Tra cronaca e storia. Uno ''sciopero'' ante litteram. - A cura di Rocco De Paola.

Tra cronaca e storia
Uno “sciopero” ante litteram
L’ignoto episodio avvenuto nel XVI secolo

ebbe un drammatico epilogo
e vide coinvolti anche tre nostri concittadini

di
Rocco De Paola

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        Compulsando un articolo comparso di recente su “Il Quotidiano del Sud”1 , tra le altre interessanti informazioni ivi contenute, ha attirato il mio vivo interesse quella relativa ad uno “sciopero” verificatosi nella seconda metà del secolo XVI. Trattando delle plurisecolari migrazioni, che periodicamente avvenivano nella vicina Puglia, nella imminenza della mietitura, da parte di numerose schiere di contadini che, per necessità o perché costretti dalle autorità2, si trasferivano per alcune settimane nelle fertili pianure della Dàunia, l’estensore dell’articolo parlava di un ignota quanto clamorosa protesta, o, per meglio dire, dell’ammutinamento messo in atto da una squadra di mietitori che si erano trasferiti nei campi di quella storica regione per attendere al taglio delle bionde messi. La cronaca di quegli avvenimenti trova riscontro solamente nel testo di un giureconsulto originario dell’allora capoluogo del Principato Ultra, Montefusco3. Nel suo celebre trattato “De pugna doctorum” Eliseo Danza4, come exemplum della quaestio che stava trattando nel contesto del primo volume della sua ponderosa opera, relativa al giusto salario, introduce “ex abrupto” una vicenda accaduta nel 1574 in una imprecisata località della Puglia5. Nella torrida estate di quell’anno, la maturazione precoce delle messi rischiava di comprometterne la produzione, con grave nocumento per i proprietari, per cui i massari avevano richiesto ai lavoranti di procedere in modo sollecito alla mietitura, assicurando così il raccolto6. Sennonché, alcuni mietitori, in conventicola fra di loro, adducendo a scusante le proibitive condizioni meteorologiche, decisero di incrociare le braccia, con la riserva che avrebbero proceduto alla falciatura del grano solo se fosse stata loro corrisposta una congrua contropartita pecuniaria7. Allarmati per la drammatica situazione, i massari e i padroni dei campi, temendo che potesse essere del tutto vanificato il raccolto del frumento e dell’orzo, se non si fosse proceduto immediatamente alla mietitura, obtorto collo diedero il loro assenso alle richieste dei mietitori8. I contadini, allora, resi euforici dalla prospettiva di un grosso guadagno, si misero alacremente all’opera, e, incuranti dei raggi cocenti che impietosi dardeggiavano dal cielo terso, infierendo sulle loro terga, portarono a termine il lavoro9. Tuttavia, il salario, che essi erano riusciti a conseguire con la loro clamorosa azione di protesta, superava forse il valore commerciale del frumento che un singolo individuo riusciva a mietere nel corso di una giornata di lavoro10. Fu questa la ragione precipua per cui i proprietari dei campi informarono di quella sorprendente novità, posta in essere dai mietitori, le autorità preposte, e segnatamente il Cardinale di Granvela, allora Viceré del Regno11. Costui, ritenendo che l’eccessiva calura fosse stata un mero pretesto, al solo scopo di ricattare i miserrimi massari onde estorcere una indebita mercede, subito si attivò12. Per far pagare il fio a quei temerari, la cui inaudita improntitudine metteva in discussione le regole che usualmente regolavano i rapporti di lavoro, ordinò che fossero buttati in carcere e condannati alle triremi, con il codicillo di ulteriori circostanze aggravanti e pene accessorie13. Tutto ciò risulta dalle lettere rilasciate dalla cancelleria del Viceré, che il nostro Eliseo Danza ebbe la compiacenza di trasmettere a beneficio dei posteri, perché ne traessero contezza di quella esemplare condanna14. Nel contesto della lettera rimessa dal Cardinale di Granvela ad Antonio Borgia, governatore della provincia del Principato Ultra, il cui capoluogo era allora Montefusco, si dà ordine di procedere, senza por tempo in mezzo, alla cattura degli uomini in essa citati e di rinchiuderli nel carcere della Udienza, allogato nelle tenebrose segrete del castello.
        Il maniero fortificato di Montefusco15, eretto dai Longobardi, aveva subito nel corso dei secoli numerose modifiche e ristrutturazioni ad opera dei diversi dominatori, Normanni, Svevi, Angioini. Nel momento in cui, in età angioina, la civitas di Montefusco divenne capoluogo del Principato Ultra, con sede della Regia Udienza Provinciale, che aveva la facoltà di giudicare le cause civili, penali e militari, con esclusione di quelle feudali e demaniali, i sotterranei dell’antico castello, malsani e privi di luce e di aria, furono utilizzati come galere in cui venivano reclusi i condannati.


La foto è ripresa dal sito web “Montefusco” di Fioravante Bosco 1999-2004.

        Formato da due corsie sovrapposte, l’una diversa dall’altra nella struttura, ed entrambe scavate nella roccia su uno dei lati, quel carcere ben presto acquisì la sinistra fama di essere uno dei più duri del regno. Nel corso dei secoli ospitò migliaia di detenuti condannati per reati comuni, non escluse donne con bambini. Vi erano praticate usualmente varie forme di tortura, come quella del “puntone”, un grosso anello infisso nel muro al quale venivano assicurati per giorni i prigionieri, con le catene alle mani e ai piedi, o quella detta del “mattascione”, appellativo di una corda con la quale erano, con estrema efferatezza, colpiti sulle natiche scoperte. La pena maggiore era ovviamente quella capitale che veniva eseguita fuori dal centro abitato, secondo un rituale specifico e con l’accompagnamento del condannato da parte di una determinata confraternita verso il luogo del supplizio. Gli arbitrî erano piuttosto frequenti e spesso si finiva col marcire per anni in celle ristrette e talvolta del tutto deprivate di luce e di aria sulla base di accuse aleatorie. Le condizioni di detenzione erano tanto terribili che molti detenuti optavano per la condanna ai remi, da scontare sulle navi da guerra, nella vana illusione di mitigare la loro situazione.
        Un “salto di qualità” si ebbe quando il carcere cominciò ad accogliere i detenuti politici in seguito al fallimento della Repubblica Partenopea. Nonostante il trasferimento del capoluogo di provincia ad Avellino nel 1806, il carcere di Montefusco continuò ad ospitare detenuti fino al 1845, per poi essere chiuso quando entrò in funzione il carcere borbonico del nuovo capoluogo, ove vigeva un regime carcerario alquanto più mite. Con i moti del 1848 tornò in auge, aprendo le sue porte a una cinquantina di liberali provenienti in massima parte dal centro-sud dell’Italia. In quella straordinaria circostanza fu dichiarato carcere di massima sicurezza e riservato solo ai detenuti politici. Nel 1851 venne classificato da Ferdinando II di Borbone come “bagno penale di prima classe”, che non sottintendeva nessun trattamento privilegiato, anzi il regime carcerario, già durissimo, subì un inasprimento con l’aggiunta di ulteriori misure disciplinari e con la segregazione completa dei detenuti dal mondo esterno, essendo confinati in un territorio isolato e di difficile accesso. Fu proprio allora che esso prese la denominazione di “Spielberg dell’Irpinia”, soprattutto quando iniziò ad ospitare nelle sue tetre celle, dal febbraio del 1852, numerosi patrioti. Il barone di Belcastro Carlo Poerio, già ministro del regno, il conte Michele Pironti, il duca Sigismondo Castromediano e il barone Nicola Nisco, trasferiti dal penitenziario di Procida insieme a decine di altri detenuti, vi giunsero il 1° Marzo al tramontare del sole. Castromediano e Nisco ci hanno lasciato memoria nei loro scritti delle vessazioni subite e della brutalità dei trattamenti riservati ai prigionieri, con dovizia di particolari che non lasciano nulla all’immaginazione16.
        Dopo la proclamazione del Regno d’Italia, il carcere fu utilizzato come succursale di quello di Avellino, ma ospitò un numero limitato di detenuti e solo nella sua parte superiore. Nel 1877 in quell’edificio fu sistemato il carcere mandamentale dipendente dalla locale Pretura e dopo la soppressione di questa fu chiuso definitivamente, per poi essere dichiarato Monumento Nazionale nel 1928.

 


Il carcere di Montefusco come si presentava prima del restauro e come è oggi.
Foto tratta dall’articolo di Palmerino Savoia.

        Fu, dunque, in quell’orribile antro che i contadini, rei, secondo l’accusa, di aver adottato un atteggiamento gravemente sedizioso verso Dio e Sua Maestà il re e di aver arrecato pregiudizio al Regno avendo prodotto un grosso danno alle aziende reali17, furono temporaneamente “ospitati” per ordine del Cardinale di Granvela. Complessivamente si trattava di quarantadue persone, originarie per la maggior parte dei paesi dell’alta Irpinia, da cui ogni anno muovevano alla volta delle piane della Puglia per impinguare i loro magri introiti annuali18. Di quel gruppo di infelici, destinati ad una pena terribile da scontare sui banchi delle remiere spagnole, facevano parte tre nostri concittadini, che con tutta probabilità non fecero più ritorno a casa.
    I nominativi di quei miserandi individui sono Angelo de Siona, Beneditto de Iulio e un certo Baptista senza ulteriore specificazione. Antonio Cardinal de Granvela, come suo espresso atto di volontà, dava ordine, in quanto Capitano Generale, che i condannati, per il pubblico bene, fossero poi tratti a Napoli al carcere della Gran Corte della Vicaria per dare esecuzione alla condanna19. A maggior onta e a disdoro dei reprobi che si erano macchiati di tanto delitto contro la regia maestà, con il loro irresponsabile comportamento, il terribile cardinale dava disposizione di esporli al pubblico ludibrio delle popolazioni di tutti i paesi attraversati, convocate allo scopo sulla pubblica piazza con lo strepito di trombe e tamburi, dando lettura della condanna20. Possiamo solo immaginare lo scorno e l’umiliazione che dovettero subire quegli sventurati, nel loro penoso peregrinare, carichi di catene, prima di raggiungere la capitale del regno! L’ultima avvilente esibizione dei condannati avvenne in una piazza di Napoli, prima di essere fagocitati dalle sentine delle triremi spagnole, in un viaggio senza ritorno.
    Gli episodi di protesta non dovevano essere infrequenti tra il XVI e il XVII secolo, se lo stesso Danza ci dà notizia di un fatto analogo avvenuto nel 1638, a distanza di quasi un secolo dall’altro, nelle stesse, straordinarie contingenze meteorologiche e con i medesimi attori. Anche in quel caso la vertenza ebbe esito non propizio per i lavoranti, con piena soddisfazione dei massari e dei proprietari 21. I tempi non erano evidentemente maturi per rivendicare miglioramenti salariali e più dignitose condizioni di lavoro. L’illustre giureconsulto, però, non ci fornisce ragguagli circa eventuali condanne a carico dei mietitori, come era avvenuto in precedenza. Nonostante lo scorrere inesorabile del tempo della Storia, che frappone un diaframma tanto ampio con quegli avvenimenti, il nostro ossequente e dolente pensiero ancora oggi va a quegli infelici contadini dal temerario coraggio, che non ebbero tema di affrontare una impari lotta per l’affermazione dei loro sacrosanti diritti, ma che, d’un tratto, dalle assolate piagge del Tavoliere di Puglia, invase da un mare festevole di bionde messi, si ritrovarono sballottati su mari cerulei, aggiogati ai duri banchi da voga delle galere spagnole, ove consumarono il miserevole resto della propria esistenza tra stenti e sofferenze inenarrabili.


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1) “Il mietitore in Puglia, antico mestiere scomparso. Migliaia i contadini irpini che emigravano ogni anno, nella stagione estiva, per integrare il bilancio familiare”, di Florenzo Iannino, su “Il Quotidiano del Sud”, La Domenica del Quotidiano, 3 Giugno 2018.

2) A quell’epoca il reclutamento dei mietitori era effettuato dagli “antenieri” (talora definiti “caporali”) che riscuotevano e pagavano ai mietitori una caparra. In un primo tempo la scelta degli antenieri doveva essere approvata dalle università, in seguito queste non ebbero più nessun ruolo per cui si aprì, in tal modo, la strada ad abusi più frequenti. Per gli antenieri che non avessero procurato il numero concordato di mietitori la Prammatica del Febbraio 1588 prevedeva la pena di tre anni di galera, che veniva estesa anche ai mietitori che, dopo aver riscosso la caparra, non si fossero presentati al lavoro o se ne fossero allontanati. (“Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea” a cura di Angelo Massafra, Dedalo Libri, Bari, 1981, pag.35).

3) Montefusco, borgo di antichissima origine, arroccato su una collina a 700 metri di altitudine, deve alla sua particolare posizione geografica, a dominio delle valli del Calore e del Sabato, il singolare privilegio che lo vide per molti secoli capoluogo del Principato Ultra, nato dalla scissione dell’antico Principato Longobardo operata da Carlo d’Angiò nel 1284. Il territorio del neo principato comprendeva un vasto territorio di cui facevano parte molti paesi delle attuali province di Avellino e Benevento. Solo nel 1806 i Francesi designarono Avellino come novello capoluogo dell’omonima provincia, che divenne ufficialmente tale solo nel 1814, non essendo ancora quel centro dotato dei locali adatti per accogliere i nuovi uffici.

4) Elisaeus Danza, Tractatus de pugna doctorum et victoria advocatorum, Tomus primus, ex Typis Laurentij Valerij, Neapolis, M. DC. XXXIII, seconda edizione, pp. 472-473. Eliseo Danza (1584-1660), originario di Montefusco, fu un celebre giureconsulto dedito soprattutto alla difesa degli oppressi, troppo spesso vittime dei soprusi dei signori dell’epoca, tanto da meritare l’alto onore di essere designato Avvocato dei Poveri della Gran Corte della Vicaria di Napoli (Discorso storico-critico intorno all’origine, vicende e decadimento dell’Accademia de’ Dogliosi della città di Avellino, scritto dall’avvocato Giuseppe Zingarelli, II edizione, Napoli, Dai Tipi di Francesco Azzolino, 1842, pag. 18). Fu membro dell’Accademia degli Offuscati, la cui sede era Montefusco. Scrisse delle dotte opere di carattere giuridico, apprezzate nel mondo giudiziario e forense del XVII secolo, la cui fama tuttavia non eccedeva i confini del Principato Ultra. Oggi esse conservano un certo interesse perché contengono numerosi riferimenti a fatti di cronaca ed eventi accaduti in quel contesto temporale.

5) L’incipit, con una brusca digressione rispetto alla dissertazione di cui stava disquisendo, entra nel vivo del discorso senza alcun preambolo: “Sed pone, quod tempore messium, sive vindemiarum non sit copia operariorum, et pauci existentes vellent excessivum salarium, an sit moderandum?” (Eliseo Danza, op. cit., pag. 471). [Mettiamo che al tempo (della maturazione) delle messi o della vendemmia vi sia scarsità di manodopera e che i pochi operai presenti sul campo pretendano un salario eccessivo, questa loro pretesa non andrebbero ridimensionata?.n.d.t.].

6) “Invenio hoc accidisse in anno 1574, in partibus Apuleae ubi messores multi accesserant tempore messium pro tritico secando, qui videntes magnum calorem et sic eccessivum et fere insopportabilem de coelo profluentem…” (Eliseo Danza, op, cit. ibidem). [Sono venuto a conoscenza che questo accadde nell’anno 1574 in un luogo della Puglia dove erano convenuti numerosi mietitori per mietere il grano. Costoro, a causa del gran caldo quasi insopportabile che profluiva dal cielo,…”.n.d.t.].

7) “Conventicularunt ad invicem illa non secando nisi magnum pretium eis solveretur”. ( Eliseo Danza, ibidem). [In combutta tra di loro, decisero che non avrebbero proceduto al taglio delle messi se non fosse stato loro corrisposto un salario molto maggiore.n.d.t.].

8) “Videntes massarii Apuleae et patroni agrorum istum excessivum calorem, considerantes frumenta et fruges posse deperdi, nisi cito magnaque diligentia a terra tollerentur, ad evitanda tot damna, messoribus promiserunt quantum illi volebant”. (Eliseo Danza, op, cit. pp. 471-472) [I massari della Puglia ed i proprietari dei campi, considerando che per il calore eccessivo potevano perdere tutto il frumento e le altre messi se non si fosse proceduto a falciarli con la massima circospezione ed urgenza, onde evitare tanto ingenti danni, promisero ai mietitori che avrebbero corrisposto loro il salario che essi avevano richiesto.n.d.t.]. Le messi consistevano in grano ed orzo, “trigo y cevada (sic), come si legge nella lettera del Cardinale diretta al governatore del Principato Ultra.

9) “Et illi messores hac promissione magnae pecuniarum quantitatis gaudentes, granum secarunt”. (Eliseo Danza, op. cit. pag. 472) [I mietitori, in virtù di tale promessa, rallegrandosi per l’ingente peculio atteso, falciarono il grano.n.d.t.].

10) Rassegna storica dei comuni. Vol. 1- Anno 1969, Istituto di studi atellani, n° 4 Agosto-Settembre 1969. “Catene” di condannati alle trireme spagnuole dal carcere di Montefusco a quello della Vicaria di Napoli”, di Savoia Palmierino, pag. 194. Che i mietitori abbiano ottenuto in quella circostanza un compenso che forse eccedeva il valore venale del grano lo si deduce, per analogia, da un simile episodio accaduto sessantaquattro anni dopo e che trova riscontro nella stessa opera di Danza.

11) “Interim agrorum patroni notiziam dederunt de hac nova inventione messorum Domino Cardinali Granvela, tunc Regni Proregi”. (Eliseo Danza, op. cit., pag. 472) [Nel frattempo i proprietari dei campi informarono di questa novità escogitata dai mietitori il Signor Cardinale Granvela, allora Viceré del Regno.n.d.t.].

12) “Qui considerans hanc causam magni caloris fuisse ansam nedum extorquendi, et insolitam mercedem petendi pro solito labore”. (Eliseo Danza, op. cit., ibidem) [Costui considerando falsa la motivazione (addotta) della gran calura nonché solo a fini estorsivi, e del tutto inusuale la ricompensa per il solito lavoro di mietitura n.d.t.].

13) “Immo et recattandi pauperrimos massarios, zelo motus, ad reprimendam audaciam talia committentium iussit illos carcerari et ad triremes condemnari cum aliquibus qualitatibus et circumstantiis gravantibus” (Eliseo Danza, op. cit., ibidem) [Anzi con il solo scopo di ricattare i poveri massari, mosso da zelo, al fine di reprimere la temerità di coloro che avevano osato tali (nefandezze), ordinò che fossero incarcerati e condannati alla pena delle triremi con altri supplizi accessori e circostanze aggravanti” n.d.t.]. La condanna ai remi, che divenne prassi per il reclutamento dei rematori, altrimenti impossibile su base volontaria, era ritenuta una pena “minore” dai giuristi dell’epoca. In pratica essa equivaleva alla pena capitale, poiché era oltremodo difficile sopravvivere alle spaventose condizioni in cui erano tenuti i galeotti. (Savoia Palmierino, “Catene” di condannati alle triremi spagnuole, cit., pag. 192). Un antecedente storico della condanna ai remi di tutti i detenuti del carcere di Montefusco si ebbe nell’anno 1635. L’allora Vicerè di Napoli, conte di Monte Reale, dispose il 27 Marzo di quell’anno che Ferdinando Mugnoz, Regio Consigliere e Giudice della Gran Corte Criminale della Vicaria provvedesse urgentemente a “reclutare” i rematori di cui c’era estrema necessità sulle galee spagnole, commutando le pene e infliggendo indiscriminatamente quella ai remi a tutti coloro che erano detenuti nel carcere della Regia Udienza di Montefusco. Lo zelantissimo Mugnoz si attivò immediatamente e pochi giorni dopo quell’Istituto Penale fu completamente svuotato e la triste “catena” umana si avviò alla volta di Napoli, diretta al carcere della Vicaria, per il successivo smistamento sulle navi da guerra spagnole, accompagnata per lungo tratto dal pianto disperato delle donne di quegli infelici, per molti dei quali non ci fu mai il viaggio di ritorno. (Eliseo Danza, op. cit., pag. 533). (Palmierino Savoia, op. cit., pp. 192-193).

14) “Ut apparet ex literis per Scriptorium relaxatis, quarum tenorem placet inserere ad successorum notiziam et instructionem, ut in simili ad inventione quid servatum fuit sciatur”. (Eliseo Danza, op. cit., ibidem) [Come si rileva dalle lettere rilasciate dalla Cancelleria, che mi piace qui inserire (integralmente) per darne notizia ai posteri perché ne siano edotti n.d.t.].

15) Le notizie relative al castello e al sottostante carcere di Montefusco sono state riprese dal sito web del Comune, da un articolo de “La Stampa Viaggi”, s.d. e dall’articolo Palmerino Savoia, “Lo Spielberg dell’Irpinia. Il carcere di Montefusco”, riprodotto in stampa anastatica a cura dell’Amministrazione Comunale di Montefusco, 1992.

16) Sigismondo Castromediano nelle sue Memorie intitolate semplicemente “Carceri e galere politiche”, Congedo Editore, oggi edito da Mondadori, ci fornisce un resoconto puntuale delle continue vessazioni a cui furono sottoposti i prigionieri politici, tuttavia sostenute con stoica determinazione e con dignità, pur di tener fede ai loro ideali. Particolarmente toccante e drammatica è la descrizione della prima notte di detenzione trascorsa in una cella buia e fredda. Con il nevischio che mulinava dall’esterno attraverso una finestra senza imposte, i miseri prigionieri cercavano di combattere il gelo pungente strettamente abbracciati fra di loro, completamente vestiti ed avvolti nei loro mantelli, tanto da sembrare una sola massa (op. cit., I volume, pag. 30). Anche Nicola Nisco fa una descrizione altrettanto lucida e precisa delle condizioni in cui si trovavano in quel tetro reclusorio e delle gratuite violenze, non scevre di una vena di sadismo, di cui si rese responsabile il disumano direttore del carcere, tale comandante De Franco (Nicola Nisco, Storia del Reame di Napoli dal 1824 al 1860. Libro II Parte seconda, XV. I Martirii ad alcuni condannati. Le galere eccezionali di Montefusco e di Montesarchio-L’ergastolo di Santo Stefano, quinta edizione, A. Guida Editore, Napoli, s.d, pag. 317). Gli ambienti insalubri, il regime alimentare scadente, i maltrattamenti continui furono fatali a molti detenuti. “In questo speco, orribile per oscurità e per aria scarsa e malsana, i più contrassero malattie” che li portarono alla tomba o lasciarono segni indelebili nell’organismo per il resto della loro esistenza. (Nicola Nisco, op. cit., ibidem). La detenzione nel carcere di Montefusco dei patrioti Nisco, Pironti, Poerio e Castromediano ebbe termine il 28 Maggio 1855, quando furono trasferiti insieme ad altri prigionieri nel carcere di Montesarchio. Il 13 Gennaio 1859 la pena dell’ergastolo fu commutata in esilio perpetuo negli Stati Uniti d’America, ma essi, durante il viaggio per mare, riuscirono a farsi sbarcare in un porto inglese, per poi raggiungere Torino. Nicola Nisco tra le righe di queste sue amare considerazioni afferma che quella orribile galera è “un monumento da visitarsi da chiunque onestamente vuol giudicare il governo di Ferdinando II” (Idem, ibidem, pag. 318). Dopo la realizzazione dell’Unità d’Italia, finalmente libero, sarà deputato al Parlamento Italiano per diverse legislature.

17) “…en gran disserviçio de Dios, de Su Magestad y perjuyzio comun deste Su Reyno, y en mucho damno de Su Real hazienda…” in Eliseo Danza, op. cit. pag. 473.

18) Nella lettera di Granvela al governatore della Provincia del Principato Ultra sono elencati minutamente i nominativi dei condannati con i loro paesi di origine. Il gruppo più numeroso proveniva da Torella, infatti erano ben diciotto i contadini di quel paese tratti in arresto. Da Calitri ne provenivano tre, da Carife tre, da Vallata tre, da Calabritto tre, da Lacedonia uno, da Casalbore uno, da Monteaperto uno, da Bassanoy (?) o Portillo uno, da Santo Iorio de la Molinara (San Giorgio del Sannio ?) due, da Pitina due, da Masicela, Cuffati, Vicino e Villamaina uno per ciascuna di queste località. (Eliseo Danza, op. cit., pag. 473).

19) “…como Capitan General el que orden es mi voluntad, por el bien publico, y hecho esto provea V.M. que todos los suddichos, que fueren prefus y condenados se trayan aqui a las carceles de la Gran Corte de la Vicaria, paraque se execute en ellos la dicha condendacion”. (Eliseo Danza, op. cit., ibidem).

20) “…y me darà V. M. aviso de quando se vengan aqui, porche (sic) ordene a las personas, que venteren en galera con los condenados, que por todas las tierras per donde passaren, y por el camino que stuuteren (sic) digan publicamente porque se han condenado, porque assi conviene por buen respecto…”. (Eliseo Danza, op. cit., ibidem). La lettera si chiude con la data: De Napoles a 7 de Agosto 1574 e con la firma Antonio Cardinal de Granvela. (Idem, ibidem).

21) Eliseo Danza, op. cit., pag. 475.

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