- Racconti - A cura del Prof Severino Ragazzo

Racconti
Sesta Parte

A cura del Prof Severino Ragazzo.
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(teste: Severino Ragazzo)
“Principale” (o “Lu prìncip'”) ed un suo detto

    Chiamato così forse per la sua statura e il modo nel camminare, “Principale” era un personaggio che abitava in una traversa di via San Giorgio di Sopra, dove aveva anche il negozio di tessuti con lunghi rotoli, ben esposti alla vista dei clienti.
    Allora, fino agli anni 60' del secolo scorso, i vestiti venivano confezionati dai sarti e dalle sarte e il materiale era comprato scegliendo con cura la quantità e la qualità.
    Oggi tutto questo lavoro artigianale è soltanto un lontano ricordo, dato che si compra il prodotto già bello e confezionato, senza conoscere nulla della filiera che ci sta dietro.
    Quei pochi stilisti che ancora esistono in Italia e che hanno rinomanza nel mondo stanno a ricordarlo.
    Era un vallatese, Luigi Antonini che, partendo dal tessile, riuscì a diventare in America, nella prima metà del 900', un 'boss' del sindacato degli Stati Uniti e il rappresentante dei lavoratori italo-americani più influente alla fine della 2° guerra mondiale ed anche dopo la cessazione del conflitto.
    Successe così che negli anni 50' il nostro Principale dovette recarsi a Napoli per fare acquisti di stoffe, avendone nel negozio esaurite le scorte.
    Era quel giorno in compagnia di altri vallatesi che, anch'essi commercianti, facevano le loro compere.
    Partivano presto la mattina con il pulman della ditta Raffio e tornavano la sera.
    Anche l'autista “Scascione” era un vallatese (A Vallata c'è sempre stata una tradizione di conducenti di autobus per non parlare di 'trainìr'-trainieri).
    Dopo aver fatto le compere, il nostro Principe disse agli altri compaesani: “sintìt' a me! Mo scijamm' a mangià', ca se turnomm' a Vaddata e truvomm' ca quaccun' è murt', l'amma chiange e restamm' pur' risciùn'”( Sentite a me! Adesso andiamo a mangiare, perché se torniamo a Vallata e troviamo che qualcuno è morto, lo dobbiamo piangere e restiamo pure digiuni).
    Era questo un modo pratico di concepire la vita: al lavoro spettava il premio almeno quello di soddisfare lo stomaco anche perché un imprevisto poteva far saltare l'adempimento di questo compito.

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Rocch' Stirracch' (Rocco Stridacchio)
“Lu ciucc' càrech' re tàvele” (L'asino carico di tavole)

    Rocco era un buon muratore e negli anni 60', oltre a prestare l'attività nell'area urbana di Vallata, era a volte impegnato alla costruzione e riparazione di manufatti, pure, in campagna.
    Così successe che in mancanza di mezzi di trasporto meccanico, il nostro era costretto a recarsi al lavoro a piedi (“cu' la carrozza ri lu scarpar'” dicevano una volta) e lungo le strade, di buon mattino, incontrava diversi contadini che con muli, asini e buoi già provvedevano a fare il primo viaggio di trasporto di materiale il più vario.
    Allora il nostro Rocco che era un fine umorista e che si divertiva a prendere in giro le persone, ai contadini che incontrava faceva sempre la stessa domanda: “scusòt', avèsseve vist' 'nu ciucc' re legname càrech' re tàvele?” (scusate, avete visto un asino di legname carico di tavole?).
    Le persone interrogate rispondevano subito di no, ma senza riflettere sul significato nascosto che era sotteso alla domanda.
    Pensavano subito ad un animale vero e non ad uno finto di legname immaginato dal nostro umorista.
    La cosa andò bene per diverso tempo, fino a quando un contadino (di scarpe strette e cervello fino ) che si era sentito ripetere diverse volte la stessa domanda, pensò e riflesse un minuto secondo sul significato letterario e così rispose: “Embè! Mast' Rò(cco) e mo l'àja furnì' re sfott'; pot' màje 'nu ciucc' fatt' re legnam' purtò' re tàvel' 'ncudd'? Ca se nò ti la tir' ìjo 'na bella 'ncinàt' 'ncap' e te fazz' 'mbarà' a fa lu serio!” (Embè! Mastro Rocco, adesso la devi finire di sfottere; può mai un asino fatto di legname portare le tavole sul dorso? Perché diversamente ti do una bella bastonata in testa e ti faccio imparare a fare il serio).
pìglijet' quest' e citt'- scìtt' pe' sfott' e ristàje sfuttut'” (prenditi questo e zitto- andai per sfottere e restai sfottuto).

“Manch' se fuss' baccalà a la pirticaregna” (Nemmeno se fosse baccalà a mo di pirticara).

    Rocco si divertiva con gli amici a discutere di tutto pur di avere la centralità nel parlare.
    Fu così che il racconto si era prolungato per diverso tempo e uno di questi che conosceva l'orario del mangiare che la moglie gli aveva assegnato, volle invitare 'mast' Rocch' ad andare a casa sua dicendo: “Zi mà(stro), ru sòje che 'nc'è re nùve? Te volesse 'nvetà' a mangià' a casa mìja!” (Zio mastro, lo sai che c'è di nuovo? Ti vorrei invitare a mangiare a casa mia!).
    E mastro Rocco, per non accettare l'invito così rispose: “Lè! lè! Manch' se fusse baccalà a la pirticaregna!” (no! Nemmeno se fosse baccalà a mo di pirticara).
    La verità vera era che l'invitato era noto come un goloso di questo piatto, ma in quel momento faceva ritrosia pur di non dare soddisfazione all'amico.

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(teste: Severino Ragazzo)
L'arrivo al secondo posto

    Un giovane a cui piaceva l'atletica per diletto, ma che non ambiva al risultato della corsa, fece credere al padre che era arrivato secondo.
    Il genitore che credeva poco al figlio chiese a questi: ”scusi, ma quanti erano i partecipanti?”.
    Il figlio rispose candidamente: ”eravamo in due!”.
    E il padre: ”e adesso capisco che sei arrivato ultimo!”

Il militare e la licenza

    Un giovane del paese andò a fare il militare quando la leva era ancora obbligatoria (oggi questa è volontaria e ben retribuita da essere ambita da tanti giovani ).
    La paga giornaliera, allora, a mala pena permetteva di comperare un pacco di sigarette 'Nazionali' senza filtro.
    Così successe che il militare, dopo qualche mese, desiderava andare in licenza, ma non aveva denaro sufficiente per pagarsi il viaggio.
    Scrisse una lettera al padre così dicendo: “caro patr', mànnem' 'na cosa re sold', ca pe' la Maronna venco!” (caro padre, mandami una cosa di soldi, che per la festa della Madonna vengo!).
    Il padre che, purtroppo, in quel momento non se la passava bene economicamente così rispose: “caro figlio, si pe' la Maronna nun vìni tu quo, pe' Gesù Cristo venco ijo lòco!” (caro figlio se per la Madonna non vieni tu qua, per la festa di Gesù Cristo vengo io da te!).
    Era questo un modo per far capire che lo stato di disagio era di ambedue.
    Un altro militare sempre per lo stesso motivo chiese aiuto al padre e questi così rispose: “caro figlio, distendi l'indice, solleva il pollice, gira la mano a destra e poi a sinistra e vedi che ti dice”.
    A volte un gesto traduce, più di tante parole e di tanti scritti, il significato di un modo di pensare.
    A proposito si dice che tra i militari italiani impiegati all'estero nelle diverse missioni i più bravi nelle pubbliche relazioni con gli abitanti del luogo siano i napoletani.
    E perché? Perché si dice che loro senza avere conoscenze delle lingue dei paesi ove si trovano ad operare, riescano con i gesti e con la mimica a comunicare e farsi rispettare meglio degli altri.

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(teste: Rosario Gallicchio)
“Sette Quintale” (sette quintali) e la scommessa nella cantina

    Sette Quintale era un personaggio che forse doveva il soprannome alla mole corporea tanto da assommare quasi due persone in una.
    Svolgeva onestamente il mestiere di spazzino a Vallata negli anni 50', 60', 70'.
    Il lavoro di nettezza urbana allora era molto ridotto rispetto ad oggi, il personale era di meno, l'attività si limitava al solo centro urbano ed i rifiuti erano enormemente inferiori.
    Con le scope di ginestra, le pale, una carriola si mantenevano pulite le strade del paese da residui organici specie animali, polveri ecc.
    Certamente non c'era da raccogliere la quantità di plastica, di vetro, di indifferenziato che oggi abbiamo.
    Il lavoro però era faticoso perché da fare prevalentemente a mano e la giornata necessitava di pause per rifocillarsi.
    Quale luogo migliore se non una visita alle cantine che erano distribuite per tutto il paese a distanza di qualche centinaio di metri l'una dall'altra? (Le cantine di Minuccia Santill', di Nava, del Mupo Zappone, di Pulcheria, di Bennard', di Zi Cola ecc.).
    Così successe che un giorno Sette Quintale e i colleghi, in una cantina, fecero colazione e decisero di scommettere a chi riusciva a bere più vino.
    Chi ne consumò un litro, chi due, il nostro netturbino se ne bevette uno in più degli altri e poi rivolto ai presenti, fece una rotazione del corpo da destra a sinistra e poi viceversa come ad indicare l'attività dello sciacquo di un contenitore e così esclamò: “chest' serve sul' pe' sciacquò' la vott'” paragonando quest'ultima al proprio stomaco.
    Oggi restiamo meravigliati rispetto a tanto consumo di bevande alcoliche specie di vino in quel periodo, ma dobbiamo pensare anche alla sovraesposizione fisica a cui erano soggetti gli addetti ai lavori e non solo gli spazzini ma anche i contadini, gli edili, gli spaccapietre, gli spaccalegna ecc.

“L'acqua a la spadd” (L'acqua alla spalla)

    Si dice che Sette Quintale, alla vecchiaia, si sia sottoposto a visita medica per accertare una polmonite o pleurite fastidiosa.
    Il medico e l'equipe medica pare che gli abbiano confermato la malattia dicendogli di avere “l'acqua a la spadd'” (l'acqua alla spalla).
    Il nostro netturbino pare che abbia risposto così al responsabile sanitario: “dottò', ma ìjo,in vita mìja, àggje vìppete sempe vino, mo' cum' se trova l'acqua? Vùje verè' ca chiri mostr' re cantinìri, a la sera, mesckàvene l'acqua 'ndò lu vin' e ìjo nun me ne songh' màje accòrt'?” (dottore, ma io, in vita mia, ho bevuto sempre vino, adesso come si trova l'acqua? Vuoi vedere che quei mostri di cantinieri, di sera, mischiavano l'acqua nel vino ed io non me ne sono mai accorto?).

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(teste: Severino Ragazzo)
“Coffoli” e le targhe delle macchine

    Il soprannome “Coffoli” si pensa che derivi dal dialetto “Li cùffel'” (le foglie delle pannocchie della pianta di granturco).
    Euplio Colicchio aveva una memoria ferrea per ricordare i numeri delle targhe automobilistiche, oggi si potrebbe parlare, nell'era informatica, di possedere un vero data base di un computer che venga aggiornato continuamente.
    E fu così che un vallatese doveva, dinanzi al notaio, fare l'atto di cancellazione della propria vettura oramai invecchiata e non più utilizzabile, diciamo rottamarla, anche se il termine 'rottamazione' ha subito nel tempo una evoluzione da essere esteso persino alle persone.
    Volle che il proprietario non ricordasse il numero di targa.
    Come fare? La burocrazia era quella che era per cui il rottamatore ricorse all'ausilio di “Coffoli” e questi ricordò precisamente il numero.
    L'atto fu fatto e il povero Euplio non ebbe alcuna gratificazione per l'informazione prestata.

“Affonz' La Ditta” (Alfonso Sauro)

    Alfonso Sauro ha esercitato per una vita la professione di commerciante, negoziando i generi più diversi di mercanzia.
    Aveva il soprannome “La Ditta” proprio in ossequio alle antiche ditte commerciali dell' 800' e del primo 900'.
    I figli Rocco, Francesco, Matilde continuarono il suo mestiere.
    In un certo periodo impiantò a Vallata anche un frantoio oleario, tradizione portata avanti dai figli ed oggi dal nipote Roberto.
    Fu padre di nove figli di cui cinque femmine e quattro maschi ( di questi uno Vito, maestro di scuola, ha fatto il sindaco di Vallata nel 1955 seppure per un breve periodo e l'altro Nazario, professore, il vicesindaco dal 1980 al 1985.

La raccolta delle noci

    Come oggi così allora, a volte tra amici, per descrivere un fatto vissuto, si tende ad ingrandire il contenuto.
    Così successe che un giorno, per farsi bello dinanzi ai suoi coetanei, Alfonso raccontò il particolare della raccolta delle noci.
    Sotto un albero con i frutti maturi non c'era nemmeno una noce.
    Perbacco, come fare per farle cadere? Sentite -disse- “pigliàtt' 'na lemba re terra e la scittàtt' 'ncimm' a l'alber' e carìv' 'nu quintal' re nuc'” (presi una zolla di terra, la buttai sopra l'albero e cadde un quintale di noci).
    Come far credere verosimile un fatto che nella realtà non si può avverare?
    “E tutt' stèven' cu' la vocc' aperta!

Trascorsi erotici tra amici

    Alfonso e gli amici discutevano spesso e volentieri degli aspetti sessuali legati all'organo maschile e al suo possessore: ”ce l'ha tanto, non ce l'ha tanto ecc.”.
    Un giorno il nostro, che a casa sua aveva ben cinque femmine, disse agli amici di cambiare argomento e di parlare di donne e dei loro attributi e così ebbe ad esprimersi un po rudemente: “e mo bast' re parlà' sempe re ca...zze. ricìte pure re menn' e re fe...sse; a casa mìja ne stàje mizz' quintal'!” ( e adesso basta di parlare sempre di ca...zzi, parlate pure di menne e di fe...sse ; a casa mia ce n 'è un mezzo quintale!).

“Ma cum', cu' lu vindicinch' uttàv' e l'ass' nun càre? (Ma come, col venticinque ottavo e l'asse non cade?)

    Nel tempo libero, Alfonso si divertiva con gli amici a giocare a carte, allora, frequentemente nelle cantine (l'unico bar esistente era quello in piazza di 'Francischina Stirracch', oggi gestito come bar Wanda dal nipote Fulvio).
    Il gioco era il tre sette ed era praticato comunemente da quattro persone o da due come avviene ancora tutt'oggi (in questo secondo caso si dice “a pitt' a pitt'”).
    Volle che Alfonso ebbe un venticinque ottavo e giocandosi prima il tre e poi il due l'asso non cadde.
    Immaginate la meraviglia e il dispiacere del nostro che così, la per la, esclamò: “ma cum', cu' lu vindicinch' uttàv' e l'ass' nun care?” (ma come, con il venticinque ottavo e l'asse non cade ?).
    La verità era che gli avversari Rocco Stridacchio e il veterinario Caldenzi erano andati piombo per una mano e con le carte coperte Alfonso non poteva verificare la scorrettezza di gioco.
    Alfonso non se ne dette pace quel giorno, né nei giorni successivi e il fatto accaduto restò per mesi e per anni nella diceria delle persone del paese.

“Manch' l'anemal' me r'ann' arètta” (Nemmeno gli animali mi ascoltano)

    Alfonso andò un anno a Milano per stare qualche giorno con una figlia lì sposata e nella periferia della città, negli anni 50', essendoci un po di terreno intorno all'abitazione, si allevavano gli animali da cortile, come d'altronde avveniva nei nostri paesi.
    Il nostro cercava di attirare l'interesse delle bestie pronunziando le parole onomatopeiche tipiche in uso a Vallata: “cutà cutà” per le galline, “zu zu” per i cani, “musc' musc'” per i gatti ecc., ma gli animali non davano alcun assenso perché abituati ai richiami in dialetto lombardo.
    Al che Alfonso, meravigliato, così sbottò: “o ca...zzo, ca manch' l'anemal' me r'ann' arètt', sarràje cangiat' lu munn'!” (o ca...zzo, qua nemmeno gli animali mi danno retta; sarà cambiato il mondo!).
    La verità era che in quegli anni la lingua nazionale non era ancora diventata patrimonio di tutti e l'uso dei dialetti regionali era diffuso dappertutto, nemmeno facevano eccezione le espressioni e le parole onomatopeiche per riferirsi e raccordarsi con gli animali.

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(teste: Francesco Travisano: un bravo operaio, conducente di camion con accertata professionalità e un buon padre di famiglia, vive in via Chianchione a Vallata)
“Lu prèvet' e lu sacrestan' a 'ndò lu cunfissiunòl'” (Il prete e il sacrestano nel confessionale)

    Fino ad alcuni decenni fa, la chiesa nei piccoli paesi si reggeva su due figure importanti quella del prete e quella del sacrestano.
    Tra i due intercorrevano rapporti spesso anche personali, fino a confidarsi le cose le più particolari.
    Oggi la gestione di una chiesa specie se parrocchiale presuppone una serie di figure professionali di tipo nuovo e diverso dal passato.
    Successe che il prete aveva notato che nella cantina di sua proprietà , venisse a mancare la roba, una volta un caciocavallo, una volta un prosciutto, una volta un capicollo ecc.
    Il religioso si pose il problema di chi fosse il ladro e sapendo che più vicino a lui nella conoscenza delle proprie cose era il sacrestano, decise di confessare costui.
    Nel confessionale il prete chiedeva al sacrestano se dei vari furti egli sapesse qualcosa.
    Il sacrestano rispondeva sempre: “zì prè(vete)!, ra ca nun se sent'!” (zio prete!, da qui non si sente!).
    Dopo di che i due invertirono i ruoli, il sacrestano faceva il confessore e il prete il confessato.
    Il primo domandò al secondo: “zì prè(vete)!, ma tu ra do sìnt'?” e il secondo in risposta: “si, si, ra ca se sent'!” ( si, si, di qua si sente!).
    Di nuovo il primo: “zì prè(vete)!, è ver' o nun è ver' ca quònn' ìjo nun ci stongh', tu te tìn' a muglijèrema?” (zio prete, è vero o non è vero che quando io non ci sono tu ti tieni a mia moglie ?) e il secondo: “a no sacrestà'! Aje raggiòn' tu! ra ca nun se sent'!” (ma no sacrestano! Hai ragione tu! Di qua non si sente!).
    Come nella favola del gatto e la volpe: tutti e due usavano la scusa di non sentire la voce l'uno dell'altro, per non rispondere alle proprie responsabilità.

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(teste: Colicchio Paolino)
Il concetto dell'unità di misura

    Paolino Colicchio, chiamato anche dallo scrivente, amichevolmente, “avàscia ca 'ndùpp'” (abbassa che puoi sbattere), oggi in pensione, ha svolto per lunghi anni il mestiere del barista in via Ina Casa di Vallata.
    All'inizio dell'attività dovette apprendere tutto del nuovo mestiere, avendo in precedenza svolto altri lavori, di contadino, prima, a Vallata, di operaio edile, dopo, quale emigrante in Svizzera.
    Tornato in paese, agli inizi degli anni 70', impiantò l'attività commerciale e così successe che un rappresentante di generi alimentari propose al nostro di acquistare un po di roba (caramelle, dolcetti, brioche ecc.) che poteva rendere più accattivante il locale.
    Paolino condivise il suggerimento e quindi passò a fare la commissione.
    Il discorso scivolò sulle unità di misura e il commesso chiedeva come l'ordine dovesse articolarsi se in ettogrammi, chilogrammi, ecc.
    Paolino che, specie nell'attività agricola, aveva avuto a che fare con altre unità di misura rispose, quasi facendo lo gnorri: “ma qual' ettogramm', chilogramm', te ràje a te! Ìjo sàccije sul' trattà' cu' “tòmmel', mizzitt' e misur'”, àje capìt' tu?” ( ma quali ettogrammi, chilogrammi, ti danno a te! Io so solo trattare con il tomolo, il mezzetto e la misura.
    Erano, queste, tipiche misure agricole che ancora oggi esistono e vengono usate nelle transazioni di beni tra quei pochi contadini che sono rimasti a Vallata.
    La pratica del mestiere, poi, fece acquisire al nostro Paolino la necessità di utilizzare anche le nuove misure e non ci volle un lungo tempo perché egli ne diventasse conoscitore ed esperto.

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(teste: Rosario Gallicchio)
Il filosofo all'incontrario

    Un vallatese emigrò negli Stati Uniti, si pensa che il fatto sia avvenuto nel primo ventennio del 900' e stando sulla nave vide un giornalaio ambulante che vendeva il cosiddetto “giornale di bordo” e c'era pure qualcuno che lo comprava.
    Pensò anche il nostro di fare la stessa cosa e su una panchina, seduto comodamente, faceva finta di leggere, dandosi anch'egli un aria di intellettuale.
    Un suo compaesano, avvicinatosi, gli fece osservare che il giornale era tenuto all'incontrario (“vìr' ca tu lu giurnòl' lu tìn' a la storta!”).
    Il primo candidamente gli rispose: “uè! paisà'! Chi sap' legge, legge a l'addritta e a la storta” (vedi, paesano, chi sa leggere, legge a dritta e a rovescio!)
    Il nostro, dopo alcuni anni di lavoro e con un po' di denaro messo da parte, tornò al paese, si comprò del terreno e al momento della mietitura ingaggiò una 'paranza' di braccianti (quattro mietitori più un legante) per raccogliere il grano.
    Egli stava sull'asino, con la posa rivolta all'incontrario sul basto dell'animale perché così pensava di poter controllare meglio il lavoro dei dipendenti.
    Uno di questi, per provocarlo, gli chiese di fare loro sentire una bella suonata di tromba, dato che sapeva che costui, durante il militare, aveva imparato a suonarla.
    Il nostro ordinò immediatamente alla moglie di andare a prendere lo strumento e così sì mise a suonare.
    Ma l'asino, sentendo il suono si mise a correre e il trombettiere restò impigliato nella staffa e fu trascinato malamente per terra per tre o quattrocento metri.
    Alla fine, malconcio, così disse all'animale: “maledetto a te e chi ti ha messo al mondo!”.
    Quando le cose nella vita si mettono all'incontrario (“a cap' cul'”); bisogna dire, ad onor del vero, che la maggior parte degli emigranti vallatesi negli Stati Uniti hanno storicamente onorato il loro sacrificio o avendo fortuna restando definitivamente nella terra che li ha ospitati o tornando nel loro paese d'origine, facendosi anche qui una buona posizione.

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(teste: Rocco Cirillo, col soprannome simpatico di “Zompa Cardillo”, è stato già presentato nelle precedenti raccolte di racconti).
   
Un personaggio che si avvicina alla ottantina d'anni, storico suonatore di organetto e alcuni suoi pezzi musicali sono stati incisi in tre stereo cassette e in due DVD (Il nipote Rocco, figlio di Alfonso continua oggi la tradizione e come nipote d'arte è già conosciuto sul territorio dagli amanti di questo strumento).
    Rocco è' un ottimo narratore che descrive il mondo contadino di una volta attraverso tutte le sfaccettature anche perché il suo vissuto è stato sempre in agricoltura.
    Vive felicemente con Maria Ragazzo che l'accompagna con il canto riuscendo a formare un 'duo' veramente unico.
    I suoi racconti hanno un sapore arcaico e non sempre sono a lieto fine, spesso traducono momenti drammatici della vita specie di un tempo in cui la legge del diritto era sostituita da quella della natura).

Il marito e la moglie traditrice

    Un marito, geloso della moglie che dava segni di volerlo tradire con un altro uomo, volle verificare il sospetto.
    Confidò alla consorte che in un buco grande di un tronco di una quercia gigante plurisecolare, la vicino all'abitazione, appariva l'immagine di San Carbone.
    La coniuge non perse un attimo e all'insaputa del marito andò a visitare la cavità e chiese consiglio al santo come poter tradire il marito.
    Se nonché il marito, avendola preceduta e nascosto nelle vicinanze, fingendo la voce del santo, le consigliò di uccidere una gallina nera che per effetto avrebbe prodotto l'accecamento del consorte.
    Di ritorno all'abitazione la moglie trovò il marito che già stava uccidendo la gallina, e il secondo spiegò che quella era da mesi che non faceva più uova e che era meglio cucinarla.
    La signora in cuor suo, pensò che il consiglio del santo si stava avverando.
    Il marito, poi, decise di andare in campagna e la moglie approfittando dell'assenza di questi, invitò subito presso di se l'amante.
    Ma il consorte fece presto ritorno e l'amante dovette nascondersi andando a mettersi dentro una tinozza che era nei paraggi.
    Il tradito, avendo visto con la coda dell'occhio tutta la scena, prese un bastone nodoso e andò a uccidere l'amante.
    Bisognava sbarazzarsi del morto e di notte tempo lo portarono al torrente, ma il marito, con uno stratagemma, arrivato sulla riva, riuscì a legare con una fune la moglie insieme al corpo del defunto e li gettò tutte e due nell'acqua facendo annegare la consorte e sbarazzandosi così di entrambi.

Il padrone, il garzone e i monaci del convento

    Un padrone, grande proprietario terriero, dette al garzone il compito di condurre al pascolo 50 maiali.
    Un bel giorno il dipendente si vendette gli animali e facendosi dare le orecchie dagli acquirenti li andò a sistemare su un terreno paludoso e fece credere al padrone che quelli erano morti annegati e che ne fuoriuscivano solo le estremità auricolari.
    Il padrone allora comprò 50 capre e allo stesso modo incaricò il garzone di portarle a pascolare.
    Se nonché un giorno le capre andarono a finire nei terreni recintati di un convento di monaci i quali se ne impossessarono e non vollero restituirle.
    Licenziato il garzone, il padrone che cosa inventò di fare per recuperare i sui beni?.
    Si travestì da monaco e giunto di nascosto al cospetto del padre superiore, riempì questi di botte, chiedendo la restituzione degli animali.
    Ma il fatto non avvenne per cui successivamente il padrone si travestì da medico ed entrato nel convento finì di percuotere lo stesso superiore.
    Questa volta i monaci vennero a miti consigli e decisero di restituire la refurtiva inviando tre fraticelli che accudivano gli animali insieme alle rispettive capre.
    Il padrone li accolse, li fece mangiare e bere e poi li spedì a dormire.
    Solo che nelle lenzuola aveva sistemato della polenta e i tre frati scivolavano una continuazione per cui decisero di scappare subito all'esterno dell'abitazione e andarono a rifugiarsi in una tinozza piena tutta di nerofumo.
    Di poi fuggirono nel paese e gli abitanti, avendoli scambiati per diavoli, volevano fucilarli, finché i poveretti con le mani alzate e chiarendo che erano delle umili persone, furono fatti salvi della loro vita.

L'ingenuità del povero contadino

    Un ingenuo contadino buontempone doveva prendere i piccioni dalla piccionaia (fino a qualche decennio fa le abitazioni venivano dotate nella parte superiore del tetto di particolari cellette per favorire la riproduzione di questi volatili) ma, siccome la scala era un po' corta, cosa pensò di fare?.
    Legò questa al basto del suo asino, salì sopra, fece l'operazione di raccolta e quando fu il momento di scendere gli venne da dire: “Ah! Se uno mo passass' e me ricess': tu che fàje dò?” (Ah! Se uno adesso passasse e mi dicesse: tu che fai lì?).
    Giusto in quel momento l'asino che era rimasto immobile, al sentire quell'”Ah!” (che è l'onomatopeico per farlo muovere) si mise a correre e il povero ingenuo contadino cadde dalla scala rovinosamente e i piccioni se ne volarono.
    Così si direbbe: “lu ciucc' lu 'nchianàje lu ceràs' e li cani s'abbuttòren' ri la risa” (l'asino salì sul ciliegio e i cani si abbuffarono di risate).

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