Comunità di Vallata tra Chiesa Madre, Cappellanie e Regia Dogana - Sergio Pelosi — Considerazioni e precisazioni sulle locazioni.

Capitolo V
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5.1 Considerazioni e precisazioni sulle locazioni.

        Quando all’epoca del sistema feudale, si era in grado di essere un contribuente della Regia Dogana e quindi del Re di Napoli, si godeva dei vantaggi riservati ai locati, ma per diventarlo occorreva dimostrare di aver acquistato con rogito notarile le pecore o di detenere a qualche titolo animali che scendevano sui pascoli del Tavoliere, perché potessero usufruire degli erbaggi di una delle 23 locazioni. Non erano pochi i casi in cui le pecore non scendevano in pianura e rimanevano sulle proprietà delle Università locali e, in questo caso, gli animali venivano elencati dai rappresentanti locali, sindaco e consiglieri eletti, che oltre a segnalare ai fini fiscali i legittimi proprietari, segnavano gli animali sul libro delle numerazioni, che era chiamato catastuolo o “Inter Cives”. Questo registro si formava presso i singoli Comuni, per intervento della Regia Camera della Sommaria di Napoli, alla presenza di un subalterno dell’udienza provinciale. I Comuni del Principato d’Ultra godevano anche di un altro antico privilegio, quello della Doganella di Ariano, anche se in realtà si trovava nel territorio di Flumeri dove, ancor oggi, c’è la località detta “Doganella”, con i ruderi di quello che fu il vecchio edificio destinato a quello scopo. I Comuni che contribuivano a rendere viva quell’Istituzione furono: Vallata, Andretta, Bisaccia, Calitri, Zungoli, Frigento, Guardia dei Lombardi, Sant’Angelo dei Lombardi, Trevico e Rocchetta. Quell’istituzione fu concessa agli abitanti di quelle zone, con una propria regolamentazione anche se basata sul modello di quella di Foggia e di questo privilegio, riferì nel CAPUT V, anche il testo di Stefano18 del 1731, dove c’è scritto che si pagavano 13 ducati ed 1 carlino per ogni 100 pecore; se poi i locati utilizzavano anche i pascoli del Tavoliere, scendendo con le greggi al piano, quelli andavano pagati a parte, così riferì Cirillo19. Sempre dallo stesso autore veniva riferito che fino alla metà del 1700, circa 200 locati del Principato D’ultra erano stanziali e non scendevano in Puglia, dove era più facile che le pecore resistessero alle malattie dell’epoca che erano la Zoppina, la Rogna. Con le prime due, le pecore rimanevano zoppe e perdevano la lana, con l’altra terribile malattia, la Schiavina, le pecore abortivano, prendevano le mastiti perché la malattia si sviluppava come un vaiolo che si prendeva per via dei pascoli paludosi o al contrario su quelli secchi e paludosi. Per essere considerati Locati della Regia Dogana di Foggia, bisognava dichiarare un minimo di 20 pecore reali e questo già bastava per poter essere assoggettato a quello speciale Tribunale ed uscir fuori dalla giurisdizione baronale. Molte persone, al tempo della professazione volontaria, presero la decisione di dichiarare almeno quelle 20 pecore, anche se fittiziamente, fino a quando non si pagò per il numero di pecore effettivamente possedute. Gli allevatori, erano considerati piccoli se possedevano fino a 200 pecore, medi da 200 a 2000 pecore e grandi oltre 2000 pecore. Questi proprietari si chiamavano Locati fino al 1806 e censuari dal 1806 al 1865. Una parte del Regio Demanio era anche destinato alla semina, ma anch’essa era assoggettata a determinati vincoli a favore della pastorizia, con un conflitto mai sopito tra agricoltori e pastori. Se da una parte doveva essere garantito il passaggio delle greggi in pianura tramite i tratturi, dall’altra parte c’era l’esigenza dei proprietari terrieri e delle comunità locali di sfruttare terre sempre più fertili, reintegrate proprio dalle deiezioni degli ovini.  I Locati godevano, pertanto, di un foro privilegiato, impersonato dal Doganiere, da un uditore e da un avvocato fiscale. Tra il 1806 ed il 1865 la modifica del regime doganale consistette nel fatto che prima le terre fiscali venivano date in affitto annualmente o con contratto sessennale, mentre in seguito vennero cedute con contratti enfiteutici. Le Locazioni dell’epoca erano 23: Andria, Arignano, Camarda, Candelaro, Canosa, Casalnuovo, Castiglione, Cornito, Feudo d’Ascoli, Guardiola, Lesina, Ordona, Orta, Pontalbanito, Procina (=Apricena), Salpi, Salsola, San Giuliano, Sant’Andrea, Tressanti, Trinità e Vallecannella; quest’ultima era quella utilizzata dai due terzi dei locati di Vallata, seguita da quella di Feudo D’Ascoli e dalla Camarda che si trovava verso Melfi, per poi finire con quella del Salsola, di Cornito e di Guardiola. Ognuna delle locazioni sugli erbaggi invernali ed estivi poteva accogliere un certo numero di pecore ma, c’era sempre una parte del territorio destinato alla semina, conosciuta come “terra di portata”. I Locati a Foggia, dovevano sborsare al Real Patrimonio 132 ducati ogni 1000 pecore e, fino al XVI secolo, l’esazione della fida, dipese dalla conta degli animali fatta da squadre di numeratori di pecore che lo facevano sopra i riposi generali, ma dopo la metà di quel secolo quel sistema fu abolito e fu permesso ai locati di avere dei pascoli  di maggior superficie rispetto a quegli che gli spettavano per il numero di capi posseduto, quindi fu loro permesso di poter aumentare idealmente il numero di pecore possedute, accollandosi l’onere del maggiore esborso(=professazione volontaria). Quello speciale foro di Foggia che all’inizio si chiamava “Audentia Menae Paecudum”, rappresentò un forte elemento di disturbo nel mondo giuridico di allora, già ricco di giurisdizioni ordinarie e speciali in una società in cui molto diffuso era il privilegio. La locazione di Vallecannella andava dalla parte sud-ovest del Comune di Cerignola, scendeva verso l’Ofanto che divideva la provincia di Capitanata da quella di Basilicata e di Bari e fu sempre considerata una delle migliori del Tavoliere sia per la qualità degli erbaggi prodotti che per l’estensione delle terre che erano di 340 carri (= a 250 moggi napoletani); inoltre, tale locazione aveva dei Comuni popolati ed industriosi a poca distanza tra loro come ad esempio Cerignola, Candela, Ascoli, Canosa e Lavello. Le Poste di quella locazione cominciavano alla distanza di poco più di un miglio da Cerignola che restava al Nord di esse, e confinanti con il Regio Tratturo andavano fino al ponte di Canosa ad Est, le altre si trovavano verso sud fino all’Ofanto, altre ad ovest fino alle terre della locazione di Salsola e di Torre Alemanna. Le poste di Salvetere e di Monterocilo erano separate da tutto il resto della locazione, uniche ad essere riparate dai venti boreali, e man mano che si scendeva dalle alture verso l’Ofanto, i pascoli erano più abbondanti, il clima più temperato e la vegetazione più adatta al pascolamento delle pecore. In alcune poste della locazione la terra era piena di conglomerati calcarei, terre di cruste e, dislocate principalmente verso le zone di collina. A Vallecannella, sui demani di Ascoli c’era la Posta di Monterocilo (Dg IV b. 41 f.874 “I locati di Monterocilo nel 1601 furono citati da Don Giuseppe Caposela di Candela”) che godeva dell’uscita sopra i demani conosciuti come “Piano dei morti” di Candela e le cui colture assegnate appartenevano alla Mensa Vescovile di Ascoli.
        I vantaggi che godevano le terre di questa locazione erano la loro posizione e la vicinanza ai più industriosi comuni delle Puglie che, quindi, le rendeva infinitamente ricercate. Il sistema delle antiche professazioni (=sistema  col quale era possibile chiedere un territorio a pascolo per un numero di animali maggiore di quello reale, pagando la relativa fida) e la gara degli incanti, ne faceva spesso alterare il valore.  Fu su questo tipo di dati che all’epoca della censuazione si fissò il canone di queste terre. Gli antichi locati di Vallecannella godevano pure del diritto di pascolare sopra 130 carri ed 8 versure di terra di portata, diritto che veniva esercitato su 65 carri e 4 versure di terre nocchiariche( =terre coltivabili che stavano a riposo da due anni su cui pascolavano le pecore) e su un’eguale quantità di ristoppia (=terre coltivabili che stavano a riposo un anno, sempre per il pascolo delle greggi). Su questi terreni storicamente c’erano i Pignatelli, i Loffredo ed i Caracciolo, tutti iscritti nell’albo d’oro della nobiltà napoletana. Dopo il 1806 ci fu una enorme riduzione delle terre assegnate alle singole poste, e da quanto sopra scritto, il saldo fu rappresentato da 41 carri, 14 versure ed una catena di terra, diviso tra le varie poste. L’affrancamento delle terre portò, quindi, ad una perdita notevole degli antichi diritti dei censuari di Vallecannella, che cominciarono così a godere del diritto di pascolamento promiscuo  sul Demanio di Minervino Murgie. Però le distanze erano eccessive e molti locati della città di Vallata come Pelosi, di Netta, della Quaglia, Travisano, Garruto, nonostante avessero avuto quel privilegio, vi rinunciarono sia per l’inospitalità dei luoghi che per non entrare in conflitto con i pastori abruzzesi che avevano da tempo scelto i pascoli quella Locazione per mezzo dei loro agenti. Lo scenario dell’epoca sui pastori abruzzesi era assai singolare, poiché questi portavano le loro greggi in Puglia, formando delle numerosissime collettive che attraversavano i tratturi, i massari ed i pastori erano molto competenti ed era difficile trovare  proprietari assenteisti come accadeva spesso in alcune province del Regno di Napoli. Le marce lungo i tratturi avveniva senza interruzioni e le fermate erano ben disciplinate per evitare l’accavallarsi delle greggi e così, anche l’uso dell’erba era tale per cui bisognava lasciarla anche agli altri pastori che seguivano e non era raro il caso di greggi sequestrate per pascolo abusivo, lontani dai luoghi consentiti. Così, ad esempio,  ho trovato che quei vallatesi sopra nominati, dovettero pagare a vuoto le cartelle fondiarie che lievitarono anche di prezzo perché esisteva una notevole conflittualità tra la popolazione di Minervino, feudo dei Del Tufo che furono anche gli utili possessori di Vallata, la popolazione locale che su quegli stessi terreni rivendicava antichi usi civici ed il Regio Fisco. Tutti loro, nonostante invitati a riscattare quei terreni, non lo fecero ed emblematica fu la storia riportata nella b. 78 f. 2236 del Fondo del Tavoliere, in cui il notaio Don Michele Pelosi, fin quando fu in vita e successivamente Don Bartolomeo suo fratello minore, nel 1819, ricevendo le cartelle fondiarie provenienti dal Comune di Minervino Murge per trasformare la censuazione di pascolo in contratti enfiteutici, vi rinunciarono. A quell’atto furono allegate le copie delle lettere che arrivarono a Vallata con le quali, non solo non furono trasformati quei contratti, ma nel 1840, il Comune di Minervino pretese anche il pagamento di antichi diritti d’esazione e, l’unico vallatese che accettò di trasformarli in contratti enfiteutici, con riscatto trentennale, fu Don Gerardo d’Errico, i cui eredi, ancor oggi, posseggono quelle proprietà tra Cerignola e Minervino.
        Per quanto riguardava le poste, erano ad appannaggio degli antichi feudatari, e non furono rari i casi di conflittualità tra di loro per quelle migliori, così, per quanto riguardava la Posta di Monterocilo, in locazione Vallecannella, la gestiva inizialmente il Duca di Pescolanciano d’Alessandro e, successivamente, il Marchese di Trevico; mentre la Posta di Salvetere, i feudatari di Ascoli, Duca Marulli, conosciuti come Duca della Torre ma, con il passar del tempo, varie famiglie borghesi riuscirono con il favore di quei nobili ad intromettersi nella censuazione della posta ed a divenire capoposta, esigendo, così, l’affitto da coloro che detenevano i pascoli ed i terreni di portata che appartenevano a quella Posta. Così successe che la Posta di Monterocilo, nel 1738 fu affidata e concessa qual grazioso privilegio al Dottor Don Alessio Patetta di Vallata sia per i servizi medici svolti nei confronti del Feudatario locale, sia perché si era prestato nei confronti del Regio Fisco a “portare i relativi conteggi”(Dg. I b. 86 f.1318), tanto più che il Duca di Pescolanciano cominciò a ridurre la presenza delle greggi in locazione Vallecannella, senza arrivare al “Ponte di Canosa”, dove cominciava la locazione di Vallecannella, preferendo girare per l’alta Valle Aventina e del Medio Sangro, i cui tratturi portavano direttamente nella piana dell’Ofanto (Dg. I vol. 18), preferibilmente nella Posta di Locone che dava il nome all’omonima Masseria, oggi di proprietà della famiglia Ferrara di Foggia, ma originaria di Rivisondoli, concessa loro dal Duca di Pescolanciano. Allo stesso modo, fu concessa la Posta di Salvetere nel 1809 in parti uguali alle famiglie Pavese e di Netta di Vallata oltre che a quella del Barone Zezza di Foggia, come riportato nella b. 101 del Fondo del Tavoliere.
        Nella b. 90 f. 2144 del Fondo del Tavoliere,  nel 1806, Don Giuseppe Pavese di Vallata, figlio di Don Nunziante, essendosi costituito preventivamente davanti al notaio  don Pietro Rosa di Vallata in data 25 Giugno di quello stesso anno, definendosi locato della locazione di Vallecannella ma anche locatario della Posta di Salvetere, chiese per l’articolo 30 della legge del 21 Maggio 1806, che gli fosse concesso di diventare enfiteuta degli stessi terreni, in proporzione dei suoi animali pecorini, caprini e d’altro genere e chiese che per quella operazione fosse preferito ad altri, grazie al fatto che era un censuario della statonica, secondo quelle che erano le condizioni di legge prevista. In particolare, specificò di avere 2 carri di terra a Monterocilio in locazione Vallecannella e 6 versure nella Posta di Salvetere ed i due scrivani del Real Patrimonio, Francescopaolo Ferrucci e Francesco Schiraldi, dopo aver sottoposto il caso al Servizio Ripartimenti, gli comunicarono che avrebbe dovuto pagare a versura ducati 113.61 e 2/3  e che tale calcolo veniva fuori dalla valutazione della Posta, deducendo la Servitù Fiscale ed aggiungendo il 10%, come per legge. Don Giuseppe Pavese, dopo aver pagato un congruo anticipo, accettò e fece il contratto, iscrivendosi sul Borderò di credito ipotecario per un debito di 3181,10 ducati. Molto interessante fu il contratto redatto da Don Giuseppe, in forma solenne, avvenuto l’11 Dicembre 1806, alla presenza sia del notaio don Vincenzo Iorio di Napoli, che del suo procuratore Don Giovambattista Curradi, figlio del quondam Francesco Saverio della città di Foggia. A quel contratto intervenne l’Ecc.mo Signor Consigliere di Stato, Don Antonio Nolli della Suprema Giunta di Sua Maestà, che intervenne per via dell’esecuzione della nuova legge, per conto del Sovrano, Giuseppe Napoleone Primo, Re delle Due Sicilie e per conto dei suoi serenissimi eredi e successori alla Corona del Regno.
        Sulla stessa falsariga di questo atto, nella b. 101 del 1809 Don Giovanni di Netta e Don Giuseppe Pavese, chiesero ed ottennero altre terre in enfiteusi nella Posta di Salvetere essendo stati già censuari della statonica.
        Nella b. 288  f. 248 del Tavoliere nel 1817 Michele e Vito Pavese di Vallata chiesero al Direttore dei Ripartimenti, come antichi locati nella Posta di Salvetere, altri terreni perché gli animali erano troppi ed i 3 carri di terra per le loro industrie erano insufficienti ma, la loro domanda, fu rigettata perché : “non s’è fatto cenno né al numero degli animali né ad una loro numerazione esatta e divisa in specie”. I  due personaggi di Vallata, non tornarono a casa, ma, il giorno dopo produssero una nuova istanza, specificando il loro patrimonio e la divisione per specie e, così fu accettata.
        Nella b. 288 f. 249 del fondo del Tavoliere, don Nicola di Netta, figlio del quondam don Michele di Vallata nel Principato d’Ultra, nel 1817, per conto suo e per quello di Vincenzo e Francesco, suoi fratelli germani oltre che per conto dello zio paterno Giovanni di Netta, fece istanza a Sua Eccellenza il Signor Duca della Torre, Amministratore dei Reali Demani del Tavoliere perché, come antichi locati del Tavoliere, avendo goduto del pascolo “ora in una locazione, ora in un’altra”, quando cioè era il tempo in cui si faceva l’affitto a sestennio, una volta a Monterocilio, un’altra volta a Salvetere, poi ancora, metà nella prima Posta ed un’altra metà nella seconda Posta: “questa volta, ho contato tutti gli animali ed ora dichiaro di avere 1000 pecore oltre a quaranta capi vaccini e giumentini, per cui, facendo presente che a Salvetere ci sono carri 7 di reseca da più anni inaffittata, la prego di concedermeli tutti, offrendo ducati 44 per ciascun carro, prezzo stabilito per terreni simili”.
        Così, nella b. 99 f. 3063 dei Processi di II Camera,  don Francesco di Netta, erede del padre don Francesco e dello zio Don Vincenzo, il 18 Ottobre 1857 andò dallo scrivano Gregales che afferiva direttamente al Signor Intendente di Foggia, per denunciare Don Gaetano Pelosi di Vallata di anni 21, figlio del quondam Dottor Don Carmine deceduto l’anno prima, perché dopo 5 anni che stava in affitto sopra 1 carro, 2 versure e 21 catene(= 402.29 moggi napoletani), non aveva ricevuto alcun tallone di pagamento effettuato a Foggia, dove da quell’anno, e precisamente da circa un mese divenuto maggiorenne Don Gaetano, risultava essere l’unico responsabile della Posta fissa di Monterocilio in agro di Ascoli. Quindi, Don Francesco di Netta si rivolse all’Avvocato Don Pietro de Plato abitante in Foggia in Via Bruno N°77 e lì prese domicilio per questa causa, nominando suo procuratore Giovanni Salvino. L’Avvocato chiese che si indagasse sull’accaduto perché il padre di Don Gaetano Pelosi, dal suo cliente aveva ricevuto 50 ducati all’anno e lui aveva già pagato per 5 anni. Pertanto, l’avvocato chiese, che Don Gaetano dovesse, come responsabile e capoposta di Monterocilo, restituire al suo cliente i cinque anni già pagati, ma indebitamente trattenuti e, per questo motivo così grave, lui aveva già prodotto un atto per estrometterlo da quei terreni. Il Signor Intendente concordò con l’avvocato de Plato, trovando assai grave quel comportamento ed inviò il messo comunale di Vallata, Signor Maddalena, a notificargli un atto di comparizione in sede a Foggia. Così fu che Don Gaetano, venuto a Foggia a rispondere davanti all’Intendente, non seppe dare spiegazioni sui talloncini e così letteralmente riferì : ”li ho cercati dappertutto, ma non sono riuscito a trovarli, ma conoscendo la precisione del mio defunto padre, sono sicurissimo che lui l’abbia sempre versati”. L’Intendente non volle ascoltarlo oltre e chiese se avesse delle serie motivazioni giuridiche da far valere in quella sede ed allora Don Gaetano produsse un atto di vizio procedurale, asserendo che quell’atto glielo avrebbero dovuto notificare un anno prima e che il pagamento di quell’estaglio avrebbe dovuto essere mensile e non annuale. Inesorabile arrivò  la disdetta da responsabile della Posta di Monterocilo ed il procuratore di Don Francesco di Netta, Signor Giovanni Salvino volle, in questo stesso atto, fare un po’ la storia di quella Posta, scrivendo che : “ Don Gaetano Pelosi, l’ha ricevuta da suo padre U.J.D Don Carmine che era stato il censuario della Posta fissa di Monterocilio, noto proprietario di Vallata, gestendola per 24 anni, ma, ancor prima, era stato censuario della Posta di Monterocilio suo nonno, il Cav. Don Bartolomeo Pelosi che a sua volta l’aveva ricevuta dal fratello notaio Don Michele e quello, a sua volta, l’aveva ricevuta dal Mag.co Dottor Don Carmine, per una causa ereditaria ed anche per volere del Marchese di Trevico ”  e, dall’anno 1857, un mese dopo che Don Gaetano ricevette quella Posta, la perdette a favore di Don Francesco di Netta.
        Il Procuratore aggiunse : “ora appartiene esclusivamente a Don Francesco di Netta, come si evidenzia dalla Sinallagmatica del 4 Dicembre 1856/7”. Fu controllato che ciò rispondesse a verità, e l’Intendente, avendo verificato che esisteva l’affitto sessennale per il pascolo vernotico che andava dal 25 Novembre al 25 Maggio e che non esistevano “Talloni di Pagamento” da parte di Don Gaetano, per l’articolo 1562 delle Leggi Civili, lo condannò al pagamento di 250 ducati, l’atto di sfratto fu dichiarato valido e a suo carico furono poste anche le spese degli avvocati. Seguì una breve descrizione della posta che confinava a Settentrione con i monti d’Ascoli, a mezzogiorno con il Regio Tratturo che portava a Candela, a levante con gli stessi monti d’Ascoli, a ponente con le terre della Mensa Vescovile d’Ascoli, la sua configurazione era tale che si presentava come un parallelogramma, con una zona montuosa piuttosto sterile, meno che in un punto, ove conteneva una valletta di circa un carro di terra che aveva ottima vegetazione che confinava proprio con il Regio Tratturo. L’estensione totale della Posta di Monterocilo era di carri 4 e da essa si ricavavano 184 ducati annui, mentre il suo valore era stato valutato in 238,87 ducati, quindi, aveva una grandissima potenzialità e chi faceva il censuario, cioè la persona di massima fiducia per il Regio Fisco, avrebbe dovuto portare bene i conti e dichiarare tutte le entrate.
        Quindi, il vecchio sistema delle censuazioni, trasformate in enfiteusi trentennali, anche se fu abolito con la soppressione delle Regia Dogana di Foggia, fu portata avanti fino all’Unità d’Italia. Volendo quindi, procedere ad un breve excursus, si può dire che quel sistema della professazione volontaria fu superata da un altro sistema quello della transazione quando i locati più ricchi abusavano oltremodo degli allevatori più poveri a cui concedevano subconcessioni a prezzi proibitivi, avendo avuto erbaggi in abbondanza in concessione dal Regio Fisco. Pertanto, per non creare ulteriori sperequazioni furono create altre locazioni, dette aggiunte o dei poveri, come quella di San Lorenzo, di Siponto, di Parasacco, di Sant’Andrea etc. Ciascuna Locazione fu divisa in poste e nel 1770 ce n’erano 446 ed in queste le greggi potevano sostare, dovendo attendere la ripartizione ed assegnazione degli erbaggi che avveniva dal 29 Settembre al 25 Novembre d'ogni anno. Il Regio Demanio, per rendere possibile la transumanza delle greggi creò i tratturi, i tratturelli, i bracci di tratturo. Quindi, in uno scenario del genere, è facile immaginare come il proprietario di greggi fosse la figura di maggior peso nel contesto dell’assetto economico e sociale di quei periodi. Egli era un protagonista molto ascoltato nel delicato sistema di mediazioni politiche ed istituzionali che ruotava intorno alla Regia Dogana, faceva ricorso al lavoro salariato per l’assistenza delle sue mandrie affidando l’organizzazione e la gestione del gregge al massaro che godeva della sua massima fiducia ed entrando nella programmazione, organizzazione e gestione dell’impresa, chiamata anche industria zootecnica. Molti proprietari, quelli più ricchi, non erano soggetti comuni, ma erano Confraternite, Enti Ecclesiastici, Ordini Cavallereschi e tutti concorrevano alle Poste della Dogana, ottenendo, così, anche un riconoscimento della loro autonomia politica e sociale.
        I locati ottennero importanti privilegi a cominciare proprio dall’istituzione di un Foro esclusivo per le cause doganali che li riguardava ed in questo modo, fu affermato un concetto quale quello dell’eguaglianza di fronte alla legge, che oggi ci sembra così ovvio, ma che a quei tempi era impensabile ai più. Il Doganiere era tenuto a difendere “ex officio“ il privilegio dei locati contro ogni altro giudice: sui conflitti di competenza decideva il Collateral Consiglio. I Baroni che esercitavano giurisdizione in gran parte delle terre e dei casali si sentivano danneggiati dalla presenza di questi personaggi, perché il suo potere e le sue entrate venivano compromessi dai mancati proventi; spesso, infatti, avvenivano contrasti con la magistratura delle corti locali ma si risolvevano sempre a favore della Regia Dogana verso cui il potere regio assunse una posizione favorevole. I privilegi ai locati fu pure esteso ai figli, ai servi ed alle famiglie dei locati, le perdevano solo le figlie sposate, mentre li conservavano le vedove dei locati purché non si risposassero. Esistevano delle assemblee di locati, riuniti “nelle Università o Generalità dei pastori” che si proteggevano tra loro e queste al proprio interno eleggevano tre Sindaci o deputati generali che assistevano il Doganiere nelle cause dei locati ed esercitavano la tutela della categoria attraverso petizioni, suppliche, patrocini in giudizio. Lo status di locato era molto ambito, se è vero che molti lo diventavano fittiziamente pagando per un minimo di venti pecore pur non possedendole, pur di sottrarsi alla giurisdizione baronale dell’epoca.
        Il locato interveniva sia nelle fasi preparatorie della stagione, quando cioè si doveva concorrere per gli appalti o per i contratti delle poste e degli erbaggi in montagna, sia nelle fasi finali rappresentate dalla vendita dei prodotti alla Fiera di Foggia, che raggiungevano tramite dei cavalli trottatori di gran pregio e notevole valore commerciale. Un documento della famiglia Pelosi di Vallata del 23 Marzo 1753, ce lo testimonia, poiché nella compilazione di un verbale di consistenza degli animali comperati, c’era scritto che in quel giorno, essendosi  recati 5 persone di famiglia (4 fratelli ed un nipote) in Fiera, arrivarono a Foggia con i loro 5 cavalli trottatori neri morelli, compreso Don Pasquale che l’anno dopo sarebbe divenuto sacerdote nella chiesa di San Bartolomeo. Durante la Fiera di Foggia aveva luogo l’esazione della maggior parte delle entrate doganali, il pagamento della cosiddetta ”fida”, cioè delle somme che i proprietari di armenti dovevano pagare alla Dogana per lo sfruttamento dei pascoli di proprietà della corona napoletana. Tali somme quasi mai erano pagate in anticipo ed il pagamento avveniva dopo la vendita dei prodotti della pastorizia e prima della partenza delle greggi per la montagna, cioè durante la Fiera di Santa Caterina. Era, quindi, interesse dell’Autorità Doganale promuovere al massimo il libero commercio dei prodotti dell’industria armentizia, richiamando compratori da ogni parte del Regno ed anche fuori da esso, per facilitare le vendite e rendere possibile la riscossione dei propri crediti. Ma la Fiera di Foggia era l’occasione per lo svolgimento della riunione dei “Padroni delle greggi”, i quali discutevano dei loro problemi, eleggevano i rappresentanti per difendere i propri interessi, per rivendicare diritti e privilegi quali l’accesso ai pascoli, all’acqua, ai pedaggi, per discutere delle gabelle feudali, del diritto di portare le armi, del diritto al sale ed all’uso dei tratturi.
        Don Carmine Pelosi di Vallata, tra il 1760 ed il 1770, in quelle assemblee dei Padroni di greggi, aveva sempre un ruolo molto attivo e svolgeva opera di persuasione, presso gli amici di sempre, Michelangelo la Quaglia, Nunziante Pavese, Antonio Garruto, Francesco di Netta, i Travisano, oltre che verso i cugini Alvino di Andretta, tutti antichi locati della Regia Dogana, affinché votassero come loro rappresentante l’avvocato abruzzese Don Antonio Silla, assai noto a Foggia perché era un irriducibile difensore dell’antico sistema feudale dell’assegnazione delle terre della corona ed in particolare, faceva votare, nella terna di sindaci della locazione di Vallecannella, per il notaio Rossi che abitava ad Anzano, casale di Trevico, vecchio amico di suo padre che aveva anche raccolto le sue ultime volontà testamentarie.

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