Australia, dopo tanto tempo decise di ritornare nel paese natio e volle andare in pellegrinaggio al santuario di San Gerardo Maiella in quello di Caposele, con la comitiva che ogni anno, ancora oggi, a piedi si reca colà.
    Ma alla mattina, facendo e non facendo giorno, comparve in lontananza “nu zèmmere ca stava cacchijànn' 'na crapa” (un caprone che stava fecondando una capra) in una posizione tale che al nostro emigrante dette l'impressione di trovarsi in presenza di un canguro che allatta in basso nel marsupio il proprio cucciolo e così il nostro esclamò meravigliato: “òje San Gilàrdo mìjo, ìjo mi pinzàva ca li canguri stèvene sul' a l'Australia, ma vùje verè ca 'sta rrazz' r'anemal' èja 'arrevàta pùre quò?” ( o San Gerardo mio, io pensavo che i canguri esistessero solo in Australia, ma vuoi vedere che questa razza di animali è arrivata pure qua? ).

“patrò': una o tutt' e dòje?”(padrone: una o tutte e due?)

    Nel 1800 e poi nel1900 fino agli anni 50' la povertà spingeva la famiglia contadina ad avviare i figli anche minorenni ai lavori salariali anche i più umili pur di ricavare un qualche reddito.
    Era però per il garzone l'occasione di maturare professionalità che, poi un giorno, poteva utilizzare, sperando di mettersi in proprio.
    Dai nostri paesi della Baronia e dell'alta Irpinia partivano giovani verso la Puglia a fare i mestieri più disparati.
    Fu così che un proprietario terriero prese a garzone un bel giovanotto a cui affidare i lavori dell'azienda, accudire gli animali oppure assolvere alle attività di coltivazione dei campi.
    Il datore di lavoro aveva due figlie alle quali proibì severamente di avere alcun rapporto con il dipendente.
    Ma la prestanza fisica del giovane incuriosiva le ragazze ed anche il giovane guardava a distanza con simpatia le fattezze delle medesime.
    I divieti imposti dal genitore avevano funzionato fino a quando una mattina il garzone si spostò con il cavallo andando presso un terreno coltivato a grano dove bisognava fare l'opera di sarchiatura per estirpare le erbacce infettanti (oggi vengono sparsi i diserbanti che hanno lo stesso effetto ).
    Ma quando il padrone chiese delle due zappe che servivano all'uopo, il garzone si accorse di averle dimenticate a casa.
    Al che il datore di lavoro immediatamente pretese di andarle a prendere.
    Il giovane tornò, vide le due ragazze, le chiamò vicine a se e le invitò ad avere rapporti sentimentali, facendo credere che il loro genitore ne avesse dato l'assenso.
    Le ragazze volevano che il consenso arrivasse direttamente dal padrone, al che il giovane che aveva una voce tipo megafono gridò a più non posso : “patrò! Patrò! Una o tutt' e dòje?”.
    Il padrone sentendo l'eco distintamente e pensando che si riferisse alle zappe così rispose: “t'àggje ritt' tutt' e dòje, tutt' e dòje!”( ti ho detto tutte e due, tutte e due!).
    Così le ragazze ebbero la conferma, pur non capendo il doppio senso delle parole e procedettero a soddisfare un piacere che tenevano represso da tanto tempo.

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