Vallata, Vita nella Baronia

Vita nella Baronia 

Tratto da "BARONIA - linguaggio usi e costumi" di Giuseppe Iacoviello

    La vita nella Baronia è stata da sempre prevalentemente agricola. Il suolo, per circa 3/4 collinoso o montagnoso, poco rendeva e rende alla Comunità. Lo spezzettamento della proprietà, poi, ne limitava un miglior sfruttamento anche se dava a tutti, o quasi, la possibilità di sopravvivere. 
    Il commercio, legato all’agricoltura, vedeva nel venditore ambulante il principale protagonista dello scambio tra le varie comunità vicine e lontane. 
    I pochi negozianti e gli artigiani si barcamenavano tra l’attività in paese ed il lavoro dei propri campi. Inoltre gli artigiani erano soliti andare a giornata presso le case dei clienti. 
    In Baronia la maggioranza era povera, di conseguenza la vita era dura ma la si viveva senza formalismi in maniera allegra e spensierata. Forse il mal comune rinfrancava lo spirito e la gente non cercava il superfluo, il lusso, sapendo di non poterlo ottenere. 
   

Lavorava e prestava la propria opera senza riserve. 
    Dato che la moneta circolava poco la prestazione era per lo più a rendere e il valore della stessa era considerato in funzione della giornata del bovaro che arava la terra (1). 
 
   L’ingegnosità e l’operosità irpina varcava i confini territoriali e nazionali ma l’analfabetismo dominante concentrava il potere e la cultura nelle mani di poche persone (2). Ad esse il popolo si rivolgeva, in ogni circostanza, per aiuto, consigli e disbrigo di pratiche. Tale necessità lo poneva in uno stato di inferiorità e lo faceva sentire sempre debitore e in obbligo verso questa categoria di persone.
   
A raccontare, dunque, il sacrificio dei nostri padri, e in parte vissuto anche dalla nostra generazione, sembra una favola agli occhi dei giovani d’oggi. Questi ultimi, vivendo una realtà diversa, grazie all’evoluzione rapida dei tempi, al benessere, all’abbondanza, al lusso, all’indipendenza, non riescono a comprendere appieno una condizione di vita tanto distante dall’attuale.

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 1) Una giornata del bovaro valeva: 10 giorni di prestazione d’opera di una donna, 5 di un uomo, 2 di un artigiano.
 2) Le persone particolarmente influenti erano: il Sindaco, il curato, il medico e/o il farmacista.




Ambiente e neonato.

    Una volta il bambino nasceva in casa e non in ospedale. Ad assistere la partoriente c’era la “mammana”. Il piccolo era il primo, l’intermedio o l’ultimo di una famiglia numerosa. 
    L’ambiente che lo accoglieva, tranne che nelle poche famiglie benestanti, era povero. Pressappoco lo scenario si presentava così: 
    Poche suppellettili in pochi mq.. Un monolocale che faceva da:
cucina, camera da letto, salotto, fosse esso pagliaio, masseria, casino o abitazione in paese. 
    Era privo di acquedotto, servizi igienici e tutti quei comforts che l’odierno progresso offre. 

Nel pagliaio entrando si notavano: 
lu liett cu li scarfuogli’ (1), dui’ scann’l’ (2), nu piesc’l’ (3), na cascia (4), nu trep ‘n’ e nu callar’ (5). Mpiett a lu pagliar’ na fascella cu r’ furcin’, li piatt e na fr’ssol’ appes’ (6). A nu lat’ la zappiell e nu furcidd, tu fav’cion’ e na fav’cia (7). Cchiù quera via: na pignat’, na ciot la, nu chinch’ e nu catin’ (8). Arret’ a la porta: na scopa r’ sc’nestra (9). 
    Di notte facevano compagnia ai familiari r’ gallin’ a l’ammason’, nu puorch doi’ pecur’ e nu cuucc’ (10).
    Nella Masseria, e meglio nel casino, il nascituro si ritrovava in un locale separato dalla stalla. Galline e conigli, però, giravano per la casa; anche il cane e i colombi vi facevano spesso capolino. 
    La costruzione in muratura, il focolare e la tinteggiatura delle pareti rendevano l’ambiente più consono alle esigenze umane.
    Gli oggetti, anche se gli stessi del pagliaio, assumevano un aspetto diverso; in ogni caso l’addobbo era più ricco. Il granaio, i sacchi pieni, setacci, pentole, cesti, ecc., davano un senso di maggiore agiatezza, mentre il lume, il quadro dell’antenato, le figurine dei Santi disposti a ventaglio, il fucile e le cartucce ordinatamente sistemati qua e là sui muri davano protezione e sicurezza. 
    Fuori l’albero di gelso, all’ombra del quale ci si ristorava e riposava durante l’estate, un cortile quasi mai recintato, una “meta di paglia " e una catasta di legna erano le caratteristiche delle abitazioni campagnole.
Le abitazioni in paese, generalmente a forma rettangolare, erano composte da pianterreno e primo piano, locale a cui si accedeva con scala esterna.
    Il piano terra era riservato agli animali. I più ricavavano tavolati per le fascine e grotte per il vino. Il primo piano era adibito a cucina, dormi- torio e conservazione dei cereali, mentre il soffitto era destinato a pagliera (11) e per questo pericoloso, in caso di incendio, non solo per la singola abitazione ma per l’intero vicinato visto che le case in paese erano, ed in parte lo sono ancora, una addossata all’altra. I cosiddetti poveri in canna abitavano un solo vano, riservando la grotta agli animali.
    Buona parte dei campagnoli cercavano di farsi la casa in paese per utilizzarla come punto di riferimento per feste, nascite, malattie e morte.
    Quelli che non avevano molte terre da coltivare abitavano stabilmente in paese ed ogni mattina partivano per la campagna con la zappa ad- dosso o l’asino carico di sterco per concimare il terreno.
    Il nascituro, dunque, anche in paese si vedeva circondato da animali da cortile o domestici, salami appesi c’o la casa mia (12) per la stagionatura del formaggio.
    Un comò, un comodino (per nascondere il renalino) ed una specchiera erano i mobili di rilievo; completavano lo scenario: la cassapanca vicino al focolare, lo scanno, un tavolinetto, il gravattaie (13) e la batteria di pentole in rame appesa al muro.
In un mondo così piccolo e ristretto il bimbo faceva la sua prima apparizione e riceveva le cure amorevoli della mamma e dei parenti tutti. Se la mamma non aveva latte bisognava cercarne una che ne avesse e vi erano di quelle che si prestavano. Di qui il nome di “Mamma di latte”.
    Il latte il bimbo lo riceveva per circa due anni. Veniva fasciato come una mummietta fin sotto le braccine e questo tipo di fasciatura durava per molti mesi. Si diceva per far irrobustire le gambe e farle venire diritte. La pupizza (14), l’odierno biberon, serviva ad acquietarlo quando piangeva.
    Il maschietto indossava vesti femminili fino ad una certa età (c’è chi asserisce anche fino a 7 anni). C’era invece chi aveva i calzoncini con l’apertura tra le gambe per non sporcarsi nei bisogni fisiologici.
Il neonato, appena in condizione di viaggiare, veniva messo nella culla di legno e portato in campagna.
    Veniva lasciato a vista mentre gli adulti lavoravano. L’esposizione alle intemperie gli facevano assaporare, già sul nascere, la vita dura del tempo e della sua condizione sociale. Sul selciato di casa o sul campo muoveva i primi passi spesso con l’ausilio del girello o la mano dei nonni sempre meno abili al lavoro proficuo.
    La vita del nascituro della gente comune, era veramente lontana da quella del suo simile nato negli agi di una famiglia ricca; le dimensioni per attenzioni, pulizia, alimento, vestiario, non permettevano nessun paragone. Da ragazzi ne vietavano addirittura il contatto.
    Quando era in grado di rendersi autonomo già contribuiva con picco li servigi. Col passare del tempo lo si vedeva appresso alle pecore, prima in compagnia poi da solo. Ognuno, in famiglia, dal più piccolo al più grande, era tenuto a guadagnarsi la pagnotta.
    Riferendoci in particolare all’inizio del secolo, poiché l’analfabetismo raggiungeva il 90%, era opinione comune che la scuola non producesse reddito per cui essa rimaneva ancora una prerogativa per i ricchi. Pertanto all’età scolare non tutti i ragazzini venivano indirizzati all’apprendimento di base. Di essi pochissimi raggiungevano la 5a elementare. A parte le rare eccezioni, alle femminucce era preclusa l’istruzione.
    Una tale concezione, dettata più che dall’ignoranza da una miseria dilagante, costringeva i figli ad una vita isolata. Non dando loro modo né di imparare a leggere, scrivere e far di conto, né di socializzare con gli altri, si finiva per farli crescere, anche nel carattere, più schivi, scontrosi e un po’ introversi.
    Ma se da un lato mancava forse il colloquio, la comprensione, l’aiuto di cui i ragazzi avvertono la necessità, dall’altro si riceveva una sana educazione nella disciplina, nel rispetto per gli altri, nella disponibilità e ospitalità.

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1) Saccone riempito di foglie di granoturco su tavole sorrette da scanni alti. Di lana c’era solo il cuscino. Modeste lenzuola e coperte. 
2) Scanni per sedersi. 
3) Tronchetti d’albero. 
4) cassa per conservare gli alimenti.
5) Treppiede e caldaia.
6) Sulla parete del pagliaio il contenitore di posate, i piatti e la padella appesi.
7) In un angolo la zappella e il bidente, un falcione e la falce.
8) Più in là: una pignatta, una ciotola, un tegame di creta a fondo largo per cuocere la p’asta di granone e un catino. 
9) Dietro la porta: una scopa di ginestre. 
10) Le galline nel pollaio (a la meson), un maiale, due pecore e un asino.

* Cumulo di paglia
11) Ved. pag. 288
12) “ “ 239
13) “ “ 261
14) “ “ 298


I giochi


 
   Il gioco era il passatempo più sano ed economico in cui bambini e ragazzi potevano scaricare le loro energie e apprendere i meccanismi che lo regolavano. Attraverso il gioco potevano sviluppare la loro abilità e la loro intelligenza. Pure se i ragazzi erano impegnati nel lavoro trovavano il modo di unirsi agli altri e di divertirsi.
Secondo l’età, i giochi più frequenti consistevano in:


- Piccoli:
    - la mamma. (Oggetti: pietra affusolata a mo' di bimbo e ritagli di stoffa).
    - la cuoca. (Oggetti: pietre piatte e bastoncini di legno)
    - lu papà. (Oggetti: bastoncini di legno).
- Fanciulli:
    - r’ bocc’. (Oggetti: pietre piatte e pallino).
    - lu chi’rchi’. (Oggetti: cerchio e spingicerchio)
    - Mazz e piv’z’ (1)
    - tozza muro. (Oggetti: bottoni).
    - birilix, birilox e tox (2). (Oggetti: bottoni).
    - la chiuva (3)
    - lu tuot’ (4)
    - la uerra. (Oggetti: frecce e archi).
- Ragazzi
    - r’ cart’.
    - zompa pecur’ (5).
    - zompa cavall’ (6).
    - lu scarpon’ (7).
    - l’uoss’ (8).
- Ragazzine
    - r’ brecc’ (9).
    - lu zecch’ (10).

Tra i ragazzi non mancava l’inventiva a crearsi i giochi. Si costruivano la palla di pezza, la motoretta finta (con mazze a croce), e la carrozza.

 

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I) Ved. pag. 270
2) “ “ 232
3) “ “ 243
4) “ “ 334
5) Un ragazzo si posizionava curvato sulla schiena (e mani sulle ginocchia), si lasciava saltare dai compagni che andavano a posizionarsi, a loro volta, ad una certa distanza l’uno dall’altro fino a formare un circuito chiuso.
6) Un ragazzo, scelto a sorte, si metteva contro il muro mentre un altro si curvava poggiando la testa all’altezza della cintura del compagno. A seconda del numero dei partecipanti al gioco, si poteva legare un altro e un altro ancora. Il 1° faceva da scudo e gli altri da cavalli. Il resto del gruppo con un salto si andava a sistemare sulle groppe dei cavalli. Chi sbagliava a saltare o scivolava dalla groppa era costretto a fare il cavallo.
7) Ved. pag. 312.
8)Il gruppo si disponeva a cerchio. Si stabiliva chi doveva avere la “paroccola” (un fazzoletto col nodo in uno spigolo) e chi cominciare il gioco. Il primo prendeva l’osso (tratto dalla giuntura della zampa dell’agnello) e lo lanciava per terra. Se l’osso si fermava con la gobba in aria il giocatore si prendeva il massimo delle “paroccolate” stabilite nel palmo della mano. Se cadeva in piedi, con la parte piana verso l’alto, il giocatore entrava in possesso della paroccola. Per altra posizione la si passava liscia. Così a turno tutti si sottoponevano al responso dell’osso.

9) Ved. pag. 233
9) Ved. pag. 344
10) Era costituita da una tavola di legno con due assi: uno fisso dietro e uno girevole avanti i quali (assi) portavano alle estremità le ruote o cuscinetti. La “carrozza” veniva guidata da una corda a mo’ di cavezza. I più sofisticati installavano il sedile. Come freno usavano le scarpe

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