Il Venerabile Vito Michele Di Netta. La figura e l’opera. - a cura del Prof. Rocco De Paola - www.Vallata.org

Il Venerabile Vito Michele Di Netta.
La figura e l’opera.

a cura del Prof. Rocco De Paola

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     Il contesto storico.
     Le vicende terrene di Padre Vito Michele Di Netta si svolgono in un periodo storico segnato da grandi eventi in Italia ed in Europa. Il Venerabile nasce alla vigilia della Rivoluzione Francese, quando al di là delle Alpi, come ebbe a dire il Padre Fimmanò, nell’elogio funebre, “penosa tempesta cominciava a sorgere, la quale scendendo nel bel paese minacciava la navicella di Pietro” e i “sedicenti profondi pensatori ad altro non poneano mente che ad adescare alle loro stravolte massime numerosi proseliti”(P. Antonio Di Coste, d. SS.R., L’apostolo delle Calabrie, Ven. P. Vito Michele Di Netta, Redentorista, Valle di Pompei, Scuola tip. Pontificia, 1914). Seguirà un decennio di conflitti che culminerà con l’ascesa al potere di Napoleone Bonaparte. Dopo il suo declino e la restaurazione dell’“ancien regime”, successive ondate di moti insurrezionali e rivoluzioni apriranno la strada alla unità ed alla indipendenza della Patria. Il nostro Meridione è direttamente interessato e pienamente coinvolto in queste vicende storiche. Nel 1799 le truppe francesi del generale Championnet entrano in Napoli, dopo la fuga a Palermo di re Ferdinando IV di Borbone. Nasce una effimera Repubblica Partenopea per iniziativa di una élite di aristocratici e di borghesi che, nonostante le riforme avviate, ben presto è travolta dalla restaurazione legittimista del cardinale Ruffo, con l’ausilio di bande di briganti e di contadini. Ancora, nel 1806 truppe francesi occupano la città partenopea sul cui trono viene imposto dal dispotico Bonaparte il di lui fratello Giuseppe, il quale cederà il regno al cognato Gioacchino Murat, nel 1808. Alla caduta di Napoleone seguirà la miseranda fine del Murat, con la conseguente restaurazione borbonica. Intanto, cresce l’ostilità e l’opposizione contro il dispotismo assolutistico da parte di liberali, democratici e radicali, che si organizzeranno in società segrete. Da queste associazioni scaturirà la prima offensiva rivoluzionaria del 1820-21. E quando il 1° luglio 1820, in Nola, due ufficiali borbonici, Morelli e Silvati, daranno inizio ai moti insurrezionali, un animoso Vallatese, Vito Pelosi, è fra gli insorti. Altro ardente patriota, implacabile nemico del regime borbonico, affiliato alla Carboneria e capo dalla “Vendita” di Vallata, fu Gaetano Monaco, soprannominato “il gran cane” (lu ‘ran’can’). Costui accorre, alla testa di 30 “settari”, in aiuto di Morelli e Silvati sulle alture di Monteforte Irpino ed il 4 luglio si batte contro le truppe del generale Campana. Da ricordare che il Monaco era stato ammesso nel 1804 al Noviziato Redentorista prima di Vito Michele Di Netta, che di questo si adontava e crucciava, e del Venerabile fu poi condiscepolo in collegio. Ma, evidentemente, altra era la tempra, ben altra la vocazione di quell’intrepido rivoluzionario che sconterà il suo impegno politico e militare con lunghi anni di doloroso confino, in penose ristrettezze economiche, prima di poter rientrare in patria. Si ha notizia di numerosi altri Carbonari, taluni anche amministratori comunali, destituiti in seguito dalla regia autorità, tra cui il decurione Vincenzo Rosa, “antico ed effervescente settario che, in sostegno della rivoluzione, partì il 4 luglio” (V. Cannaviello, “Gli Irpini nella rivoluzione del 1820 e nella reazione”, Avellino,1941). E alla vigilia della grande Rivoluzione del 1848, altri numerosi Vallatesi sono indiziati di avere aderito alla cospirazione ordita nel 1847 dal barone beneventano Salvatore Sabariani, ex gonfaloniere della città, il quale mirava a staccare il Ducato di Benevento dallo Stato Pontificio per unirlo al Regno di Napoli. Fatto singolare, tra i congiurati figura il Monaco, il quale, evidentemente, mirava non al rafforzamento del Borbone, ma all’indebolimento del potere temporale del Papato. Nel 1848, Vallata sarà funestata da gravi fatti di sangue. Già in gennaio era stata concessa la Costituzione, e per iniziativa del solito Gaetano Monaco nel paese si costituì un comitato che aderiva alla Associazione Liberale sorta nella provincia di Principato Ultra per merito del nuovo Intendente di Avellino Paolo Emilio Imbriani. Risaputa la cosa, i Borbonici si unirono in casa di Donato Quaglia “con intenzioni aggressive”. La domenica di marzo, nel pomeriggio, “una turba di circa 50 persone preventivamente ubbriacate…giunte al largo della Fontana se la divertivano andando a zonzo” ( Fonte: Cap. Settimio Monaco, Biografia di Gaetano Monaco (il padre), inedita; in “Quando la cronaca diventa storia”, di Arturo Saponara, articolo pubblicato postumo sulla rivista “Economia Irpina”,1963). In quel mentre, sopraggiungono Gaetano Monaco, Michele Netta, presidente del comitato dei liberali, e Vincenzo Netta che vengono aggrediti e trovano scampo con la fuga. Vi furono, poi, scontri e sparatorie in seguito ai quali si ebbero tre morti; delle vittime si ignorano i nomi, non risultando, a detta del Saponara, nel Liber mortuorum degli anni 1843-1851. L’eco di questi drammatici fatti si rinviene ancor oggiAggiungi un appuntamento per oggi nel detto popolare “fare un quarantotto” o “far tornare un quarantotto”. Dei fatti e dei personaggi, eccetto il Monaco, citati in questo succinto e sommario profilo storico non sembra esservi traccia o riferimento diretto negli scritti del Venerabile o nelle testimonianze dei collaboratori e di quanti lo conobbero e lo frequentarono. Qualche citazione è dei confratelli del Di Netta sullo scampato pericolo, grazie alla caduta della Repubblica Partenopea, o sulla perniciosa dottrina del Giansenio. A tale proposito, sarebbe interessante una ricognizione degli scritti del Nostro, per rinvenire eventuali accenni alla situazione storica o ad uomini e donne suoi contemporanei, anche per conoscerne pensiero e giudizi al riguardo. Forse il suo silenzio va inteso come indifferenza ai fatti del “secolo”, avendo Egli adottato il precetto di vivere nascosto agli occhi del mondo, di cui deplorava la povertà di spirito e le miserie morali, come ebbe ad esprimersi con un confratello. Del resto, degli eventi dell’epoca solo pochi di essi ebbero diretta influenza sul Nostro, come il cosiddetto “regalismo”, ossia un decreto regio che proibiva al Rettore Maggiore di accettare giovani nel proprio Istituto senza un preventivo decreto reale. Il che ritarda la sua ammissione al Noviziato. Altro doloroso fatto, che indusse un grave turbamento nel giovane Vito Michele, fu la soppressione dei conventi e dei collegi religiosi, decretata da Napoleone, dopo aver sottratto al Papa il ducato di Benevento, e che procrastinò di molto il raggiungimento della meta ardentemente agognata dell’ordine sacerdotale.

     Vallata all’epoca del Venerabile.
     Il Venerabile Servo di Dio Padre Vito Michele Di Netta nasce in Vallata il 26 Febbraio 1787, nella casa avita sita in via Ospedale, da Platone Di Netta, “chiaro giureconsulto, uomo probo e di antichi costumi”, e da Rosa Villani, “donna provvida e saggia”. E’ il primogenito di numerosa prole. Per una singolare coincidenza e per imperscrutabile disegno della Divina Provvidenza, l’anno della nascita coincide con quello della morte di S. Alfonso Maria dei Liguori (01/08/1787), fondatore della Congregazione dei Redentoristi. Lo stesso giorno gli viene somministrato il S. Battesimo, come risulta dall’atto conservato nell’archivio parrocchiale, riportato da Gerardo De Paola nel suo libro “Vallata, rassegna storica, civile, religiosa”. Padre Antonio Di Coste, biografo del Venerabile e suo postulatore nella causa del processo canonico, tra l’altro, ci fornisce un quadro vivace e pittoresco del nostro paese. “Esso -afferma- gode di una posizione incantevole, ridente, artistica…con un panorama stupendo, in cui l’occhio, spaziandosi lieto nelle estese pianure del Tavoliere di Puglia, vede altresì colline e altipiani elevantisi a forma di semicerchio”. Inoltre, “ha clima dolce e salubre, buona acqua potabile, e i cittadini ospitali e affabili e, ciò che più monta, animati da forte sentimento religioso”. Quanto lontana questa ridente descrizione da quella che circa mezzo secolo prima ci fornisce un altro ospite d’eccezione, quel tale Gaetano Negri, ufficiale dell’esercito, inviato a Vallata con un distaccamento di soldati, per presidiare la zona dai briganti che la minacciavano di continuo. Il Negri, che sarà poi sindaco di Milano, in una lettera al padre definisce la nostra cittadina “un brutto paese di montagna, collocato sui più alti gioghi dell’Appennino”. Altrove lamenta l’asprezza del clima. Tuttavia, ad onor del vero, costante è la lode della cordialità degli abitanti di cui si sente quasi perseguitato e dell’indole di quelle popolazioni “fornita di ottime qualità…e spinta da un vivissimo desiderio di miglioramento”. La generosità e l’apertura dei Vallatesi non sono aliene, però, da una certa energia e dal coraggio. Sono le elette virtù di un popolo di cui ampie prove ha dato nel corso della sua plurisecolare storia, come è testimoniato, tra l’altro, dal martirio della popolazione nel memorando ed esecrando eccidio di “Chianchione”. Son tratti distintivi ben esemplati nello stemma di Vallata, nel quale alla gentilezza rappresentata dalle rose si oppone la fierezza bellicosa simboleggiata dalle frecce, che anche ricordano l’atavica abilità di peritissimi arcieri, mentre le spighe stanno a testimoniare la bontà dei prodotti della terra e del duro lavoro necessario per strapparli ad un suolo avaro. Non molto dissimile doveva presentarsi il paese, ancora nominalmente feudo degli Orsini, agli occhi di Vito Michele, che trascorse l’infanzia e la prima giovinezza nell’umile casa non lungi dalla porta del Rivellino (lu ‘Urlj’n), possente antemurale difensivo ancor oggiAggiungi un appuntamento per oggi ben visibile, detta anche porta del Torello perché da tempo immemorabile fuori d’essa si esercitavano gli arcieri, avendo per probabile bersaglio un torello di legno. Della dimora del Venerabile è forse traccia in antiche foto, prima che l’ingiuria del tempo e degli uomini ne cancellasse ogni residuo. Anche se taluni anziani insistono nel ritenere ancora visibile qualche rudere di essa, l’ipotesi è, allo stato, poco verosimile. Vallata, all’epoca, era in netta ripresa demografica, dopo i terremoti e le devastanti epidemie dei secoli XVII e XVIII. Basti pensare che nel solo anno 1656, da aprile al principio del mese di dicembre, quando infuriò una terribile epidemia di peste, di 1.678 abitanti solo 478 sopravvissero al morbo. Dei 1.200 morti 17 erano sacerdoti, 2 diaconi, 17 chierici, un suddiacono e 5 dottori. Tanto ci è dato sapere da una nota del primicerio Bartolomeo Caruso, in calce ad un atto di battesimo del 25 e 26 ottobre di quell’infausto anno, e dalla relazione “ad limina” del 1660 che conferma le drammatiche cifre riportate. Anche nel secolo successivo il paese è ancora una volta falcidiato, e dal settembre 1763 al dicembre 1764 ancora 560 persone di ogni età e condizione sociale trovarono la morte, come ci testimonia l’allora arciprete don Donato Zamarra, che di suo pugno vergò il documento nel registro dei defunti, con la minuta descrizione dei morti (“per fame 226, per morbo 204, deceduti fuori Vallata 11, da settembre a dicembre 119”).Se, dunque, nel 1767 Vallata conta 2.723 abitanti e nel 1794 ne registra 3.800 l’incremento della popolazione ha quasi del prodigioso. Tuttavia, se si pensa che anche dopo il terribile eccidio del 1496 si ebbe una analoga ripresa demografica ed economica, passando dai 142 “fuochi” del 1447 ai 319 del 1545, con un incremento del 156% in un secolo, non si può non restare ammirati della straordinaria capacità e tenacia del popolo vallatese che sempre seppe trovare il coraggio e le interne energie per riprendersi dalle calamità e dalle sciagure inferte dalla natura e dall’uomo. A tanto dovette contribuire anche una relativa agiatezza derivante dalla ricchezza di armenti e dalla produzione cerealicola, pur nel contesto di una economia poco dinamica, per la scarsità degli scambi commerciali e per l’arretratezza dei sistemi colturali legati a pratiche ancestrali, vessata poi da gabelle e balzelli, ben ultima la famigerata ed invisa tassa fondiaria introdotta dai nuovi dominatori francesi, e ancora viva nell’uso del linguaggio popolare. All’inizio dell’Ottocento, il paese, come documentano i rilevamenti catastali nel periodo della dominazione napoleonica, contava 969 case di abitazione, 9 molini, 16 case di abitazione nelle campagne, 4 taverne, 7 forni, 3 fornaci. Al tempo della giovinezza del Venerabile, l’impianto urbanistico si protende ormai oltre il “cerchio de le antiche mura”, al di fuori del centro storico, comprendendo i casali di Borgo Sant’Antonio e di San Giorgio, sorti su ed intorno alle rovine delle Chiese omonime. Il caso della Chiesa di S. Giorgio, crollata durante il terremoto del 1694 e non più riedificata, è di estremo interesse dal punto di vista storico. Di essa è menzione per la prima volta in una bolla di Alessandro IV dell’8 aprile 1261, nella quale sono enumerate case, redditi e possedimenti appartenenti all’abbazia di Montevergine. Lo stesso tempio è riportato nella bolla di Urbano IV del 13 aprile 1264. La presenza di un remoto culto di S. Giorgio a Vallata, e di un analoga devozione per San Michele, fa pensare ad antichi stanziamenti di popolazioni di origine orientale, in specie bizantine, insediate nella cittadella fortificata, a presidio delle valli dell’Ufita e del Calaggio, ricevendone in cambio terra da coltivare. Da questi pristini abitatori bizantini discenderebbe la grande perizia dei Vallatesi nel maneggiare arco e frecce e di qui la fama di infallibili arcieri. Inoltre, questo suffragherebbe l’ipotesi secondo la quale “Vallata” deriverebbe dal termine greco “ßa?????”, ossia scagliare e potrebbe anche rendere ragione della marcata diversità dell’idioma natio, del tutto peculiare e specifico rispetto ai paesi contermini, per cui, a giusta ragione, Domenico Cicchetti lo designa come un’isola nel mare magnum dei dialetti meridionali. (D. Cicchetti, “Un’isola nel mare dei dialetti meridionali”, Vallata 1988.) Oltre a quelle nominate, Vallata fu in ogni tempo ricca di altre chiese. E tuttavia, cuore e cervello della cittadina, come con suggestiva immagine la definisce Gerardo De Paola nel libro citato, fu, fin da tempi assai remoti, la Chiesa Madre, viva testimone della grande religiosità che ha distinto i Vallatesi in ogni tempo. Sorta, probabilmente intorno all’anno Mille, nell’ “oppidum”, su una cripta che ne costituiva la parte più antica, ha costituito per un lungo numero di secoli un faro potente di fede e di pietas cristiana. Di sicuro il giovane Di Netta ne ammirò l’artistico portale cinquecentesco, opera di artigiani locali, ed il pregevole altare maggiore, alla cui base è un sarcofago con al centro un bellissimo bassorilievo raffigurante il martirio di San Bartolomeo, il patrono cui è dedicata la chiesa, ed inoltre la balaustra in marmi policromi, il coro ligneo ed i confessionali in noce che furono realizzati proprio negli anni della sua adolescenza e comportarono l’esborso di una considerevole somma per quel tempo. Tali preziose opere d’arte, conservatesi fino a noi, ad onta di terremoti e del vandalismo degli uomini, furono fatte eseguire per volontà del Capitolo e su iniziativa del Procuratore don Felice Villani, zio di Di Netta, che del nipote si prese cura e ne incoraggiò la vocazione al sacerdozio. Tele di pregio già arricchivano il tempio, tra le quali quella di Lanfranco, con la scena potente e drammatica del martirio per scorticamento dell’eroico pescatore di Canaan, autentico capolavoro di quell’insigne maestro. Altre chiese e cappelle erano sparse ai quattro angoli del paese ed anche extra moenia. Alcune esistono ancora, mentre di altre numerose sopravvivono ruderi o sono ricordate solo nei toponimi, ad eccezione della vetusta chiesetta di Montevergine, cancellata anche dalla toponomastica. Altra antica chiesa fuori le mura era quelle dedicata ai Morti (lu Murt’cjdd’), sede della omonima congregazione intesa alla diffusione del loro culto, che chiudeva prospetticamente l’attuale piazza sul lato ovest, demolita in seguito al terremoto del 1962. Della chiesa di Santa Maria delle Grazie, posta ad occidente, su una piccola altura, si conserva un originale portale in pietra, che andrebbe recuperato e protetto in luogo sicuro, ornato con i bassorilievi di inquietanti quanto suggestive figure di putti. La chiesa di San Vito ancora domina a guisa di fortezza la collinetta omonima e tuttora vivo è il culto del Santo. Ancora esistono e sono aperte al culto suggestive cappelle, come l’Incoronata e l’Annuziata, alla quale si accedeva per Porta del Piano, una delle tre porte dell’antico borgo, e attraverso l’omonima piazzetta. Edificata probabilmente verso la metà del secolo XV, la “Nunziata”, nonostante fosse stata distrutta numerose volte dai terremoti, fu sempre ricostruita. Di un pregevole quadro di Giovanni Balducci, di cui è notizia nello “Archivio storico delle province napoletane”, non vi è traccia ormai da tempo immemorabile, forse disperso o perduto in uno dei catastrofici, ripetuti eventi tellurici. Della fondazione della cappella laicale della “Pietà”, in data 17 Aprile 1752, ci sono conservati i documenti, per interesse di un gruppo di Vallatesi, che si definiscono “ amici di detta terra”, e si possono leggere in un opuscolo pubblicato in proprio nell’agosto 2000. E’ bello immaginare che Vito Michele possa aver compiuto il rituale pellegrinaggio alla “Pietà”, nei venerdì di Quaresima, in compagnia della devotissima madre. Di numerose altre chiese e cappelle, Santa Caterina, Santo Stefano, Sant’Andrea, Sant’Antonio, chiesa del Purgatorio, sopravvive solo il ricordo nel nome dei luoghi omonimi. Una chiesa di San Sebastiano sarebbe stata costruita a cavallo tra il XV ed il XVI secolo, dopo la distruzione di Vallata conseguente alla “asperissima battaglia” del 1496, ed in concomitanza con l’ennesima epidemia pestilenziale, per assicurarsi la protezione di quel santo contro il morbo. Accanto a quel tempio, nel 1519, fu costruita anche la chiesa di Santa Maria che dà ancora il nome all’altura ed al circostante quartiere. Sui ruderi di quella chiesa sorgerà, negli anni Trenta del secolo scorso, la nuova chiesa che svetta ancora dall’alto della collina. La vita religiosa del paese era molto fervida, animata dal numeroso clero, che nell’anno della grande peste arrivò a contare 26 sacerdoti, oltre un numero altrettanto imponente di religiosi degli ordini maggiori e minori ed uno stuolo di chierici. Le associazioni laicali, cui aderivano uomini e donne, non avevano lo scopo esclusivo di concorrere a diffondere e ad incrementare il culto, ma si attivavano a soddisfare, “con grande carità”, i bisogni più vari della popolazione, provvedendo altresì ad un “abbastanza comodo ospedale per pellegrini e poveri”.

     La formazione giovanile e la nascita della vocazione.
     In questo contesto sociale e religioso che, parafrasando il Di Coste, era non ricco di beni materiali, ma animato da schietto e vivo spirito popolare e soprattutto da fervida vita religiosa, Vito Michele Di Netta maturò quel senso cristiano della umana esistenza che fu il seme da cui sarebbe germogliata la sua santità. Donna singolare, di profonda pietà religiosa, la madre, che nelle more delle faccende quotidiane era dedita alla pratica del rosario o al catechismo dei fanciulli, inculcò nel primogenito una fede adamantina. Lo abituò anche alla assidua frequenza della chiesa e a quel devoto atteggiamento del fanciullo con le braccia disposte in forma di croce che sarà caratteristica del Venerabile per tutta l’esistenza ed è nelle raffigurazioni iconografiche. Il giovinetto ben presto rivelò un’indole profondamente diversa da quella dei ragazzi della sua età, preferendo ai trastulli infantili la preghiera ed il raccoglimento interiore, tanto da farsi appellare “romito”, ma anche, per lo stupore e l’ammirazione suscitati nei compaesani, “il santerello” ( lu sandaridd’). Singolari il fervore e la devozione con cui si accostava alla Comunione, accresciuti con la precoce somministrazione del Sacramento della Confermazione in età di appena cinque anni. A quei tempi aveva aperto una scuola il dotto sacerdote don Onorio Colella il quale accolse il giovane Vito Michele, avviandolo sui sentieri del sapere. Ed il novello alunno si distinse ben presto per capacità ed impegno, tanto da non lasciarsi mai coinvolgere nei giochi o nelle innocenti monellerie dei compagni di scuola, che per vendetta lo apostrofavano come pinzochero o anche scemo e sciocco. Ma colui che incise profondamente nella sua formazione, sia culturale sia spirituale, fu lo zio materno don Felice Villani, al quale, come si è detto, dobbiamo talune delle opere d’arte che sono ancora patrimonio prezioso della nostra Chiesa Madre. Il Villani prese ad istruirlo e a fornirlo dei primi rudimenti del latino, prima di avviarlo al Seminario di S. Angelo dei Lombardi, ove, nella preghiera e nel raccoglimento, Vito Michele avrebbe maturato, pur tra dubbi ed incertezze, il proposito di dedicare la sua esistenza a Dio e al prossimo. La vocazione religiosa del Nostro trovò conferma e trasse conforto dall’incontro, disegnato forse dalla Divina Provvidenza, con il santo e dotto Padre Tannoia della Congregazione dei Missionari Liguorini. Costui, trovandosi in Vallata a celebrare messa, ammirato della devozione del chierico Di Netta durante il servizio divino, come ispirato, gli profetizza un futuro nella Congregazione, onde divenire uno zelante missionario nella mistica vigna del Signore. Mai profezia fu più vera! Essa segnò definitivamente la vita del Venerabile indicandogli il cammino. Con l’ausilio dello zio sacerdote, che lo istruì in merito, Vito Michele affrontò l’esame per l’ammissione al Noviziato Liguorino presso il collegio di Deliceto, superandolo brillantemente per poi ritornare, in fiduciosa attesa, nel Seminario. Ma il consenso tardava, dovendosi ottenere la preventiva autorizzazione regia, il cosiddetto “regalismo”, per l’ammissione di giovani presso i noviziati ed i collegi religiosi. Avendo saputo che un compaesano, il già citato Gaetano Monaco, aveva tuttavia ottenuto l’ammissione al Noviziato, il Di Netta si crucciò di questo, indagandone le cause (lettera allo zio Felice Villani del 29 ottobre 1804, pubblicata da Salvatore Brugnano in “Con cuore integro e fedele. Lettere del Venerabile Servo di Dio P. Vito Michele Di Netta missionario redentorista “l’Apostolo delle Calabrie” 1787-1849. Meligrana Giuseppe Editore,2010). Quando poi ebbe notizia che il Monaco era riuscito nell’intento, producendo istanza ai Padri Redentoristi dello Stato Pontificio, seguì la stessa strada, ottenendo la sospirata ammissione nel Noviziato di S.Angelo a Cupolo, dove fece la solenne vestizione il 1° aprile 1805 e venne ammesso alla professione religiosa il 29 gennaio 1806. Si disponeva, ormai, con animo sereno e tranquillo alla ordinazione sacerdotale, quando, avendo i Francesi occupato il Ducato di Benevento e soppresso poi tutti i conventi ed i monasteri, scacciandone i religiosi con la violenza, il povero Vito Michele fece mestamente ritorno a Vallata. Qui vi fu persino chi lo consigliò di smettere l’abito e di ritornare nel secolo, ma egli non vacillò mai, fiducioso che la Provvidenza avrebbe racconciato ogni cosa, e riprese la solita vita di studio e di preghiera. Finalmente, dopo circa un anno e mezzo, all’inizio del 1808, il novizio Di Netta fu convocato nella Casa di Pagani, poi spedito a Ciorani per trascorrervi qualche mese di noviziato per approdare infine nel collegio di Deliceto, singolare e mirabile fucina di Santi, Beati e Venerabili. Quivi ripeté, stavolta in modo definitivo, la professione e sotto la direzione del colto Padre Migliaccio compì gli studi di teologia e di diritto canonico. Conseguì gli ordini minori per mano del vescovo di Lacedonia Francesco Ubaldo Romanzi l’11 giugno 1808, successivamente il suddiaconato, il 17 dicembre di quell’anno, ed il diaconato il 23 settembre dell’anno successivo. Finalmente giunse anche il giorno dell’Ordinazione Sacerdotale. Il 30 marzo del 1811 fu ordinato sacerdote in Lacedonia. Dell’avvenuta ordinazione sacerdotale dà notizia al padre in una lunga lettera spedita da Deliceto, datata 04 Aprile 1811(S. Brugnano, ibidem). Subito dopo l’ordinazione sacerdotale fu destinato alla evangelizzazione della Calabria.

     L’Apostolo delle Calabrie.
     Della imminente partenza per quelle lontane terre informa lo zio Villani: “DomaniAggiungi un nuovo appuntamento per domani appunto (11 ottobre 1811) partiremo per le Calabrie, piacendo al Signore. Io ne vado contento, ci scopro in questo la volontà di Dio! ”(S. Brugnano, ibidem). Mai più farà ritorno al paesello natio se non per appena due giorni, anni dopo, in occasione di una Missione che vi si tenne. Si racconta che in quella circostanza, volendo i parenti onorare l’illustre ospite con vivande migliori dell’uso quotidiano, egli le rifiutò, protestando essergli bastevole una rozza minestra. La sua prima tappa fu a Catanzaro e, dopo breve permanenza, venne destinato a Tropea, dove sostò, salvo brevi periodi, per quasi 37 anni. Iniziava, così, una intensissima opera di apostolato in favore di tutte le popolazioni delle Calabrie ( Calabria citra, Calabria ultra prima, Calabria ultra seconda, corrispondenti, grosso modo, alle attuali province) in un indefesso lavoro di conversione e di redenzione, tanto da meritare l’appellativo di “Apostolo”. Tutti egli attraeva con il suo irresistibile carisma e la sua fama cresceva di giorno in giorno, alimentata dalle notizie della sua santità e dei suoi prodigi. Dell’instancabile opera dispiegata da Padre Di Netta vi è larga documentazione nel testo di Antonio Di Coste. Ometto di citare i miracoli attribuiti al Venerabile davvero innumerevoli, trovandosi, del resto, di essi una ricca messe nel libro del suo biografo, che, tuttavia, in premessa, protesta di non voler attribuire loro, in ossequio ai precetti della Chiesa, “altra fede o autorità che l’umana”. Mi piace, tra i tanti, ricordarne solo due, anche perché l’eco è ancora vivissima tra le popolazioni di quei luoghi. Tornando a Tropea da Reggio, per mare, il Venerabile ed i suoi compagni furono sorpresi da un violento fortunale. Mentre gli altri già disperavano della salvezza, Padre Vito Michele li invita ad aver fede, invocando la protezione della Vergine di Romania, che ivi si venera. Furon tutti salvi! Un anno, la pesca era particolarmente scarsa e questo per Tropea, città di mare che ne traeva cospicua sussistenza, era fatto assai grave e la gente pativa la fame. I pescatori, allora, si risolsero a rivolgere le loro suppliche al Venerabile, fidando nella di lui potenza di intercessione. Il Padre li accolse bonariamente esortandoli ad aver fede in Dio, poi benedisse il mare. Subito furono gettate le reti e si ritrassero cariche di pesce. La pesca miracolosa venne da allora ricordata come “la pesca di San Raffaele”, essendo il 24 di Ottobre festività del Santo. Per un episodio analogo, sorse poi il detto tra i pescatori “Quando non si prendono pesci, ci vuole la benedizione del P. Di Netta”. Molte testimonianze fanno fede delle estasi davvero inesplicabili e meravigliose che spesso coglievano il Venerabile in adorazione del S.S. Sacramento e durante la Messa. Altrettanto innumerevoli sono gli aneddoti delle virtù profetiche e della facoltà di premonizione, attestati anche con giuramento in sede di processo canonico. L’ultima e più importante predizione fu quella sulla data della propria morte. Nel giugno del fatidico anno 1849, sei mesi prima dell’evento luttuoso, il Padre Vito Michele Di Netta aveva confidato al Padre primicerio: “Io morrò nel giorno di San Francesco Saverio, l’Apostolo delle Indie”. E questo puntualmente avvenne il 3 Dicembre di quell’anno. Verso le ore nove del mattino (alle 15 secondo Fimmanò), mormorando appena, con il sorriso sulle labbra,: “Eccomi qui, Gesù mio, eccomi…”, fatto il segno della croce e volgendo gli occhi al cielo, spirò serenamente, senza che alcuno degli astanti se ne avvedesse. La sua morte fu accompagnata e seguita da subitanei prodigi e nel giorno del funerale una folla strabocchevole accorse d’ogni dove, come ad una festa, dice un testimone. Il Calabrese Padre Fimmanò, nell’elogio funebre, con alata e vibrante oratoria, ne mette in luce le preclare virtù, magnificandolo come l’ornamento più splendido ed impareggiabile dell’Istituto, il più amabile ed amoroso dei Superiori del Collegio, l’esemplare più nobile di quella città, “il Padre comune d’innumerabili spirituali figliuoli alla grazia di Gesù Cristo rigenerati e nutriti”. Esalta, revocando a sostegno la testimonianza del Padre spirituale, la verginale innocenza del Nostro, conservata nella intatta purezza sin dal fonte battesimale. Traccia del Venerabile un profilo che ben ne illustra le doti intellettuali e le ampie letture. Il Padre Di Netta che “ad occhio meno avveduto un uomo sembrava mezzanamente istruito, ricevuto avea dalla prodiga natura uno spirito pronto, esteso, attivissimo, un ingegno perspicace e penetrante, un’ammirabile facilità di apprender le cose, le forme, le relazioni di ogni maniera, un’avidità incredibile di sapere ed una memoria assai docile, vigorosa e tenace”. Tuttavia, mai fece sfoggio della umana scienza o ricorse ad artifizi retorici nei suoi sermoni perché “ubi est humilitas ibi est sapientia”. E’ anche questo un tratto distintivo della santità! Nel proclamare la eroicità delle sue virtù ed ammettendolo alla venerazione dei fedeli, il 25 marzo 1935, papa Pio XI ebbe ad affermare: “La sua anima si rivela con una grandezza di proporzioni che annunzia un’anima gigante. Venerabile sacerdote, venerabile apostolo e missionario del popolo”.
     Tale fu Vito Michele Di Netta, Apostolo delle Calabrie.
    

Prof. Rocco De Paola

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