Vallata e la Baronia

   PREFAZIONE

        Ho avuto più volte occasione di sollecitare studiosi locali e insegnanti a raccogliere e sistemare testimonianze delle parlate locali italiane. Quella che a Dante appariva l‘ingens silva dei nostri dialetti ha vigoreggiato quasi senza contrasto fino alla generazione passata. Un grande linguista, Matteo Bartoli, potetva osservare soltanto negli anni t’enti del nostro secolo che la vita dei dialetti cominciava a essere minacciata nelle grandi città d’Italia, che pure, fino a pochi anni prima, dei dialetti erano state - scriveva Bartoli - la culla, ed erano restate sorgenti di ondate innovative che dai centri maggiori si spandevano verso i minori e le campagne. Ma per quanto nelle città maggiori facesse progressi l’uso dell’italiano, il declino dei dialetti fu più lento di quel che Bartoli pensava. Si pensi che ancora a metà degli anni cinquanta nel suo complesso la popolazione italiana parlava per due terzi soltanto uno dei dialetti e non praticava attivamente l’italiano. Nello stesso torno di tempo, tuttavia, l’accelerarsi dei progressi dell’italofonia e, poi, l’avvento della televisione e la percezione del valore innovativo che questa aveva, fecero intonare inni funebri per i dialetti. Nella prima metà degli anni sessanta, un osservatore appassionato e sensibile, come Pier Paolo Pasolini, dava ormai per avvenuta la morte dei dialetti.
        Non è stato così. Le cose, come qualcuno intravide e altri dissero, si sono svolte e si vanno svolgendo secondo ritmi e con modalità diverse da quelle immaginate sul modello di alternative secche, mors tua vita mea, o dialetto o lingua. 
        Quella che era una piccola pattuglia di punta negli anni cinquanta e sessanta, la pattuglia di coloro che parlavano (e scrivevano) un eccellente italiano, ma serbavano ancora vivo l’uso di uno dei dialetti, è andata crescendo, fino a diventare il gruppo di maggioranza relativa. Certo, è cresciuto anche il gruppo di coloro che praticano soltanto l’italiano in modo esclusivo, ma non altrettanto. È invece ridotto ormai ai minimi termini il gruppo di coloro che parlano soltanto dialetto: secondo la più recente indagine dell’Istat, poco più del dieci per cento della popolazione. In sostanza che cosa è successo?L’uso attivo dell’italiano si è andato espandendo non già cancellando quello dei dialetti, ma in larghissima misura accompagnandosi ad esso.

        Da un certo punto di vista possiamo dire che, nelle angustie e senza alcun intervento pianificato, la società ha spontaneamente rea gito alle forze che premevano su di essa costruendosi come soluzione quella che fu la proposta di Francesco De Sanctis, di Graziadio Isaia Ascoli, di Giacomo Devoto per l’Italia linguistica del loro tempo: la soluzione del doppio binario o, come diceva Giacomo Devoto, del «biglietto di andata e ritorno», dall’italiano ai dialetti, dai dialetti  all’italiano, a seconda dei casi, delle situazioni di utenza, degli estri.
        Oggi, se è vero che l’87 per cento delle persone sa parlare italiano, è anche t’ero che quasi il 70 per cento sa parlare uno dei dialetti. Metà della popolazione è bilingue. Per metà della popolazione e italiano e dialetti sono poli espressivi ben presenti nell’uso.
        Certo, chi vive nelle couches medioborghesi intellettuali di Milano e Roma può non rendersene conto e credere, in buona fede (ricorderò ancora una volta che don Lorenzo Milani soleva dire sarcasticamente: con l’aggravante della buona fede), che i dialetti siano ormai cosa del passato. Ma non è vero. I dialetti appartengono ancora al nostro presente. In larga parte d’Italia la scuola, soprattutto elementare e media inferiore, può e deve lavorare tenendo conto che l’italiano e le altre lingue di cultura vengono insegnate a bambine e bambini il cui ambiente nativo è intriso in modo prevalente, se non esclusivo, di dialettalità. Dare per già morti i dialetti non è soltanto una falsità sociolinguistica; in genera anche negli insegnanti la convinzione che l’italiano si possa insegnare come se già nativamente fosse la lingua abituale di ragazze e ragazzi. Invece, ripetiamolo, i dialetti sono realtà ancora ben presenti, specialmente in Piemonte e nel Nord-Est d’Italia, in grandi città come Venezia e Trieste, nei centri maggiori e minori di tutto il Sud.
        E tuttavia è ben vero che, in concomitanza col modificarsi delle basi d’uso, quel fenomeno dell’italianizzazione dei dialetti che già segnalai e cercai di documentare trent’anni fa, scrivendo la Storia linguistica dell’Italia unita, si è andato accentuando e procede qua e là in modo impetuoso. Anche nei centri minori, chi parla dialetto, quando lo parla, cammina stilla strada che da secoli è stata quella di Roma e, dall’inizio di questo secolo, è stata dei centri maggiori del paese, Milano, Napoli, anzitutto, poi le altre grandi città: la strada che non abbandona il dialetto, ma lo trasforma progressivamente con i ‘inserzione (li elementi lessicali, grammaticali, sintattici tratti dipeso dall’italiano e con l’adozione di ricostruzioni fonologiche italianizzanti. Così il vecchio torinese frel si è andato trasformando in fradel e fratel, il vecchio napoletano pere è stato affiancato e poi sostituito da pede e, ora, piede.
        Così le espressioni più accentuatamente locali, micco o ciumaca a Roma, carnazzeria a Palermo vanno cedendo il passo a varianti dialettalizzate di vocaboli della comune lingua nazionale, circolanti in tutt’Italia.
        I dialetti non sono minacciati da un subitaneo abbandono, ma dal più sottile processo di italianizzazione dall’interno. Tra una generazione, quanti ancora sapranno parlare i dialetti nelle forme che sono state e sono di nonni e genitori, e che spesso duravano intatte da secoli? 
        Anche di qui la raccomandazione rivolta a cultori locali perché vincano le esitazioni e facciano presto. Ovviamente, per certi aspetti, sarebbe desidera bile che l’accademia scientificamente più qualifica la desse mano a un vasto piano nazionale di rilevazione delle parlate dialettali ancora vigoreggianti. Ma troppe esperienze dicono che queste «grandi imprese» non hanno vita troppo felice nella nostra tradizione di studi linguistici. E a me è parso e pare più realistico e prudente raccomandare che chi può, perché è a stretto, affettuoso contatto con la realtà d’una parlata locale, dia mano a raccoglierne forme e valori di cultura in opere che sono e saranno base documentale preziosa per ulteriori indagini. 
        Raccolte del genere, intanto, sono uno strumento prezioso, in mano a insegnanti intelligenti e sensibili, per sospingere e guidare i loro allievi alla ricerca sul loro stesso ambiente linguistico col fine di apprezzarne le peculiarità rispetto ad altri ambienti e rispetto alla lingua nazionale, acquistando in serenità espressiva e in capacità di escursione tra livelli diversi di usi linguistici.
        Già qualche anno fa ho avuto il privilegio di accompagnare alle stampe un lavoro dedicato dal maestro Domenico Maria Cicchetti a un lembo della Baronia, a Vallata: Un’isola nel mare dei dialetti (Amministrazione Comunale di Vallata, Vallata 1988).
        La ricerca di Giuseppe Iacoviello è di più lunga lena e maggiore estensione e complessità. Egli ha indagato e presenta con sistematicità le basi e vicende demografiche dell’intera Baronia, ne ricostruisce i tratti culturali unitari, ne illustra usi e tradizioni, ne documenta amorosamente proverbi e modi di dire e, infine, ne registra il lessico. Migliaia e migliaia di vocaboli e centinaia di idioms sono registrati, ne è offerta una indicazione di pronunzia, una descrizione semantica, spesso una riambientazione storico-culturale e pragmatica.
        Fatiche dei genere non hanno prezzo e hanno compenso soltanto in re ipsa. Iacoviello aggiunge mm tassello prezioso al mosaico documentale dei dialetti campani e meridionali e una concreta precisazione alla storia culturale e civile dell’Irpinia. Questa constatazione vale più d’ogni lode ed esige la nostra comune gratitudine. Il suo lavoro gioverà certamente alla ricerca dialettologica, che vorrà non sdegnarlo, e gioverà, speriamo, agli insegnanti del luogo o che nelle loro classi comunque, magari a Torino o Milano, abbiano piccole e piccoli immigrati. Ma gioverà soprattutto a chi, nella Baronia, vuole e sa essere attento al valore inestimabile della propria identità storica, culturale e umana. 

Tullio De Mauro
Dipartimento di Scienze del linguaggio
Università di Roma “La Sapienza”


BREVI NOTIZIE

    La Baronia è una zona dell’Irpinia situata sulla dorsale appenninica campana, in provincia di Avellino, ai confini con le Puglie (lato nord-est) tra il fiume Ufita e la Fiumarella.
    Il suolo è costituito, per lo più da colline a mo’ di cupole (le cosiddette “toppole”) che, unite ai dossi, si susseguono dolcemente e scendono in modo sinuoso a valle rinfrancando l’occhio dell’osservatore. 
    L’altezza sul livello del mare va dai 450 m. nella valle dell’Ufita ai 1094 m. (1) sulla montagna di Trevico, la più alta del circondano, sulla quale sorge l’antichissima città omonima (da: Tri Vici). 
    La Baronia possiede una vegetazione molto suggestiva anche per la ricchezza delle sorgenti d’acqua che vi si trovano.

     I boschi, accompagnati da toppole brulle e terreni lavorati, rendono il paesaggio attrattivo e bello. 
    Il cielo è quasi sempre sereno e lo sguardo spazia senza confini, senza foschia e senza nuvole. Fanno eccezione Trevico e Vallata che a volte mettono il cappello di nebbia. 
    Ai piedi di Trevico, roccaforte dell’Irpinia, sono appollaiati, quasi a guardia del monte, i paesi come: S. Sossio, S. Nicola, Castello, Carife, Vallata, Vallesaccarda, e, in avamposto, Flumeri e Scampitella (ved. carta topografica a pag. 5). 

    Alcuni di essi sono situati alla base delle colline e quindi al riparo dai venti. 5. Sossio dal ponente, S. Nicola e Carife dalla tramontana e dagli altri venti del nord, Vallesaccarda da quelli del sud. Vallata è esposto a tutti i venti e al freddo più intenso perché trovasi per buona parte, su un cocuzzolo che sporge in un canalone. 
    Una volta era difficoltoso arrivare da queste parti. Le strade erano semplici mulattiere o tratturi fino alla formazione dell’Unità d’Italia, 1860/61. Nel ventennio successivo fu costruita la SS 91 che, partendo da Grottaminarda, attraversa la Baronia, costeggiando i fianchi delle colline, e si collega sia con le Puglie che con la Lucania. 
    La strada è stata asfaltata solo negli anni a cavallo tra il 1950/60. La mancanza di ferrovia rendeva più difficile lo scambio con gli altri paesi e pertanto anche l’informazione e la cultura erano molto limitate e arretrate.      Oggi la Baronia è lambita dall’autostrada Napoli - Bari (A 17) con uscite a Grottaminarda e Vallata. 
    Il crescente sviluppo della motorizzazione ha fatto sì che si creassero strade provinciali (vedi: fondo Valle Ufita), intercomunali e interpoderali, che permettono ai cittadini e proprietari di accorciare il percorso o di portarsi fin dentro il territorio col proprio mezzo.     La gente del luogo ha origini antiche. Il ceppo è quello sannitico che abitava anticamente l’Irpinia. Il nome Irpinia deriva, con molte probabilità, dal totem dei sanniti: “Il Lupo” (Hirpus) sacro a Marte. 
    Anche se col tempo si sono determinati i vari accenti tra le comunità, la Baronia la si può considerare una sola famiglia, rinforzata e avvalorata dai molteplici matrimoni che si sono avuti e si hanno nell’ambito del territorio.

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1) Verso i 600 m. e oltre, si notano ammassi di conchigliette, segno che una volta qui c’era il mare. 

 

Detti e Proverbi

La vita nella Baronia di un tempo

Cenni Storici sulle origini della Baronia

Le Arti e i Mestieri nella Baronia di un tempo

" Padron' e sott' " tipico gioco di carte per adulti generalmente giocato al bar

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