EPIGRAFE IN LATINO SU PIETRA CHE IN ORIGINE SI TROVAVA IN VIA TRIONFO ARDUA L’INTERPRETAZIONE DEL TESTO (Seconda parte). Prof. Rocco De Paola

EPIGRAFE IN LATINO SU PIETRA
CHE IN ORIGINE SI TROVAVA IN VIA TRIONFO
ARDUA L’INTERPRETAZIONE DEL TESTO
A CURA DI ROCCO DE PAOLA
(Seconda parte).


A cura del Prof. Rocco De Paola
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     Le difficoltà di interpretazione del testo si ripresentano con i termini successivi. I due segni che seguono immediatamente sono di ardua lettura per la estrema aleatorietà delle tracce che è possibile individuare. Il primo grafema potrebbe essere una “C” o, forse, una lettera di tipo particolare, simile a una sorta di numero 8, che si rinviene nell’alfabeto osco-sannita ed in quello etrusco, che corrisponde alla lettera “F” dell’alfabeto latino. La lettera seguente presenta tratti non facilmente identificabili, tanto che potrebbe essere ravvisata per una “O” con occhiello aperto verso l’alto. Si potrebbero anche fondere i due segni, leggendovi un “do…” con lettere in minuscolo. Tuttavia, nonostante l’accurata anamnesi di tutte le possibili alternative, le ipotesi formulate non appaiono del tutto convincenti, anche per il fatto che le lettere che seguono, pur prestandosi ad una lettura più agevole, non concorrono a fornire un senso logico al tutto. Infatti, la parola “MATMOAT[---]”, con doppia legatura della A e della T in principio ed in fine di parola, accresce i dubbi e le incertezze, rendendo più oscuro e sibillino il senso complessivo. Se anche si legasse DO con MAT, se ne potrebbe ricavare un significato (domare, addomesticare, assoggettare ecc.), ma con scarso costrutto. Domare, assoggettare cosa? E perché, poi, nonostante il testo non sia da ritenere di eccellenza dal punto di vista sintattico e lessicale, il redattore sarebbe passato inopinatamente, a breve distanza, dal tempo al passato di “struxit” o “i(n)struxit” (o “distruxit”) al presente di “domat”? Si tratterebbe di incongruenze sintattiche non facilmente spiegabili, anche se, poco oltre, ricorre un verbo al tempo presente. Neppure è di ausilio alcuno interpretare quello strano segno di cui si è detto come una “F”. Cos’altro significherebbe “fomat”? O, forse, sarebbe da leggervi “fumat”? Anche se si propendesse per questa ricostruzione, sarebbe comunque strana la incisione della lettera “U” secondo una grafia inconsueta e che non si nota in altra parte del testo, dove viene utilizzata costantemente la forma della “V”. Quest’ultima osservazione escluderebbe anche una diversa lettura delle lettere di cui si è detto. Infatti, unendo la presunta “C” con la “U” e la successiva “M” ne deriverebbe la parola “CUM” con funzione di preposizione o di congiunzione. Permarrebbe, tuttavia, l’enigma della parola seguente che appare mutila nella parte destra. Le lettere individuabili danno AT o TA, per la legatura della A con la T, e, senza soluzione di continuità, ATMOAT[---] o TAMOAT[---] o, ancora, TAMOTA[---] oppure ATMOTA[---], con ulteriore legatura di A e T. Anche se si tralasciassero le legature, considerando solo le due singole “A”, che spesso, nei testi epigrafici, semplicemente riportano una lineetta sul vertice, a far data dal quarto secolo(4), permarrebbe, comunque, la più assoluta incertezza. Cosa starebbero a significare AMOA[---] o MAMOA[---] ? Si tratterebbe di un sostantivo o di una voce verbale? Se poi, in fin di riga, quelle che sembrerebbero una A ed una T legate dovessero essere interpretate, cosa del tutto plausibile, come una “N”, il rebus, ancorché semplificarsi, diverrebbe ancora più intricato: AMON[---] oppure MAMON[---]?.
     Il rigo successivo inizia con dei segni che, come ho già segnalato sopra, potrebbero indicare un numero in cifre romane, ossia CIII (103). Non mi sembra opportunoavanzare ulteriori illazioni in proposito, ovvero pensare che quei segni possano rappresentare una qualche parola, come forse sarebbe possibile se le aste verticali fossero interpretate come delle i o delle elle. Stando, comunque, alla decodificazione più ovvia, quel 103 non riceve nessuna conferma o una qualche delucidazione da quanto segue. Infatti, le esili tracce che è possibile ravvisare ( forse una M maldestra, per MORTUOS?) non forniscono indizi sufficienti per comprendere con certezza di quale parola possa trattarsi.
     Il termine successivo è di agevole lettura (VidES, sic), anche se presenta delle anomalie grafiche. Alla V segue una “i” minuscola sormontata da un improbabile puntino, la lettera seguente è ancora una lettera minuscola, una “d” legata con una E in carattere maiuscolo seguita da una S. Senza soluzione di continuità, segue una h, in carattere minuscolo, seguita da una “o” e da una “s” o da una “c”, a formare il pronome “hos” oppure “hoc”. La versione “hos” mi sembra quella più probabile, per una leggera curvatura che si nota verso la parte mediana dell’ultima lettera. Seguendo una versione interlineare (CIII M[------] videshosod hoc), cosa invita a vedere l’estensore del messaggio? Non è dato formulare, nonché alcuna risposta certa, nemmeno una probabile o verosimile ipotesi in merito, anche se il logico ed intuitivo seguito della parola hos[---] potrebbe dare come risultante “hostes” (nemici). Vi sarebbe, dunque, un riferimento ad una cruenta battaglia che avrebbe determinato la morte di ben centotré nemici,o concittadini, e la distruzione della Chiesa Madre? E di quale evento potrebbe trattarsi? Con tutta evidenza, le domande formulate sono destinate a rimanere senza plausibili risposte.
     La riga seguente si apre ancora una volta con dei segni criptici di difficile comprensione. Ad una sorta di “f” corsiva, forse da interpretare come una “esse”, frequente nelle scritture medioevali, seguono delle linee verticali e poi un segno che sembrerebbe una rho ( ?) greca retroflessa (5) od una S. Quello che segue dovrebbe, con molta verosimiglianza, essere una abbreviazione scribale con due possibili letture, ossia “di” o “con” (vedi le note in calce et supra).
     Tralasciando, nella prima parte del rigo, i segni immediatamente a sinistra, la “lectio facilior”, facendo affidamento sulle tracce visibili ed interpretando l’abbreviazione scribale come “con”, ci porterebbe a leggere “CONDIDIT” (costruire, fondare, edificare, erigere, o portare a termine, compiere). Se, invece, l’abbreviazione scribale dovesse essere intesa come “di”, la parola, servendoci di una certa approssimazione ed utilizzando l’intuito piuttosto che la logica, potrebbe essere DICAVIT (dedicare, consacrare, inaugurare). I verbi individuati si possono riferire ad un personaggio (vedi il successivo IDEM=lo stesso, il medesimo) che avrebbe provveduto a condurre a termine i lavori oppure a (ri)consacrare o semplicemente ad inaugurare la Chiesa restaurata. Si tratta del BARTOLUS cui abbiamo accennato dianzi? Se, poi, si volesse, nonostante le notevoli difficoltà di decifrazione, attribuire un senso anche ai segni iniziali, DICAVIT (vedi supra) potrebbe essere integrata come “VINDICAVIT”. Ma siamo, ancora una volta, nel campo della pura supposizione.
     Più semplice è la lettura della parola seguente come IDEM, anche se qualche dubbio può sorgere a causa di una lineetta soprastante la D, che si presenta aperta nella parte inferiore. In questi casi si dovrebbe interporre una n (o una m) per cui ne verrebbe fuori un “indem[nis]”. Tuttavia, la prima lezione (idem) sembra comunque preferibile e servirebbe a dare un senso a tutta la frase.
     L’ultimo rigo presenta dei segni che potrebbero rappresentare una data, comunque con caratteristiche irrituali, in quanto, tradizionalmente, di un qualche avvenimento memorabile si riporta solamente l’anno, in numeri romani, senza indicazione del mese e del giorno. Ad iniziare dalla sinistra, e trascurando le prime due tracce indecifrabili, si individua quello che potrebbe essere un numero IV e, a seguire, I ed infine ancora I e poi, un po’ più discosto un 7. Le interpretazioni maggiormente plausibili porterebbero ad accreditare il IV come il possibile giorno o anche il mese dell’evento. Comunque la identificazione dell’anno resterebbe problematico. Tra la cifra I ed il 7 c’è uno spazio con un leggero incavo di natura e forma indefinibili, e oltre la cifra 7 manca qualsiasi indizio dell’ulteriore cifra che avrebbe dovuto completare la datazione dell’anno. Anche volendo assegnare la prima cifra (I, n.d.r.), pur distanziata, alla cifra indicante il presumibile secolo (17..?), non si riuscirebbe comunque ad ottenere una sicura datazione. Avendo formulato l’ipotesi che dal contesto della iscrizione si possa evincere un indiretto riferimento ad una qualche contingente calamità determinata dalla natura o dall’uomo, si potrebbe supporre che la data possa essere individuata scorrendo le vicende luttuose che hanno segnato la storia del paese.
     Le epiche gesta dei nostri maggiori ci inducono a considerare come fatti memorabili, che hanno lasciato una traccia indelebile nell’immaginario collettivo, le devastazioni del paese, una prima volta nell’anno 1199, per mano del bieco Markwald di Anweilerche, secondo le parole del cronista, “vi cepit (Vallatam, n.d.r.) et suisdedit in direptionem et praedam”(6) (prese con la forza Vallata e la abbandonò alla devastazione ed ed al saccheggio della soldataglia), ed una seconda volta, nel 1496, per colpa di Francesco II Gonzaga, con il conseguente eccidio che è rimasto negli annali della nostra storia. Ma nessuno di questi avvenimenti sembra corrispondere, in qualche modo, agli scarsi indizi forniti dalla epigrafe di cui andiamo discorrendo.
     Nemmeno la ricognizione dei ricorrenti terremoti ci fornisce un contributo decisivo nella determinazione della data. Limitando la nostra ricerca ai secoli XVI-XVII-XVIII ed ai più devastanti eventi tellurici che hanno prodotto notevoli danni all’abitato, non si riesce ad individuare una data che possa coincidere con i dati rilevati. Se si tiene conto delle varie cronologie che riportano il 7(7), comunque manca la corrispondenza con l’eventuale giorno o con il mese.
     Si deve, allora, necessariamente ritenere che la data si riferisca ad una riconsacrazione o ad una più semplice cerimonia di inaugurazione della Chiesa di San Bartolomeo, a seguito di restauro effettuato dopo una delle numerose distruzioni subite nel corso della sua storia millenaria. Resta una incognita l’anno in cui un tale avvenimento sarebbe accaduto, anche se l’accostamento della cifra I con il 7 farebbe pensare al secolo XVIII. In verità, un restauro della Chiesa è documentato nell’anno 1785, quando furono ristorati i danni del “fierissimo terremoto” del 1732, ma non ci fu riconsacrazione del Tempio, forse solo una cerimonia di “riconciliazione ed inaugurazione”(8). Per una singolare coincidenza, tra il 1784, anno della morte dell’allora Arciprete D. Ciriaco Cataldo, deceduto il 28 novembre, ed il 1785, anno dell’insediamento del nuovo Arciprete D. Giuseppe Maria Pali, si ha un breve “interregno”, durante il quale l’Arcipretura rimane vacante per qualche mese. Non sembri strano, allora, ipotizzare che la cerimonia di “riconciliazione ed inaugurazione”, tanto solenne da meritare di essere ricordata su lapide, possa essere stata presieduta dal decano del Clero locale D. Bartolomeo Sauro(9). Occorre anche ricordare che in quello stesso anno, forse proprio in quella circostanza,fu inaugurato il nuovo portale laterale della Chiesa Madre,come fa fede la data riportata sull'architrave. Tutte queste coincidenze, per quanto possano sembrare aleatorie, concorrono ad avvalorare l’ipotesi di una datazione accreditabile al secolo predetto. Naturalmente si tratta di semplici deduzioni cui non è possibile dare un fondamento di incontrovertibile certezza, difettando, in merito, una sicura documentazione.

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4) AemiliusHübner, Exemplascripturaeepigraphicaelatinae, Berolini, apudGeorgiumReimerum, MDCCCLXXXV, Prolegomena, pag. LIV.
5) RaphaelGarruccius, Syllogeinscriptionumlatinarumaeviromanae rei publicaeusquead C. Iulium Caesaremplenissima, Augusta Taurinorum, ed. Paravia, MDCCCLIII, a pag. 6 è riportato un grafema prossimo ad una ?? greca retroflessa.
6) La citazione è ripresa dal testo di Gerardo De Paola, Vallata, rassegna storica civile religiosa, Ed. Valsele, 1983, ristampa, pag. 75.
7) Gerardo De Paola, op. cit., alle pagg. 195-196 sono citati i terremoti del 1627, del 1702, del 1731 e del 1732 tutti riportanti la cifra 7.
8) Gerardo De Paola, op, cit., pag. 309.
9) Gerardo De Paola, op. cit., pagg. 275-276.

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