L’epigrafe di Taverna delle Noci a Vallesaccarda - Prof. Rocco De Paola

L’EPIGRAFE DI TAVERNA DELLE NOCI
A VALLESACCARDA
NOTA FIN DAL SETTECENTO
POTREBBE COMPROVARE L’ESISTENZA
D’UNA ANTICA “MANSIO” LUNGO UNA VIA ROMANA
A cura del Prof. Rocco De Paola
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     Il toponimo “Taverna delle Noci” deriverebbe la sua denominazione da una “taberna” che forse sorgeva sulla riva destra della Fiumarella, in territorio di Vallesaccarda, poco più a valle del paese. I resti di quel vetusto edificio erano ancora visibili, fino a non molti anni orsono, nei pressi di un mulino ad acqua che ha continuato a funzionare fino agli anni Venti del secolo scorso, per poi cessare del tutto l’attività, essendo stato in parte distrutto a causa del devastante terremoto del 1930, con epicentro nella zona del Vulture, che colpì rovinosamente anche le nostre contrade(1).



     Proprio in quella zona, nel “Secolo dei Lumi”(2), si trovava una “columna formae lucanae”(3), verosimilmente una stele o un coperchio che erano utilizzati, in epoca imperiale, come segnacolo di una sepoltura, stando a quanto si deduce dalle epigrafi che vi erano incise(4). La pietra giaceva accanto ad una vecchia stalla, secondo il resoconto di un anonimo che, forse, per primo ebbe a segnalarla(5). Heinrich Dressel, collaboratore e discepolo di Theodor Mommsen, “recognovit” il testo epigrafico, ossia ne esaminò l’edizione, emendandolo da errori di lieve entità, come la “Q” del terzo rigo invece della “C”, e restituendo la “E” di Geminus parzialmente erasa, mentre la “M” è inferita dal contesto della stessa parola, essendovi probabilmente una lacuna segnalata con //. Questa anamnesi critica potrebbe essere avvenuta successivamente alla comunicazione, fatta dal canonico Andrea Calabrese(6) all’Istituto di Mommsen(7). La segnalazione di Calabrese con la descrizione della epigrafe avvenne, con tutta probabilità, nel 1875, come per altre iscrizioni simili rinvenute nella zona. E’ noto che l’insigne studioso tedesco fece numerosi viaggi anche in Irpinia(8), ma la ricognizione epigrafica per la compilazione dei volumi IX e X del CIL fu affidata ai suoi più stretti collaboratori Brunn, Hirschfeld e Dressel(9). Questa copiosa messe di notizie, seppur sommaria, desunta in massima parte dalle note che si trovano nel Corpus Inscriptionum Latinarum, ci consente di fare tutta una serie di considerazioni preliminari. Innanzitutto la forma del monolite, della tipologia della cosiddetta “arca lucana”, ovvero a baule, la cui diffusione si attesta soprattutto nei secoli II e III d. C.(10), consente di stabilire dei termini cronologici “a quo” “ad quem” circa la possibile datazione del manufatto di Taverna delle Noci. La diffusione della “cupa”(11) è documentata in diverse regioni dell’Impero, in Dacia, nella Mesia, in Africa, in Gallia, nella Penisola Iberica. Nella nostra Penisola è attestata soprattutto in Sardegna, ad Ostia, a Roma, nell’Italia centro-meridionale ed in Irpinia in particolare(12). Dall’analisi del corredo epigrafico di diverse lapidi si deduce che questa tipologia di sepoltura va ricondotta ad una precisa classe sociale, un ceto medio composto soprattutto da schiavi, liberti e militari e non è da escludere che la diffusione di tale monumento funerario possa essere collegata alle loro attività ed ai loro spostamenti sul territorio(13). Le “cupae”, in genere, si trovavano in veri e propri cimiteri, formando delle lunghe teorie di tombe, come si può evincere anche considerando la loro diffusione nelle nostre zone. Esistono, difatti, testimonianze attendibili sul ritrovamento di altri numerosi esemplari e alcuni di tali cippi si conservano ancora in diverse località(14). Già don Arturo Saponara, in un suo opuscolo pubblicato poco oltre la metà del secolo scorso, ebbe ad affermare che ben tre coperchi di sarcofago a baule furono ritrovati a Vallata e nel suo territorio(15). La testimonianza del dotto sacerdote, appassionato ricercatore di reperti e studioso della storia locale, è assolutamente degna di fede, anche perché ci sono dei probanti riscontri. Uno di quei cippi, rinvenuto a Serro Martino, non lontano dal casello autostradale, già descritto da Saponara, è stato recuperato, in modo del tutto fortuito, alcuni anni orsono ed è stato oggetto di un mio lavoro(16). Un altro cippo, preso in consegna di persona e studiato da Saponara, interessa anche perché riportava il nome della gens “Messia”(17), lo stesso di quello del sarcofago di Taverna delle Noci. Un grosso monolite di tipologia simile fu scoperto alcuni decenni orsono a valle di Mezzana Perazze, in territorio di Vallata, ed è attualmente custodito nel cortile del castello di Bisaccia. Numerosi altri “cassoni” a baule sono stati dissotterrati in una zona al confine dei Comuni di Sant’Agata di Puglia(18), Accadia e Scampitella. Come si vede, quel tipo di sepoltura era molto diffuso in un territorio abbastanza omogeneo. Anche in località più distanti, come Venosa(19) e Canosa(20), è possibile rinvenire esemplari simili di copertura delle tombe. Come già si è discorso, il monolite di Taverna delle Noci era noto fin dal Settecento e pervenne dapprima all’attenzione di Mommsen mediante un codice napoletano. Intanto, numerosi altri studiosi ebbero modo di prenderne diretta visione, come Franceso Maria Pratilli(21), che riporta una versione dell’epigrafe alquanto diversa da quella a noi nota da CIL IX, 1406, alla quale ci atteniamo, conforme anche alla scritta citata da Saponara. Pratilli accredita senz’altro l’ipotesi che la taverna della omonima contrada di Vallesaccarda sia quella ove avrebbe sostato Orazio. “ E perciò disse Orazio: vicina Trivici villa quella, dove albergar dovette sulla strada presso l’osteria oggi detta delle noci, nelle cui vicinanze son le reliquie di antichi edifizi e chiamati sinoggi alla villa. Prima di giugnere quella via alla detta osteria, va alquanto declinando in una angusta valle per lo spazio di circa a mille e cinquecento passi, ove conservasi ancora la seguente antica iscrizione “D. M. / PLATONIAE (sic) / CASTAE / Q. MESSIVS / CIMINIVS (sic) / CON. B.M.F.”.
     Mommsen diede un giudizio impietoso di Pratilli, ritenendolo responsabile di aver “infestato e macchiato” il tesoro epigrafico campano. Tale severo giudizio è stato ribadito anche da diversi storici moderni che lo accusano di aver prodotto gravi distorsioni in ordine alla documentazione relativa al Medioevo, creando veri e propri falsi che avrebbero tratto in inganno taluni studiosi della materia. In tempi più recenti la sua figura è stata parzialmente riabilitata. Lorenzo Giustiniani cita una epigrafe(22) molto simile a quella in esame, anche se con rimarchevoli differenziazioni riguardo alla dedicataria, tanto da ingenerare qualche plausibile perplessità. D’altronde, una epigrafe del tutto affine fu riportata anche da Raimondo Guarini(23) il quale ne fu informato tramite il “culto amico e Professore di Medicina D. Fabio Ciampi” che, a sua volta, la avrebbe appresa proprio da Giustiniani. Mommsen, poi, cita sia Giustiniani che Guarini (CIL IX, 1406), ritenendo, erroneamente, che facessero riferimento alla lapide di Taverna delle Noci. Essi, infatti, nei loro scritti affermano che l’epitaffio in oggetto sarebbe stata rinvenuta nel territorio di Frigento o, in subordine, in quello di Eclano. E’ opportuno, a questo punto, riportare il testo dell’epigrafe di Vallesaccarda, della esistenza della quale non può sorgere dubbio veruno, nonostante la singolare coincidenza di molti punti di essa con quelli della presunta lapide di Frigento. L’attestazione concorde di tanto numerose ed autorevoli testimonianze fuga ogni minima titubanza, nonostante si tratti, comunque, di un apografo.

D • M •
PLATORIAE
CASTAE
Q • MESSIUS
GEMINVS
CON • B • M • F •

     Nella nota di CIL, IX, 1406, si precisa, come già anticipato sopra, che al rigo 5 vada letto Q. anziché C., secondo la versione emendata da Dressel.
     La traduzione è abbastanza semplice e lineare. Quinto Messio Gemino, marito della defunta Platoria Casta, fece (questo sepolcro n.d.r.) alla moglie benemerita. Come per altre lapidi consimili, l’epigrafe si apre con l’ “adprecatio” agli Dei Mani, consueta, nella forma punteggiata, a far data dalla metà del I secolo d. C.(24). Si tratta di una formula che serviva ad identificare la sepoltura come un luogo inviolabile consacrato ai defunti e sottoposto alla loro autorità(25), secondo la prescrizione delle Dodici Tavole, riportata da Cicerone(26). La inviolabilità era tale che l’utilizzazione del sepolcro spesso veniva interdetta anche agli eredi, come si evince dal formulario H.M.H.N.S. (hoc monumentum heredem non sequitur, questo monumento non fa parte dell’eredità) che talvolta compare nelle epigrafi. La dedica a Platoria Casta pone qualche difficoltà, in quanto, trattandosi di un nome femminile, non è possibile stabilire se si tratti di un genitivo o di un dativo. Potrebbe sembrare una questione di lana caprina, ma essa importa per stabilire una più esatta datazione dell’epigrafe. Le prime formulazioni epigrafiche con la sigla Dîs Manibus, scritta per esteso o in forma abbreviata, riportavano il nome del defunto al nominativo. Successivamente esso fu scritto al genitivo e, poi, al dativo(27). Rimanendo escluso che si tratti di nominativo, il costrutto in esame rientra di diritto fra quelli cosiddetti “integrati”(28), nel senso che essi sono strettamente dipendenti, sia sintatticamente che semanticamente, da Dîs Manibus posto, in genere, in posizione centrale ed eminente. Nel caso del nome al genitivo o al dativo, infatti, il senso della dedica era: agli Dei Mani di “Tizio”, circoscrivendola solamente ai trapassati del dedicatario dell’epigrafe, il che non era se il nome fosse stato al nominativo, nel qual caso l’adprecatio si intendeva diretta in modo indistinto a tutti i defunti(29). Se, poi, il nome del defunto era al dativo, il morto era egli stesso assimilato agli Dei Mani(30). Nel caso in esame, essendo un nome femminile, è del tutto preclusa la possibilità di definire se si tratti di caso genitivo o dativo. Altra questione di grande momento è data dal “nomen” Platoria. Nonostante l’autorevolezza della fonte, qualche dubbio sulla sua reale grafia è indotto proprio dalla epigrafe riportata da Giustiniani, che, per altro, quasi certamente presenta una versione inattendibile. Difatti, di nomi del genere “Torta” non vi è traccia nel Corpus Inscriptionum Latinarum, per cui si deve necessariamente ritenere che la dizione fornita da Giustiniani debba essere considerata con sospetto. Tuttavia, si può inferire che “Piae Tortae”, forse per un errore di interpretazione, possa essere integrato in “Plaetoriae”(31), denominazione latina ricorrente nei testi epigrafici(32). Comunque sia, è possibile che la genesi di “Platorius” e “Plaetorius” possa essere stata comune per poi diversificarsi. Quanto alla origine del gentilizio, le ipotesi sono diverse. Samuele Pitisco ritiene che quella gens fosse di stirpe sabina, questo, tuttavia, è dedotto solo in base ad un cognomen che compare in una epigrafe (vedi nota 31). Più verosimilmente il nomen Platorius potrebbe derivare dall’etrusco Splatur(33). Altra possibile congettura sarebbe quella relativa ad una sua derivazione dal messapico(34). Vi sono, difatti, numerose attestazioni di nomi o cognomi di origine messapica, traslati, poi, nell’onomastica latina, com’è ampiamente comprovato(35), per cui l’origine del nomen Platorius dal messapico Platur(36) è, dunque, piuttosto verosimile. La presenza di una donna con quel gentilizio, di stanza con la famiglia presso le sponde della Fiumarella di Vallesaccarda, non deve destare meraviglia, data la contiguità del territorio con l’antica Daunia che, per la sua posizione geografica, aveva stretti rapporti di carattere culturale con l’antica Hirpinia nonché con la Peucetia e la Messapia(37). Tra i personaggi eminenti della gens Platoria, colui che, forse, raggiunse l’acme nel “cursus honorum” fu Aulo Platorio Nepote. La sua carriera politica è riassunta in una iscrizione di Aquileia, forse inscritta sul basamento di una statua a lui dedicata(38) per decreto dei decurioni, in quanto patrono di quel municipio. Nonostante l’origine plebea e lo status sociale di “homo novus”, fu tribuno della plebe, tribuno militare della XXIII legione, questore della provincia di Macedonia, intorno all’anno 115 d. C., in virtù del favore di cui godette da parte dell’ imperatore Traiano. Fu addetto alla cura ed alla manutenzione delle vie Cassia, Clodia, Cimina e Traiana. Legato della legione “I Adiutrix” fu poi propretore della Tracia e della Germania. Amico di Adriano, ottenne la carica di console e, successivamente, fu governatore della Britannia. Proprio in quel frangente, in qualità di legato, intraprese l’opera di costruzione del Vallo che prese poi nome da quell’imperatore(39).
     Il “cognomen” Casta deriva dall’omonimo aggettivo, come avveniva di frequente per l’onomastica romana che utilizzava, per distinguere i membri di una famiglia, termini desunti da caratteristiche individuali fisiche o morali, dal luogo di origine o dall’attività svolta(40). Divenuto ereditario, finì per distinguere i vari gruppi familiari accomunati dalla discendenza da una medesima famiglia gentilizia. “Castus” aveva una pluralità di significati e ricorreva di frequente soprattutto nelle Province dell’Impero ove erano stanziate truppe, a presidio della sua integrità territoriale e a difesa dei confini. Tale cognome è segnalato per ventitré volte nelle province di Africa, Germania, Britannia, Gallia Narbonense. Nelle regioni danubiane vi sono solo tre esempi di quel cognome(41). Nella “Regio II” risultano ben poche famiglie con il cognomen Castus e questo, tra l’altro, si trova solo al femminile. Oltre la Platoria Casta della nostra lapide, ve ne è una testimonianza a Mirabella (vedi nota 20) ed un’altra a Venosa nel cimitero ebraico con iscrizione in greco(42). Ad Alba Fucens, ai piedi del monte Velino, allora assegnata alla Regio IV, una epigrafe è dedicata ad una certa Allidia Casta(43). Ad Aquileia, della Regio X, risultano una Terentia Casta, un Antonio Casto e una Casta Profutura(44), mentre nella contigua provincia di Venetia et Histria la pietas dei genitori ha conservato nei secoli la memoria di due infanti, Grata, di appena un anno, e Castus, di tre anni(45), che destano ancora un moto di commiserazione nonostante l’abisso dei secoli. Tra tutti coloro che recavano il cognomen Castus ha di recente acquisito una vasta notorietà un certo Lucius Artorius, del quale si hanno notizie frammentarie desunte esclusivamente da alcune epigrafi rinvenute a Pituntium, odierna Podstrana, tra Spalatum e Almissa, in Dalmazia(46).
     L’interesse verso il misterioso personaggio, che sarebbe vissuto tra il II e il III secolo d. C., è accresciuto dal fatto che si è ipotizzato che possa essere identificato con il leggendario Artù(47), il mitico re della Tavola Rotonda che ha alimentato uno dei ricchi filoni letterari del cosiddetto ciclo bretone.

     L’origine del cognome Artorius, come si è già accennato, è verosimilmente messapica(48). La gens Artoria, allora, dall’Italia Meridionale si sarebbe spostata verso Nord, prendendo stanza in Dalmazia. Centurione in forza a varie legioni, la III Gallica, la VI Ferrata, la II Adiutrice, la V Macedonica e “primus pilus” della medesima, ovvero centurione del primo manipolo dei triari, capo della flotta del Miseno, fu comandante delle coorti degli alari della legione Britannica contro gli Armoricani e procuratore della provincia Liburnia con diritto di spada, ossia con poteri giudiziari. Come si vede, il “cursus honorum” vantato da L. Arturius Castus è di tutto rispetto. Taluni evidenti parallelismi tra le vicende di Artorius e quelle di Artù hanno indotto taluni studiosi ad identificare i due personaggi, o, quanto meno, a stabilire una connessione tra di essi, ritenendo il sovrano di Camelot un epigono di Artorius (49), nonostante il profondo iato cronologico che separa le virtuali figure storiche dei due personaggi.
     Quinto Messio Gemino sarebbe stato il committente del sarcofago a pro della coniuge benemerita. Il gentilizio Messius era di origine osca, anche secondo la testimonianza autorevole di Orazio(50), pur se taluno propende per una sua derivazione dall’idioma etrusco(51), ed era particolarmente diffuso, già in epoca repubblicana, in Campania e nelle aree della Magna Grecia. Al tempo di Cesare la gens Messia contava un senatore, “homo novus”, forse originario di Teanum Sidicinum, dove compare, nella stessa epoca, un Messius Stichus. A Cuma i Messî con il praenomen C. (Gaius?) sono piuttosto numerosi in un medesimo nucleo familiare, mentre altri personaggi, appartenenti alla medesima gens, hanno come praenomina Marcus e Lucius. A Capua compare un “magister” repubblicano, P. Messius Q. l. (CIL, I, 2506). Verosimilmente di origine campana era anche P. Messius Campanus, governatore a Creta, incaricato, nell’84 d. C., di dirimere una controversia confinaria tra la colonia di Cnosso ed un privato cittadino, tale Plotius Plebeius. Una nuova testimonianza sulla diffusione del gentilizio Messius proviene da una iscrizione di Forum Popilii, Civitarotta di Carinola (CE). Messius Scaeva fu un eminente personaggio di quel municipio, avendone ottenuto per tre volte la magistratura più importante. Il fatto rimarchevole risiede nell’alto privilegio, riconosciuto dalla “lex Flavia”, di poter esprimere il suo parere (“sententia”) vincolante su qualsiasi deliberazione adottata dalle autorità municipali.
     L’epigrafe, ora perduta (riportata da W. Johannowsky, Problemi archeologici campani, Rend. Acc. Napoli, 1975, pag. 3-38), era la seguente:
“C•MESSIO • C • F • Q • L • SCAEV (ae) / IIVIR • TER • CVI • LEGE • FLAVIA • DATVM • EST / PRIMVS • SENTENTIAM • SVI • ORDINIS / INTERROGARETVR •CUIQUE / POST • MORTEM • PVBLICE • FVNVS / LOCVSQUE • SEPOLTVRAE • DECRETVS / EST • SCAEVA F • ”(52). Persino nel lontano Veneto vi sono testimonianze della gens Messia, i cui componenti erano dediti alla pratica dell’arte figulina(53). In aree più prossime al territorio della Fiumarella vi è la testimonianza a Vallata di una Messia Secundina e di un Messia Fortunata, madre e figlia, in una epigrafe di un cippo a baule rinvenuto in muro presso l’allora piazza Mercato, e di un C. Messius a Frigento di cui si è detto nelle note. Un po’ oltre, in Apulia e Calabria, che corrispondeva grosso modo al Salento, vi sono attestazioni a Lucera(54), a Venosa(55), a Tarentum(56), a Brundisium(57). Di particolare interesse è un sarcofago del III secolo d. C. rinvenuto a Giovinazzo, nel 1560, che riporta una epigrafe di una certa Petilia Secundina, figlia di Quinto, “sacerdos Minervae”, defunta alla tenera età di nove anni, sette mesi e diociotto giorni. Il titolo di “sacerdos”, ovviamente onorifico data la giovane età della sacerdotessa della dea, è del tutto eccezionale, pur se il culto di Minerva è ampiamente documentato nella Regio II, ed è il segno del prestigio di cui godeva la gens Petilia in quella comunità. La madre infelicissima, Messia Dorcas, dedica il monumento alla figlia dolcissima “ob infaticabilem pietatem eius”, ossia per l’instancabile amore verso di lei(58). A Beneventum sono documentati numerosi individui appartenenti alla gens Messia. Messia Diadora, liberta di Quinto, compare in una epigrafe con Lucio Helvio liberto e con Lucio Helvio Peto, della medesima situazione giuridica, entrambi nummulari, ossia agenti di cambio (CIL IX,1707). Messia Rufa (o Rufra) è la dedicante di una lapide per Obidio (CIL IX, 1906). Sempre a Benevento, nella dimora di Giuseppe De Martinis si legge “Messius D•L•”. Poco distante, a Circello, sede dei Ligures Baebiani, nel Titulus Honorarius n° 1455, tra numerosi nomi compare un Messius Aper (CIL IX, 1455). Nella contigua Regio IV, ad Histonium, Licinia Neponta (o Nepotia) pone un monumento funebre in onore del coniuge con il quale ha convissuto per trenta anni (CIL IX, 2892), degna di nota l’inusuale “adprecatio” D I M (agli Dei Mani Inferi). A Corfinium, su una lastra di marmo, tra altri nomi, è attestato un Q. Messi[vs] (CIL IX, 3209), mentre a Superaequum si rinviene P•Messivs P•F•ser (CIL IX, 3324). A Forum Novum è riportato Messio Vindicio padre di un omonimo Messio (CIL IX, 4825). A Pompei sono sopravvissute delle scritte relative ad oltre una decina di Messî(59), in epigrafi e graffiti di cui uno, in particolare, ci ragguaglia, a distanza di duemila anni, circa la sfortunata performance erotica di un Messius non altrimenti identificato(60). Tra i componenti di quella gens, colui che raggiunse i fastigi del potere fu C. Messius Quintus Decius. Acclamato imperatore nel 249 d. C. assunse, poi, il nome di Traiano, passando alla storia semplicemente come Decio o, al più, come Decio Traiano. Mirando a restaurare il culto della tradizione pagana, fu artefice della prima, violenta persecuzione contro i Cristiani. La parabola politica di quell’imperatore si concluse prematuramente appena due anni dopo. Trovò, infatti, la morte, primo tra gli imperatori, su un campo di battaglia contro un nuovo, temibile nemico, il popolo dei Goti, i quali avevano varcato i confini dell’impero, invadendo le province orientali. Durante quella campagna militare aveva trovato la morte anche il figlio Quinto Erennio Etrusco Messio Decio, che egli aveva elevato al rango di Cesare per poi associarlo al trono come Augusto. L’altro figlio, Gaio Valente Ostiliano Messio Quinto, insignito del titolo di Cesare, ottenne per brevissimo tempo la porpora imperiale dal Senato e fu adottato da Treboniano Gallo acclamato, intanto, imperatore dall’esercito, per poi morire prematuramente di peste nel breve volgere di qualche mese. Così cessava la stirpe di Decio che aveva mirato a creare una vera e propria dinastia. La sua controversa figura sarà poi oggetto di discredito da parte di scrittori cristiani come Lattanzio.
     Il cognomen Geminus del nostro Quinto Messio trae la propria origine da un attributo, il cui significato è abbastanza palese. Esso, infatti, sta per gemello. Il cognome denota una scarsa diffusione nella Regio II, con solo due presenze, una di esse relativa al nostro Quinto Messio Gemino. L’altra presenza è attestata a Luceria, dove un Tito Statorio Gemino, colono del fundus Paccianus, (ricordato in CIL IX, 888) è il dedicatario del monumento funebre da parte del figlio “naturalis”(61). Un omonimo T. Statorio Gemino risulta tra i Ligures Baebiani (CIL IX,1486). Il cognomen Geminus compare nove volte nella Regio IV ed una volta nella Regio V. Il pagus Vecellianus, che Mommsen ritiene sia in territorio di Superaequum, dedica il monumento a Quinto Vario Gemino figlio di Quinto (CIL IX, 3305). Un omonimo Quinto Vario Gemino, eminente personaggio di Superaequum, municipio peligno, fu il primo tra i Peligni ad essere fatto senatore. All’insigne patrono del loro municipio, che ben meritò dei suoi concittadini, i Superequani dedicarono una lapide (CIL IX, 3306). Nella Marsica, “in ripa Fucini”, un certo Marco Emilio commerciante, fratello del defunto Q. Petiedio Gemino, e Petiedia Fortunata, liberta, dedicano (CIL IX, 3743). Ad Aveia, Claudio Epaphrodito titola la tomba alla moglie Claudia Gemina (CIL IX, 3624), mentre a Peltinum Elio Salutare e Ceonia Felicula ricordano nell’epigrafe il carissimo figlio Elio Gemino (CIL IX, 3449). Nella medesima località Apponioleno Massimo onora la memoria del figlio Arbaiano Gemino vissuto per appena venti anni (CIL IX, 3451). A Casauria, nella chiesa di San Clemente, su una lapide (CIL IX, 3058), è riportato il nome di C. Refidio Gemino, cittadino marrucino come il suo conterraneo Asinio reso famoso da Catullo che lo apostrofa aspramente, chiamandolo sciocco (Carmina, I, XII). A Reate (CIL IX, 4621) ad un T. Fundilio Gemino, seviro augustale, patrono della città e quinquennale perpetuo, avendo ben meritato della cittadinanza reatina, sono riservati grandi onori, con la dedica di una statua. E l’illustre personaggio denota la sua magnanimità assegnando ai decurioni, ai seviri ed ai giovani delle “sportulas” (canestri contenenti cibo) ed al popolo tutto “epulum et oleum” nel giorno del suo genetliaco ricorrente il giorno IV delle Kalendae di febbraio. Nella Regio V, a Ricina è attestato un C. Fufius Politicus liberto di Gemino che dedica forse una fonte “Nimphis Geminis”; il medesimo personaggio “aquas perduxit” (CIL IX, 5744).
     Nella Regio I, corrispondente alla Campania, confinante con l’Apulia ad est e con territorio meno esteso rispetto alla odierna regione, la presenza dei Gemini è documentata a Puteoli, a Neapolis, ad Herculani , a Capua, a Caiatia, ad Anagnia , a Minturnae, a Fondi, in Aenaria insula (isola d’Ischia). A Puteoli (CIL X.1, 1749) lo schiavo di Augusto Ermia Villico (cognome o attributo) fece (la tomba n.d.r.) per la coniuge Gemina, per sé e per i posteri. Le parole dell’epigrafe sono separate da “hederae distinguentes”. Su un epitaffio conservato nel museo di Neapolis (CIL X.1, 1778) si legge di un certo Giulio Agrippa che dedica la lapide alla moglie Arria Gemina, brava donna (femine sic) e sorella di latte di Arrio Germano Iuniore. Sempre a Napoli, in una epigrafe mutila,conservata presso gli eredi di Raffaele Barone, è riportato il nome di un Geminus non altrimenti noto (CIL X.1, 2480). Al n°3034 di CIL, sempre nella Regio I, una epigrafe, di incerta provenienza, registra un Sesto Vacenio Gemino che indirizza la dedica alla figlia Vacenia Sesta Gemina. Da notare il curioso intreccio dei nomi tra padre e figlia. A Capua (CIL X.1, 4407 nel pavimento della chiesa di San Benedetto) Vibio Gemino e Valeria Dignitas dedicano una epigrafe a ricordo del nipote Valerio Gemino, di anni cinque, sette mesi e due giorni. A Caiazzo, una volta nella chiesa di San Donato, ora nel museo napoletano, c’era una epigrafe (CIL X.1,4594) in cui la madre Raia Sabina, liberta di Gaio, dedica la lapide al figlio Sabino. Il seguito della scritta presenta qualche difficoltà di interpretazione, in quanto l’abbreviazione “disp” va, forse, intesa come dispensator o dispunctor, sorta di amministratore o tesoriere al servizio di Secondo Gaio Raio Gemino. La traduzione, aderente quanto possibile al testo, è letterale, ma non è esente da eventuali mende. Una epigrafe di Minturno (CIL X, I, 6042) riporta il nominativo di un O. F. Gemino e di altri personaggi tutti liberti di una donna. A Fondi è documentato un T. Fl. Gemino Degno coniugato con Aura Zosima per venticinque anni (CIL X.1, 6236). Un Geminus praetor e quattuorvir compare su una epigrafe a Vaelitrae (Velletri, CIL X.1, 6554). Sull’insula Aenaria (Ischia) i genitori Geminus e Artemis dedicano una epigrafe alla memoria della figlia Sallustia Nevilla (CIL X,I, 6805). Nella lontana Sardegna si hanno attestazioni di Gemini a Carales (Cagliari), dove una epigrafe è dedicata ad una Cornificia Gemina (CIL X, II, 7645). Ad Austis, in località “Perda litterada” si trovava la tomba di Geminus, liberto di Minucio Severo, di anni sette (CIL X.2, 6886). In una lastra di bronzo rinvenuta a Dorgali e conservata nel museo di Cagliari si fa menzione di un Ti. Claudio Servilio Gemino comandante di due coorti della I (legione n.d.r.) Gemina formata da fanti e cavalieri Sardi e Corsi, e della II (legione n.d.r.) Gemina composta di militari Liguri e Corsi. Ai soldati ancora in servizio, che avevano onorevolmente militato, e anche a quelli già congedati, si fa concessione da parte dell’impertatore Nerva della cittadinanza, comprese le consorti. La scritta è riportata nella medesima dizione sulle due facciate (CIL X.2, 7890). A Terracina su una lastra di marmo sono riportati numerosi nomi di cittadini che contribuirono alla erezione di una statua. Tra di essi figura un C. Manlio Gemino (CIL X.2, 8397).
     Le lunghe notazioni sulla diffusione del cognomen Geminus danno l’esatta percezione della sua diffusione e della particolare estensione territoriale, che denotano l’importanza di quel casato. Tale pletorico ma essenziale excursus ci fornisce anche una idea più circostanziata dei personaggi della epigrafe di Taverna delle Noci. Si tratta, forse, degli esercenti di quella mansio (o mutatio) che avrebbe fornito ristoro ai viandanti diretti a Roma o nella vicina Apulia? La mansio, dal verbo “manere”, era localizzata alla distanza di un giorno di viaggio, come si apprende da Plinio, ed era riservata ad agenti dello Stato in missioni ufficiali. Tra una mansio e l’altra c’era la mutatio, che, come dice la parola, era una stazione di sosta dove era possibile ai méssi ed ai veicoli di Stato di poter cambiare cavalcatura. Erano poste alla distanza di 5 o 10 miglia, circa 2 o 5 ore di viaggio. La statio era un vero e proprio presidio militare a garanzia della sicurezza dei viaggiatori. Nei pressi delle mansiones sorgevano diversoria, tabernae, cauponae, stabula, popinae. Le tabernae erano riservate a clienti benestanti, mentre le cauponae spesso erano osterie di infimo ordine. La “copa” più famosa è stata immortalata in un poemetto di pari titolo attribuito a Virgilio. Tra i servizi offerti, spesso era compresa anche la compagnia di qualche donnina. Del resto lo stesso Orazio, nella sosta effettuata presso Trevico, parla di una “puella” mendace che gli aveva fissato un appuntamento per la notte e poi aveva disertato il convegno amoroso (Orazio, Satira V, libro I, v.v.82-85). In un famoso bassorilievo, rinvenuto nei pressi di Isernia, ora al museo del Louvre, sono raffigurati l’oste e un avventore con accanto un animale da soma. Il vivace dialogo tra i due, un vero e proprio bozzetto drammatico, evidenzia i servizi offerti dalla taberna, compreso l’intrattenimento con una “puella”. Faceto il commento del viandante che nulla obietta sul compenso per la compagnia femminile di ben otto assi, mentre ha di che lamentarsi per il fieno consumato dal mulo, corrispondente a due soli assi, prorompendo in un comico improperio: “Iste mulus me ad factum dabit” (questo mulo mi manderà in rovina!)(62). L’ipotesi prospettata, secondo cui Platoria Casta e Quinto Messio Gemino possano essere stati i padroni della Taverna delle Noci, per quanto suggestiva, non può essere assolutamente suffragata da elementi di una qualche attendibilità. Del resto non abbiamo nemmeno congrui elementi per poter stabilire con relativa cognizione di causa l’epoca in cui i nostri due personaggi sarebbero approdati sulle rive della Fiumarella. Si può solo ipotizzare che il loro stanziamento in quel territorio possa essere avvenuto, forse, in età severiana (193-235), durante la quale si favorirono massicce migrazioni di veterani e di evocati verso l’Apulia settentrionale, con lo scopo di ripopolare un territorio ormai desertificato in conseguenza dell’aggressivo estendersi di vasti latifondi sia imperiali sia privati(63). Si tratta di una supposizione comunque basata su taluni elementi che riscontriamo nella epigrafe oggetto del presente studio. Intanto le caratteristiche morfologiche del cippo a forma di “cupa” rimandano, come si è detto, ad una precisa classe sociale, formata da reduci e liberti. Anche il formulario che si riscontra nell’epigrafe ci orienta verso un milieu storico e culturale databile tra il II e il III secolo d. C., quando Quinto Messio Gemino e Platoria Casta avrebbero consumato la loro esistenza lungo il rio della Fiumarella, lasciando, come unica tracia della loro residenza in quel luogo, la lapide con la epigrafe conservataci dal canonico Andrea Calabrese e, per suo tramite, dal Corpus Inscriptionum Latinarum.

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1) Rocco Pagliarulo, “Vallesaccarda e Taverna delle Noci”, in “Pagus”, n° IV, giugno – dicembre 2006. Nell’articolo si parla di una “bimillenaria mansio romana” i cui ruderi erano nei pressi dell’abitazione del Nostro. Il presente contributo vuol essere un omaggio postumo alla memoria del collega recentemente scomparso.
2) CIL, IX, 1406, pag. 121, nelle note in calce si cita un “Anonymus Arianensis (cod. Neap. XIV G 23)” con la data “17 Iul. 1789”. Alcune iscrizioni furono apprese da Mommsen tramite i codici, tra i quali figura quello indicato sopra che riporta alcune epigrafi segnalate da un anonimo, originario di Ariano, non altrimenti identificato.
3) CIL, ibidem.
4) Le epigrafi romane di Canosa, a cura di Marcella Chelotti, Vincenza Morizio, Marina Silvestrini, Edipuglia, Bari, 1990, pag. 267. L’ “arca lucana”, secondo la definizione adottata da Mommsen (CIL, IX, 354: “columna brevis in longotudinem secta, qua parte secta est terrae imponitur, inscriptio legitur modo per totam columnam, modo in tabella protestante in ea parte columnae quae via spectabat”), è un segnacolo a forma di baule di una tomba terragna. Tale forma di monumento rientra nella tipologia delle “cupae”. Vedi: Lidiano Bacchielli, Monumenti funerari a forma di cupula: origine e diffusione in Italia Meridionale, pag. 303-319, in “Africa Romana”, Atti del III convegno di studio, Università di Sassari, 1985.
5) CIL, ibidem: “Taverna delle noci nella valle detta via lappia oggi delle jumeralle (Fiumarella, n.d.r.) per Sansossio e Flumari (a 24 m. da Herdonea) accanto ad una stalla vecchia” ANON.
6) Andrea Calabrese (1823 – 1906), teologo e canonico della Cattedrale di Trevico. Dal 1848 fu, per alcuni anni, rettore del Seminario di Lacedonia. Appassionato studioso di storia locale, a lui dobbiamo numerose segnalazioni di epigrafi, rinvenute nel territorio di Trevico, che allora comprendeva Vallesaccarda, Scampitella ed Anzano, inoltrate all’Istituto di Theodor Mommsen. Quando era rettore a Lacedonia, non mancò di appuntare anche talune epigrafi di quella che sarebbe l’osco-sannita Akudunnia, per poi inviarne i testi al Mommsen in persona, con cui era in corrispondenza. (Vedi Raffaele La Sala, Abellinum e Th. Mommsen, articolo del 28 ottobre 2011). Nel 1876 divenne Socio Corrispondente dell’Istituto Archeologico Germanico. (Vedi anche Maria Raffaella Calabrese De Feo, Di un’antica corrispondenza tra Th.Mommsen e Andrea Calabrese, articolo sulla rivista “La parola del passato”, vol. XXX, fascicolo CLIII, 1975, pagg. 288-291). Si tratta di un inedito reperito nella biblioteca della casa Calabrese De Feo a Trevico, dove l’autrice dell’articolo è nata.
7) CIL, ibidem.
8) Nel 1845 visitò Aeclanum e frutto di quel viaggio fu, poi, il saggio “Sulla topografia degli Irpini”, pubblicato sul Bullettino dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica, Roma, nel 1847, pagg. 161 -174, e nel 1848, pagg. 4-13. Vedi R. La Sala cit. e Giuseppe Valagara, Mommsen in Irpinia, Avellino, 1941.
9) Inscriptiones Christianae Italiae, vol. 8, a cura di Antonio E. Felle, Collana promossa dal Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Roma, dall’Istituto di Studi Classici e Cristiani dell’Università di Bari, dalla École Française de Rome, Edipuglia, Bari, 1993, pag. 79.
10) Giulia Baratta, Università di Macerata, “Alcune considerazioni sulla genesi e la diffusione delle cupae”, in Diritto@Storia, n. 8- 2009 – Memorie// Africa – Romana.
11) Jean-Noël Bonneville, Les cupae de Barcelone: les origines du type monumental, “MCV”, XVII, 1981, pagg. 5-38.
12) Lidiano Bacchielli, op. cit., pag. 310. A pag. 304, nota 4, sono segnalati una ottantina di esemplari già riportati in CIL IX e X. Eclano presenta ben 23 tipologie di cupae, Benevento 22, nella zona di Ariano sono segnalate 10 cupae, tra queste la n. 1406 di CIL, oggetto del presente studio, a Venosa erano presenti 5 cupae, in Lucania 6. Un’altra sessantina di cippi sono stati scoperti in anni recenti. Vedi Alfredo Buonopane, Tre cupae monolitiche nella chiesa di Santa Maria de Petra a Viggiano (Potenza), in “Grumento e il suo territorio nell’antichità” a cura di A. Mastrocinque, BAR International Series 2531, Oxford 2013, pp. 241-246. A pag. 243 è segnalata una cupa inedita che si trova nello stipite di un portale della chiesa.
13) G. Baratta, op. cit., ibidem.
14) A Trevico, oltre le lapidi di cui è conservata memoria in CIL IX, è visibile nella cripta dell’antica Cattedrale un cippo con epigrafe dedicata a tale “Ian (?) Claudio Quintiano” da parte della moglie Rubrua Resilli(a), riportata in CIL IX, 1409, della quale Mommsen venne a conoscenza tramite l’Anonymus Arianensis del Codex Neapolitanus XIV G 23, 17 luglio 1789. Un altro cippo (CIL IX, Additamenta, 6279) sarebbe stato conservato in “aedibus Cuoco”con dedica ad Agrio Rufiliano da parte della moglie Lusia Quita. Nei pressi del paese, “ad Appiam in loco q.d. Polignano sive Piscone” vi sarebbe stato un grosso sasso “di figura piano convessa con quadretto in mezzo”, secondo le parole di Calabrese, che riportava una scritta a Claudio Quinziano da parte del figlio omonimo.
15) Don Arturo Saponara, Vestigia di Roma in Vallata e nel suo territorio, Avellino, Tipografia Pergola, 1957, ora in www.vallata.org
16) Vedi il mio articolo “Sulle tracce della storia. Cippo funerario di età imperiale torna alla luce. Fortunosamente recuperato dopo oltre mezzo secolo di oblio”, ora in www.vallata.org e in Pagus
17) La scritta citata da Saponara era la seguente: “D • [M•] / (M)ESSIAE FORT / VNATAE MESSIA / SECVNDINA MA / TER F.S.DVLCIS.”
18) Giuliano Volpe, La Daunia nell’età della romanizzazione: paesaggio agrario, produzione, scambi, Edipuglia, Bari, 1990, pag. 141, a Sant’Agata di Puglia, in località Bastia, tra l’altro, è stato rinvenuto un cippo sepolcrale del tipo “arca lucana” di età primo-imperiale; pag. 142, in località Masseria Serra D’Armi è stato rinvenuto un cippo del tipo “arca lucana” di età primo-imperiale.
19) Marcella Chelotti, Regio II, Apulia et Calabria, Venusia, Supplementa Italica, vol. 20, Roma, 2003.
20) Marcella Chelotti, Vincenza Morizio, Marina Silvestrini, Le epigrafi romane di Canosa, Edipuglia, Bari, 1990. M. Chelotti, La tipologia dei monumenti, pag. 285-296. Nella nota 2. di pag. 292 si rileva che gli esemplari di Venosa hanno in prevalenza come destinatari schiavi e liberti.
Tale diffusa situazione giuridica è chiaramente denotata dai cognomi di origine greco-orientale. Jean-Noël Bonneville, Les cupae de Barcelone: les origines du type monumental, in Mélanges de la casa de Velasquez, tome XVII, 1981, pag. 21.
In una epigrafe di Mirabella (CIL ,IX,1243), “extra castellum”, si legge: “D M / CASTAI// ADMETVS / CONSERV / B M F”, dove quel conserv… è da leggere “conservus”, con chiara indicazione della condizione servile dei due personaggi citati nella lapide.
21) Francesco Maria Pratilli (S. Maria Capua Vetere 1689-Napoli 1763), Della via Appia riconosciuta e descritta da Roma a Brindisi, libri IV, in Napoli, MDCCXLV, per Giovanni Simone, Tomo IV, pag. 507.
22) Lorenzo Giustiniani (Napoli 1761-Napoli1824) erudito napoletano. L’opera più nota è il “Dizionario geografico - ragionato del regno di Napoli”, Napoli, presso V. Manfredi (1797-1802). Si tratta di una ponderosa rassegna storico-geografica di tutte le località del regno, che Giustiniani aveva percorso a piedi. Nel tomo IV, a pag. 380, alla voce “Frigento o Fricenti”, è menzionata una epigrafe simile a quella di Taverna delle Noci, ma con rimarchevoli differenziazioni: “D. M / PIAE TORTAE / CASTAE / OMESSIVS (sic) / GEMINVS / CON. B. M. F.”. Tra l’altro, in nota 2, fa un richiamo a Pratilli, affermando che “questa è portata benanche dallo stesso Pratilli loc. cit., pag. 463 (Della via Appia, lib. 4, cap. 4, n. d. r.). In realtà si tratta, forse, della lapide di pag. 507 che aveva visionato presso la Fiumarella. La scritta riportata da Giustiniani è citata anche da Saponara, a testimoniare la diffusione della gens Messia nelle nostre contrade.
23) Raimondo Guarini (Mirabella Eclano 1765-Napoli 1852) storico, archeologo, epigrafista, nell’opera Spicilegio Eclanese del 1824, Napoli nella Tipografia della Società Filomatica, 1826, a pag. 19, tra altre epigrafi, ritrovate nel territorio di Frigento, ma dal medesimo attribuite ad Eclano, cita anche quella relativa alla presunta Pia Torta Casta. Precisa Guarini che nella quarta riga OMESSIVS vada corretto in C. Messivs. L’attribuzione della epigrafe al territorio di Frigento, o ad Eclano, è molto dubbia. Lo stesso Guarini ammette di averne avuto notizia dall’amico dott. Fabio Ciampi, che, a sua volta, l’avrebbe appresa da Giustiniani, come si può dedurre da CIL IX, 1406, “inde per Ciampium…”. Per la verità lo stesso Giustiniani pone qualche dubbio sul ritrovamento in loco di talune delle lapidi riportate, quando, a pag. 372, afferma testualmente: “Non saprei però se tutti (i marmi n.d.r) gli appartenessero, oppure parte de’ medesimi fossero stati trasportati, siccome anche si avvisò il Pratilli”.
Comunque, il cognomen Casta è presente ad Aeclanum (vedi supra nota 20). In una epigrafe di Mirabella, riportata da Michele Arcangelo Lupoli (Frattamaggiore 1765-Larino 1827, letterato, teologo, archeologo, vescovo) a pag. 124 dell’opera Iter venusinum vetustis monumentis illustratum, Napoli, 1793, compaiono una Tullia Casta ed una Vera Casta.
24) M. Chelotti, V. Morizio, M. Silvestrini, op. cit., pag. 217, nota 11, “L’attestazione nota più antica della formula abbreviata (D M) risulta essere CIL, VI, 2489, dove figura un soldato missus (congedato n.d.r.) non prima del 29 d. C.; la forma D M S è attestata in un’epigrafe del 58 d. C. (CIL,VI,703); in generale le formule abbreviate divengono comuni nella seconda metà del I sec d. C.”.
25) Silvia Tantimonaco, La formula Dîs Manibus nelle iscrizioni della Regio X, s.d., pag. 269.
26) Marco Tullio Cicerone, De Legibus, II, al paragrafo 22 sono citate diverse massime tra cui “Deorum Manium jura sancta sunto.[Bo]nos leto datos divos habento”.
La formula “Deorum Manium iura sancta sunto”compare in epigrafe ai Sepolcri di Foscolo.
27) Giancarlo Susini, Epigrafia romana, Jouvence, Roma, 1997, pag. 101.
28) Jószef Herman, Dis manibus. Un probleme de syntaxe épigraphique. In Estudios de lingüística latina. Actas del IX conloquio internacional, Università di Madrid,1997.
29) Silvia Tantimonaco, op. cit., pag. 263.
30) Giancarlo Susini, op. cit., pag. 101.
31) Samuel Pitiscus, Lexicon antiquitatum romanarum, apud Petrum Gosse, MDCCXXXVII, pag. 232, “Gens Plaetoria sive Laetoria, utroque enim modo apud scriptores reperitur, fuit plebeja. Fuerunt ex ea tribuni et aediles plebis”. Poco oltre, si afferma che quella gens sarebbe stata di origine sabina, citando, a supporto, una iscrizione in cui è riportato un certo M. Plaetorius Numisianus Sabinus. Tale identità è negata in Nova acta eruditorum, a cura di J. F. Gleditsch, J. C. Martin, J. Grosse, MDCCXLIII, Lipsiae, apud J. F. Gleditschium et B. Lankisii, pag. 736, “Laetoria gens a Plaetoria diversa”. Così pure si sostiene in Jurisprudentia antiqua di Daniel Ellenberg a pag. 603, “Laetoria et Plaetoria diversas familias”. In Numismata aerea imperatorum augustarum et caesarum di Ioannes Foy-Vaillant Bellovaco, Parisiis, apud Martin, Boudot, Martin, M.DC.LLXXXVIII, a pag.34 si ribadisce che la gens Pla(e?)toria era plebea e che avrebbe assunto il “cognomen Tranquilli”.
32) In CIL, IX, il nomen Plaetorius, al maschile, e Plaetoria, al femminile, ricorre complessivamente undici volte, omettendo i casi di dubbia attribuzione. Il nomen Platoruis è documentato solo al femminile ed in sole due epigrafi, tra cui quella di Taverna delle Noci.
33) Edda Armani, Etrusco Splatur, latino Spatorius – XLV, 205-208. Studi etruschi, n. 45, 1977. Anche in Dizionario Comparativo Latino-Etrusco di Massimo Pittau, Slpatorius antroponimo da confrontare con quello etrusco Splatur.
Giancarlo Conestabile, Iscrizioni etrusche e etrusco-latine in monumenti che si conservano nell’I. Er. Galleria degli Uffizi di Firenze, Firenze, coi tipi di M. Cellini e C., 1858. Citando una scritta riportata in Lanzi, II, pag. 454 = 383 (TANIA [PET]RUI PLANCURIA SPLATUR), ritiene che la “S” iniziale di Splatur possa essere intesa come un riferimento a “coniugio”, per cui si dovrebbe intendere come Platorii uxor. E Luigi Antonio Lanzi (Saggio di lingua etrusca e di altre antiche d’Italia, in Roma nella Stamperia Pagliarini, MDCCLXXXIX) a pag. 348 precisa che la “S” di Splatur è stata assunta, come in analoghi casi di parole greche, per “doricismo”. Propone, poi, una origine etimologica simile al greco p?at??, latus in latino, da cui sarebbe derivato il nome con cui è universalmente noto Platone, a causa dell’ampiezza del petto (Seneca, ep. 50) o della fronte (Diogene Laerzio, lib. III segm. IV).
34) Ciro Esposito, Sulle nuove epigrafi messapiche, Emeroteca provincia di Brindisi, 1976, pag. 175=13. “…formazione strutturalmente analoga a platorrihi (IM 3.11) da Gnathia, gen. da un nomin. platorres (da plator-jo-s \ plator-ja-s), formazione in -jo- da un plator, presupposto dal genit. platoras (IM 7.18) da Ceglie Messapica, ecc.: attestato è il nomin. platür (IM 2.15,3; IM 2.115,1) da Ruvo con ü invece di o per influsso del greco; influsso che notiamo anche nel genit. platuras (IM 10.12) da Grottaglie”.
Giovanni Capovilla, “Il Salento messapico ed i testi in Lineare B” in Studi Salentini, XII, a cura del Centro Studi Salentini, Lecce, dicembre 1961, pag. 161,“Per citare un esempio corrispondente per forme onomastiche in Lineare B ed altre messapiche vanno ricordati i nomi messapici Platoras e Platores…”.
35) Oronzo Parlangèli, I documenti epigrafici della Messapia, 1969, emeroteca provincia Brindisi.
Ciro Santoro, Sulle nuove epigrafi messapiche, 1976, emeroteca provincia Brindisi.
36) Alex Faggiani, Nomi romani derivati dal messapico in Lamoneta.it. “…sia il nome Atorres che Platorres hanno, probabilmente, subito una trasformazione verso il latino… Artorius e Platorius […] sono effettivamente nomi presenti nell’onomastica romana”.
37) Oronzo Parlangèli, Testimonianze linguistiche della Daunia preromana, biblioteca provinciale. Foggia.it / Capitanata, 1967, pag. 50.
38) Guido Migliorati, Cassio Dione e l’impero romano da Nerva ad Antonino Pio alla luce di nuovi documenti, Vita e Pensiero, Milano, 2003, pag. 264.
L’epigrafe di Aquileia (CIL,V, 877) presenta delle particolarità in quanto le cariche del suo cursus honorum sono presentate in ordine cronologico inverso. Inoltre si nota una vistosa ridondanza dei nomi del nostro personaggio, non solo Aulo Platorio Nepote ma anche Apronio Italico Maniliano C. Licinio Pollione! Qualche studioso ha avanzato l’ipotesi che il vero nome fosse C. Licinio Pollione e che, in seguito ad adozione, abbia poi assunto quello di A. Platorio Nepote. La sua appartenenza alla tribù Sergia, anziché alla Velina della città di Aquileia, ha fatto ritenere che fosse di origine ispanica, anche per il fatto che il suo raro gentilizio trova riscontro solo in un’altra epigrafe della Betica dedicata a un certo C. Platorius Trebianus C. f. della tribù Galeria. Ma di Platorî, oltre quelli già segnalati, ve n’è almeno un altro, documentato in CIL, X, 502 (Tr. Platorius Tr.), nella Regio III, a Paestum, sia pure tra le “Lucanae incertae”. Tuttavia, la chiara origine messapica del nome Platorius induce a pensare, piuttosto, che la famiglia di Platorio Nepote possa essere emigrata nella regione della Betica. Forse implicato in lotte di successione dinastica, di lui non si hanno più notizie dal 138 d. C. Vedi Françoise Des Boscs-Plateaux, Un parti hispanique a Rome? Ascension des élites hispaniques et pouvoir politique d’Auguste a Hadrien, Casa Velasquez, Madrid, s.d., pag. 552 e segg.
39) Guido Migliorati, op. cit., ibidem.
40) Antichità classica, AA. VV., Jaka Book, Milano, 1994, pag. 225.
41) Lindley Richard Dean, A study of the cognomina of soldiers in the romans legions, Tesi di laurea, Università di Princeton, N.J., 1916, pag. 19. La datazione è riferibile al II secolo d. C.
42) CIL, IX, Additamenta, 6197, “?a??a”.
43) CIL, IX, 3932.
44) CIL, V, 1009, 1074, 1142.
45) Epigraphic Database Heildelberg, n. HD003698, la stele, rinvenuta ad Ateste, odierna Este (PD), è datata alla prima metà del I secolo d. C. e riporta la seguente epigrafe: “GRATA / AN[N]ICULA / CASTUS / TRIMUS / FRATER ET / SOROR”.
46) Cristopher Gwinn, Lucius Artorius Castus. Le iscrizioni. Articolo del 2010,

47) Re Artù: da Camelot a Cimitile, articolo di Francesco Santoianni, “Il Mattino”, 6 giugno 2004, Intervista allo storico Antonio Trinchese..
48) Ciro Santoro, La nuova iscrizione messapica di Oria, Provincia di Lecce, Mediateca, pagg. 285-286.
Ciro Santoro, Sulle nuove epigrafi messapiche, Provincia di Lecce, Mediateca, pag. 170. Il nome latino Artorius sarebbe derivato dal messapico Artorres.
49) La letteratura in proposito è molto vasta e si è arricchita negli ultimi anni di vari altri titoli, anche in conseguenza dell’uscita del film “King Arthur” del 2004. A titolo esemplificativo si riporta il libro di C. Scott Littleton e Linda Malcor, Da Scizia a Camelot: una rivalutazione radicale delle leggende di Re Artù, dei Cavalieri della Tavola Rotonda e del Santo Graal, New York, Garland, 2000.
50) Quinto Orazio Flacco, Sermones libri duo, libro II, Satira quinta, v. 54, “Messi (Cicirri n.d.r.) clarum genus Osci”.
51) In Livio, IV, 28, è citato un “Vettius Messius ex Volscis”,che, nell’infuriare della pugna contro le truppe romane, svoltasi nell’anno 322 a. C., nel corso della II Guerra Sannitica,incita arditamente i suoi a non abbandonare il campo di battaglia, volgendo le terga al nemico. Il gentilizio Vettius sembrerebbe di origine etrusca, tuttavia ciò non può consentire indebite generalizzazioni.
52) La Lex Flavia dans une inscription campanienne, S.Demougin, pagg. 41-42, in Recherches epigraphiques: documents relatifs a l’histoire des institutions et de l’administration de l’Empire Romain, articles réunis et edités par B. Remy, Publication de l’Université de Saint-Etienne, 1986.
53) Silvia Cipriano e Stefania Mazzochin,Produzione e circolazione di laterizi nel Veneto tra I secolo a.C. e II secolo d. C.: autosufficienza e rapporti con l’area aquileiese. Da Silvia Cipriano, Territorio di Asolo Treviso Belluno, academia.edu, pag. 659. I marchi di quella gens sono i più numerosi in quel territorio, a testimonianza di una intensa attività avviata probabilmente già agli inizi del I secolo a. C. da Decimvs Messivs ed incrementata dal figlio T. Messivs Timo(…) e dal figlio di costui Rup[…] Messivs Timonis f. che operava a Belluno.
54) CIL IX, 807, “…DEC / …LVCER / MESSI / …CONIV...”
55) CIL IX,445, “M. MVTTIENVS. L. f. / C.VIRIVS L.f. / M.MESSIVS. T. f. / M. CAMILLIVS. L. f. / OB.HONOREM”. CIL IX, 541, “L.MESSIO.L.LIB / ONESIPHORO / ET ALFIAE. REDEMPTAE / SIB. ET FILIO / PIENTISSIMO / ( hedera) P”.
56) CIL IX, 248, “D.M.S. / MESSIA. RODIA / V. A. XXXX / H.S.E / COR. FOR / TVNATVS / CON. B.M.F.”.
57) CIL IX, 143, “L. MESSIVS / HERMA / V. A. LXX / H S”.
58) Marina Silvestrini, Il sarcofago di Petilia, da “Il Nuovo Tocco del Bombaum”, anno VIII, n° 2, anno 1992. “D M S / PETILIAE Q F SECVNDINAE / SACERDOTI MINERVAE VIX / ANN VIIII M VII D XVIII OB INFA / TIGABILEM PIETAT EIVS MESSI / A DORCAS MAT INFLE (sic) FILIAE D B M F”.
59) CIL X, pag. 1065, Nomina virorum et mulierum pompeianorum.
60) “Messius hic nihil futuit”. Graffito su un muro del lupanare di Amando o casa del Larario (CIL IV, 5187).
61) M. Chelotti, V. Morizio, M. Silvestrini, op. cit., pag. 18.
62) Elisa Terenziani, <>. Storia incompiuta di una discussa epigrafe isernina [CIL, IX, 2689] [“Ager Veleias”, 3.09 (2008)].
63) Marcella Chelotti Giovanni Mennella, Letture e riletture epigrafiche nella Regio II, aus: Zeischrift für Papyrologie und Epigraphik, 103, 1994, pagg. 163-164.

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