Vallata - un isola nel mare dei dialetti meridionali - La "O" italica e la "A" latina

LA "O" ITALICA E LA "A" LATINA

       La "ò" italica, come risulta anche dagli esempi che precedono, si sovrappose e sostituì, da noi, la "a" degli etimi. E la sostituzione non fu soltanto astratta mutazione vocalica e fonetica della lettera "a" con la lettera "ò" e viceversa, ma il segno morfologico concreto attraverso il quale si poté distinguere il maschile dal femminile, il singolare dal plurale, ecc.

Eccone gli esempi:

  1. - la "a" dell'etimo si trasforma in "ò" per indicare i sostantivi maschili singolari difettivi di femminile o che al femminile assumono altra forma e significato:

            lu sòcc(o)  (lat. saccus):  il sacco
            ru hròn(o)  (lat. granum): il grano
            lu pònn(o) (lat. pannus):  il panno
            ru còs(o)   (lat. caseus):   il cacio
     

  2. - la "a" dell'etimo si trasforma in "ò" quando è preceduta dalla "u" sia in sillaba semplice che in articolo ed, eccezionalmente, quando è preceduta dalla "o":(1)

            cundò'      (lat. computa-re): contare
            accuppò'  (lat. a + cuppa): accoppare
            scapulò'    (lat. excapula-re): smettere, finire
            affu c ò'    (lat. v. affoca-re): affogare
     

        A riprova di quanto innanzi affermato basta osservare che la "a" latina resta tale se è preceduta dalle vocali "i", "e", da se stessa:

                    li sàcch(i)     (i sacchi)
                    ri càs(o)       (di cacio)
                    li pànn(i)      (i panni)
                     e pàn(e)       (e pane)
                    ra làtt(e)      (da latte)
                    a sàl(e)         (a sale)

        Perciò si può dire che la "0" della nostra parlata è un fatto linguistico unico, una eccezionale, antichissima regola morfologica, una isoglossa che disegna "UN'ISOLA NEL MARE DEI DIALETTI MERIDIONALI".

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        "I" – La lettera "i" (lat. illi), conservata generalmente in tutte le lingue romanze, è la continuazione della "i" lunga latina. (2). Nella nostra parlata è puro segno grafico e come tale indica il suono occlusivo delle consonanti che la precedono:

                r(i) (di), l(i) (i, gli), p(i)' (per), si (si), l(i)scià' (lisciare), firnì' (finire)

        Come segno grafico indica anche il suono palatale dolce di c(i) e g(i), dei " digrammi gl(i) e sc(i) e quello gutturale duro di k(i) e ch(i) davanti ad "a", "e", "o","u":

                ciràsa      (lat. v. cerasia): ciliegia
                 girà'        (lat. t. gyrare): girare
                 pàglia      (lat. galea): paglia
                 scittà'      (lat. v. iectare): gettare
                 chiùvo     (lat. v. claus): chiodo

         La "i" tonica e quella che forma "iato" si pronunziano ed indicano la vocale anteriore più chiusa, più stretta della "é" dell'italiano con l'accento acuto. Assume, cioè, un suono intermedio fra "e" ed "i"; ma più "e" che "i" quando l'etimo è "i"; più "i" che "e" quando l'etimo è "e". Si scrive, quindi, 'T' tonico e si pronunzia "éi" o "ié". (3)

        Esempi:
                (ié) ìj(o)          (lat. ego, eo): io
                (éi) ìdd(o)       (lat. is-ea-id): egli, ella, esso
                (ié) pìtt(o)       (lat. pectus): petto
                (éi) figli(o)      (lat. filius): figlio
                (ié) paisà         (voc. dialett.): paesano

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        ANCORA DELLA "I"

        Abbiamo notato che altri hanno scritto e scrivono, per esempio, P' o PE anziché PI' (per) e R' o RE anziché RI (di). Per quanto già si è detto sulla lettera "i", riteniamo si debba scrivere «pi'» al posto di "per " e "ri" al posto della preposizione "di". La "i", che ha suono quasi nullo ed evanescente, forma comunque le sillabe "pi" e "ri"; dà suono occlusivo e tono alle consonanti che la precedono (P e R); spiega meglio il troncamento della "r" di "per"; evidenzia la sostituzione della "e" senza accento dell'etimo con la "i" delle forme scritte ed orali romanze; rende identificabili le preposizioni «pi'» = per e "ri" = di.
        Perciò, le lettere di una emblematica proposizione come "li sìrici" (i sedici) vanno pronunziate nel modo seguente: le consonanti "l" e "r" con timbro forte ed occlusivo; le "i" atone (soli segni grafici) con suono appena percettibile; la sillaba "" come in italiano con l'accorgimento fonico che la "ì" tonica, in questo caso, è più "i" che "e"; la sillaba finale "ci" come in italiano con il suono della "i" evanescente poiché la "i" sta ad indicare, qui, solo il suono palatale della "c(i)". E cioè: l(i) sìr(i)c(i). (4)

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        A PROPOSITO

VINI (vieni) E VINI (vini)

        Un uomo tornò a casa ubriaco. La moglie lo rimproverò e poi lo minacciò col matterello. L'ubriaco, ruttando e barcollando, tentò di giustificarsi così:
        Carmè' 'nu mumèndo, 'ndìnn'a mè. Ijo mi ni vulèvo vini' ma quìru fèssa ddà, 'mpìtt' a la pòrta, mi ricèva: – Vini, vini. (Si riferiva alle tabelle delle cantine).
        Uagnà' tu ke avìssi fàtto? Sò' trasùto, m'ànno fàtto vève e mi ni sònc' assùto. Chiù 'nnànde, 'n'òto màtto: –Vìni, vìni, vìni (tre bbòlite). Ke avìssi fàtto? Mi sò' firmàto, mi sò' uardàto attùrno, sò' trasùto, àggio vìppito e mi ni sònco fisciùto. Sìnd' a mè, muglièra mìja! Chiù 'nnànde ' n'òt'ùna re quère: – Vìni, vìni, Ani... e ìjo, pi' nun fà' tùrt' a nisciùno, sò' trasùto, àggio vìppito e, père 'nnànde père, àggi' addrizzàta la vìja ri càsa. Ma chiù 'nnànde ancòra... E avrebbe così continuatosela moglie, per zittirlo e coricarlo, non gli avesse dato una mazzata in testa.

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        "J" – La lettera "j" (i lungo) si conserva e si pronunzia come in "Juve", "jodio", "jella", ecc. Sostituisce la "i" consonatica e come questa è tale:

    a) quando si trova all'inizio di una parola seguita da una vocale:

            jàcch(i)l(o)  (lat. iaculus): iaculo, fune con cappio
            jùst(o)          (lat. iustus): giusto
            jàt(o)           (lat. hiatus-us): fiato

    b) quando si trova nel corpo della parola preceduta o seguita da una vocale:

            t(i)jàn(o)   (gr. teganion): tegame
            f(i)jòr(e)   (lat. flos-floris): fiore
            t(i)jèlla      (lat. tegula): teglia

        Quando, invece, la "j" sostituisce la "i" finale si ha il dittongo "je", un fenomeno linguistico esteso in tutta l'area dialettale meridionale. (5)


        Esempi:

            su(i) = sùje (suoi), tu(i) = tùj(e) (tuoi), magi(s) = màj(e) (mai)

        La lettera "j", infine, quando sostituisce o segue la "i" dei digrammi "ch" e "gh" dà suono lungo, sibilato e quasi fischiato a tutto il digramma come in:

            chijs(i)ja (chiesa), chjèna (piena), chijn(o) (pieno), ghijss(o) (gesso)

        "E" – La lettera "e" (lat. et) è vocale palatale. Va sempre scritta e si pronunzia:

        – quando è accentata o l'accento cade sul suo segno;
        – quando è congiunzione;
        – quando forma iato.

        In sede tonica ha, come in italiano, suono chiuso ed acuto (é) e suono aperto e grave (è). La "e" finale, senza accento, ha suono evanescente e, come in francese, non si pronunzia.

        Esempi:
            la mèssa (lat. missa): la messa
            la séra (lat. sera): la sera
            l' èriva (lat. herba): l'erba
            la pèste (lat. pestis): la peste
            lu paèse (lat. t. pagense): il paese
            pàne e fàve (pane e fave)

        La lettera "e", come la "i", indica il suono palatale dolce di c(e) e g(e), di gl(ie) e sc(e), ed il suono gutturale, duro di k(e) e ch(e):

            cèmice (lat. cimex-icis): cimice
            chiànge (lat. piangere): piange
            figlio (lat. filias): figlie
            òsce (lat. hodie): oggi
            ke - che - chè - picchè = che e perché

La "e" protonica dell'etimo, come vedremo in seguito, passa ad "i".

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        "U" – La lettera "u" (lat. u) è la continuazione della "ú" lunga latina. La "ú" breve diede origine alla "o" tonica italiana (onda = lat. únda) ed alla "o" postonica (fumo = lat. fumús), mentre la "W' lunga diede origine alla "u" della nostra parlata e di quella dei vicini Campani, Molisani, Lucani, ecc.
         Questa "u" si articola con suono stretto anteriore acuto fino a confondersi, in sede tonica, con la "ó" lunga del latino classico.

        Esempi:
             lu cucùl(o)     (lat. cuculus): il cuculo
             lu sùl(o)         (lat. solum): il suolo
            l' ùcchi(o)       (lat. oculus): l'occhio
             lu sùn(o)        (lat. Bonus): il suono
             chiù (1)          (lat. plus): più

        La "u" finale atona si contrae e cade di tono. Quando precede, senza accento, una vocale dura (a, e, u) forma con essa dittongo: uagnàrda (ragazza), uèrra (guerra), ecc. (6 - 1))

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(1) Le vocali "a" ed "u" del dittongo originario latino "au" e la sua variante volgare "ò", come si nota, si richiamano, tornano e si armonizzano.
(2) La "i" breve latina si è, invece, neutralizzata in "e": lat. siccus = dial. secco = it. secco.
(3) Come dagli esempi, la "e" o la "i" dell'etimo corrispondono quasi sempre alla "e" ed alla "i" dell'italiano per cui è facile accorgersi se la "i" tonica devesi pronunziare più "e" che "i" e viceversa.
(4) Gli stessi criteri di scrittura e di lettura valgono per le vocali atone "c" ed "o" e per le consonanti che le precedono.
(5) Il fenomeno è detto della "dittongazione condizionata". I dittonghi della lettera "j", all'inizio o nel corpo della parola, sostituiscono, quasi sempre, le lettere "d", "b", "g", "s" e lo "iu" dell'etimo.
(6) Già durante l'Impero le vocali latine lunghe si articolarono come chiuse e le brevi come aperte: fúgit = fuscìve (fuggì), fúgit =fùsce (fugge). Pertanto, nelle forme dialettali meridionali, la distinzione classica tra la "u" lunga e la —C breve come quella tra la "Y lunga e la -Y breve cadde, si esaurì e la loro unificazione tonica contribuì a rendere possibile le varianti e gli esiti metafonici volgari di "o" per 'V' e, reciprocamente, di -u- per "o", nonché del nostro 'V' che, in sede tonica, ha suono tra "o- ed 'V'.
1) La "u" finale degli etimi (accusativo lat. meno la "m" finale) è conservata in quasi tutte le parlate meridionali. Da noi, come vedremo, la 'V' si è neutralizzata in "o" tranne poche eccezioni come 'stu, quìstu, bèllu, cu', ecc. Sulla "u" usiamo, in ogni caso, l'accento grafico ed ortografico (ù) tutte le volte che va pronunziato con maggiore intensità.


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