- Racconti - A cura del Prof Severino Ragazzo

Racconti
Ottava Parte

A cura del Prof Severino Ragazzo.

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Teste: Rocco Cirillo
Il marito, la moglie e il prete.

    Un contadino, ogni sera che rientrava dal lavoro, era solito salutare la moglie col dire: “bona sera, fèmmena senza sinz'” (buona sera, donna senza sensi).
    La moglie lo sopportava, anche perché in una famiglia patriarcale come era quella fino alla seconda metà del 1900, il maschio per avere sempre ragione ricorreva a volte anche alla violenza fisica.
    D'altra parte la legislazione era ancora premiale verso il maschio e punitiva verso la donna.
    Volle che un sabato Santo il parroco del paese andò a visitare la casa (era tradizione e perdura ancora tutt'oggi la pratica da parte dei religiosi di andare in questo giorno a benedire le abitazioni) e la donna decise anche di confessarsi e nel segreto della confessione chiese al celebrante consiglio come mettere rimedio alle continue ingiurie del marito.
    Nell'abitazione, per l'occasione, erano appesi al soffitto su lunghi pali ('pertiche') salsicce, soppressate, capicolli, ventresche, caciocavalli messi ad essiccare.
    Il prete, avendo dato alla signora un consiglio particolare, forse legato all'invocazione dei Santi e alla maledizione del marito per le offese ricevute, fece man bassa quasi di tutto quello che era esposto, non disdegnando nemmeno di consolare la padrona con gioie e carezze di ogni tipo.
    Quando il marito tornò dalla campagna, la moglie prese subito discorso e fece capire di avere messo i sensi e che da quel giorno non intendeva più essere apostrofata in malo modo, confidando la visita del parroco e dei consigli che questo le aveva dato.
    Il coniuge voleva vendetta verso il religioso specie per i beni scomparsi dal soffitto, ma quando seppe che quest'ultimo a casa sua era ben armato, rinunciò a mettere in opera il proposito e così restò, si direbbe, “curnut' e mazziàt'”.

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Teste: Severino Ragazzo
L'ingegnere Angelo Monaco e l'arciprete del paese.

   
L'ingegnere 'don Angiulino' Monaco doveva fare un giorno il compare di matrimonio ed entrò di mala voglia in chiesa al momento della cerimonia.
    Fu visto dall'arciprete e con il semplice sguardo dell'uno verso l'altro incominciarono a volare scintille tra i due.
    Per cui l'ingegnere decise di uscire dalla chiesa così dicendo al religioso: “z'acciprè, si ìjo nu' me n'esco, tu a chisti dùje nu' ri spuse né oscje e né craje” (zio prete, se io non me ne esco, tu a questi due non li sposi né oggi e né domani).
    Allora, dopo la seconda guerra mondiale era molto forte la lotta tra clericali e anticlericali, come d'altronde quella tra i partiti specie la D. C. (Democrazia Cristiana) alla cui formazione concorsero molti religiosi e la sinistra P.S.I e P.C.I, Partito Socialista e Partito Comunista.
    All'occasione l'arciprete verso gli elementi più intransigenti della sinistra non disdegnava di utilizzare il divieto di partecipare ad alcune funzioni religiose per esercitare il proprio potere.
    Così come quando il prete, il sabato Santo, andò a benedire la casa dell'ingegnere e questi fece capire che là il padrone era lui e che l'acqua benedetta la riservasse per altre persone.
    Era questo il periodo della cosiddetta' guerra fredda' ed ognuna delle parti in causa restava separata dall'altra; ci volle il concilio vaticano II° e l'apertura del papa Giovanni XXIII° per favorire l'incontro tra laici e cattolici intorno ad una visione comunitaria, plurale e cosmopolita della società.

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Teste: Severino Ragazzo
Don 'Peppe' Tanga e don Vincenzo Pelosi.

    I due vallatesi don 'Peppe' e don Vincenzo, intorno alla fine degli anni 30' del 1900, studiavano a Napoli all'università.
    Era questo un periodo molto travagliato per gli studenti, la guerra da un lato e i disagi e le precarietà nello studio dall'altro, tanto che i discenti dovevano autogestirsi in tutto e per tutto.
    Si dovrà attendere gli anni 60', grazie anche alle lotte studentesche, perché migliorassero i servizi da parte dell'università come le mense, le case degli studenti, i presalari, i buoni libri etc...
    E successe che la padrona della pensione cadde malata e chiese consiglio a don Vincenzo come rimediare un medico per farsi visitare ed assegnare una cura.
    Il nostro Vincenzo subito riferì alla signora che aveva un amico, suo paesano, don 'Peppe' Tanga che se ne intendeva di medicina.
    Così don 'Peppe', con la sua caramella sempre a portata di mano, fece finta di visitarla e alla fine le ordinò un farmaco, un lassativo che però ebbe l'effetto desiderato tanto che la signora si riprese e chiese come potersi ripagare del fastidio procurato.
    Don 'Peppe', rifiutando la pecunia, intese per un bel po di giorni visitare la casa della signora e tutto quello che voleva mangiare e bere era a sua disposizione.
    Conoscendo il tipo ci viene da dire: “E bravo a don 'Peppe'!”
    Don 'Peppe' era a Vallata un personaggio unico; usava l'umorismo per ridicolizzare persone e stili di vita del periodo che va dagli anni 40' agli anni 70'.
    Dovette però subire a sua volta le invettive dell'illustre letterato Pietro Tarchini che in una famosa satira poetica dal titolo 'il carnevale' del 1945 mise alla berlina diversi attori della vita cittadina compreso il nostro.

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Teste:Maria Ragazzo e Rocco Cirillo
Dialogo in Paradiso tra Gesù e San Pietro.

    Oramai l'esperienza terrena di Gesù e San Pietro era finita e la nostalgia di conoscere i fatti che si svolgevano sulla terra era in loro sempre presente, pur stando tutti e due in Paradiso.
    Un giorno Gesù ordinò a San Pietro di tornare sul nostro pianeta e di fare un resoconto degli umori della gente.
    (Gesù): “Pietro vai a sentire che dicono le persone e come vivono”.
    (Pietro di ritorno): “O Gesù, quelli là stanno tutti che piangono!”.
    (Gesù): “E questo non sta bene!”.
    Dopo un po di tempo San Pietro tornò per la seconda volta sulla terra e così riferì al suo maestro:
    (Pietro): “O Gesù, quelli là stanno tutti che ridono!”.
    (Gesù): “E questo non sta bene!”.
    San Pietro, dopo altro tempo, tornò per la terza volta e così riferì:
    (Pietro): “Caro Gesù, quelli piangono e ridono!”
    (e Gesù): “E così sta bene”.
    Vuole essere questo un esempio di come le dicotomie sono insite nella natura delle persone; in questo caso è il pianto e il riso ma ce ne sono tante altre come il bene e il male, la guerra e la pace etc...
    Verrebbe da ricordare un detto locale che penso calzi a pennello: “quonne se chiange se rire e quonne se rire se chiange” (quando si si piange si ride e quando si ride si piange).


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Teste: Rocco Cirillo
la cisterna ('la fesina') d'olio, il maiale e l'avvocato.

    Due clienti si rivolsero allo stesso avvocato per farsi difendere la propria causa in tribunale.
    Il primo portò in regalo una 'fesina' piena di olio e il secondo un maiale.
    Solo che la causa si svolse a favore del secondo e a danno del primo.
    Il primo cliente chiese spiegazione della condanna inflittagli e l'avvocato così gli rispose: “Embè, e che ci vùje fà'; lu purch' cu' lu muss' àve rotta la fesina e accussì lu patrone sùje àve vint' la causa” (Ebbene, e che ci vuoi fare; il maiale con il muso ha rotto la cisterna e così il suo padrone ha vinto la causa).
    L'allegoria qui sta a dimostrare come non è vero che sempre 'la legge è uguale per tutti' come recita la scritta che campeggia in ogni tribunale.
    A volte succede che il potente di turno riesca a farla franca, corrompendo chi la legge dovrebbe farla rispettare e questo a danno di chi nel valore della giustizia ci crede con convinzione e senza infingimenti.


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Teste: Severino Ragazzo
Alfonso Tanga e il regalo delle cipolle ai mietitori.

    'Affonz' Capone' così il soprannome di Alfonso Tanga era un grande proprietario terriero che durante il periodo della mietitura ('la metenna') le studiava di tutte.
    Oltre all'uovo dato singolarmente ad ogni mietitore, che cosa pensò di fare.
    Andò al mercato del giovedì ed acquistò una grossa quantità di cipolle fresche.
    Al momento della merenda ('la merenna') pensò bene, oltre al formaggio, al vino di fare dono delle cipolle ai mietitori.
    Con questi c'erano anche i loro figlioli minori che davano una mano a raccogliere i covoni.
    Alfonso, mangiando lui per primo le cipolle, voleva far capire la bontà delle medesime ed invitava anche i piccoli a mangiarle.
    Fu allora che un genitore disse al figlio con autorità paterna: “lassa stà sa robba, figlje mìje, tande 'nci stà lu patrone ca se re mangje a lu post' tùje” (lascia stare questa roba, figlio mio, tanto c'è il padrone che se le mangia al posto tuo).
    Fino all'arrivo delle mietitrebbie, il lavoro della mietitura a mano era molto faticoso ed i soggetti in causa il padrone da un lato ed i braccianti mietitori dall'altro cercavano ognuno di avere il proprio tornaconto ed in questo contesto ogni mezzo era lecito per raggiungere un determinato vantaggio anche se si faceva uso di sotterfugi a volte spinti all'eccesso.


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Teste: Rocco Cirillo
Il furto del maiale da parte del compare.

    Fino a qualche decennio fa, quando Vallata era un paese prevalentemente agricolo, era diffuso l'usanza di allevare il maiale (e questo avveniva anche nel centro urbano) e poi servirsene per l'economia familiare ricavando insaccati, prosciutti, capicolli, sugna, lardo e accessori vari.
    E fu così che un contadino uccise il maiale e invitò anche il compare a partecipare all'evento.
    Dopo aver fatto tutte le operazioni di rito, il compare, prima di congedarsi, consigliò il proprietario di esporre, di notte, l'animale all'aria aperta così che, al freddo, sarebbe congelato ben bene.
    E così fu fatto.
    Senonché, ad una certa ora della notte, il compare andò di nascosto all'abitazione dell'amico e mentre questi dormiva si rubò l'animale.
    La mattina successiva, quando si trattò di spezzettare ('pizzià' ) il maiale, il proprietario , in presenza del compare che era venuto ad aiutarlo, si accorse con sua sorpresa ed amarezza che l'animale non c'era più.
    Il compare a sua volta facendo finta di partecipare al dispiacere, consigliò il proprietario di rendere pubblico l'accaduto, perché così avrebbe evitato di portare la carne ai vicini di casa o parenti (era abitudine che chi uccideva il maiale facesse partecipe gli altri di un piccolo assaggio di carne e siccome l'uccisione del maiale durava a volte per diverse settimane, con la pratica della restituzione, tutti avevano modo di saggiare diverse volte la carne dell'animale.
    E' questo racconto un esempio che va contro la regola dei rapporti che esistevano nella società contadina nella quale il rispetto della 'roba', dei beni della persona era un fatto sacrale specie tra persone che avevano relazioni di 'comparizia', di vicinato o di parentela.
    Evidentemente la fame faceva fare questo ed altro, se si pensa che a volte si andava a disotterrare un animale morto e poi lo si mangiava tranquillamente o come ci si nutriva di gatti o allevati allo scopo o vissuti allo stato selvaggio.

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