Comunità di Vallata tra Chiesa Madre, Cappellanie e Regia Dogana - Sergio Pelosi — Mag.co U.J.D Don Carmine fu Don Bartolomeo.

Capitolo VII
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7.3 Mag.co U.J.D Don Carmine fu Don Bartolomeo.

        Nacque nel 1791 a Vallata da Don Bartolomeo e da Donna Fortunata Pelosi, studiò al Real Liceo”Colletta” di Avellino, per poi laurearsi in Legge(=U.J.D) alla Regia Università di Napoli come suo nonno(Foto 27). Lo zio sacerdote Dottor don Giuseppe, fratello maggiore del padre fu continuamente il suo consigliere e colui che gli combinò il matrimonio. Infatti, il 21 Settembre 1821 sposò Donna Maria Caterina Gallicchio di 4 anni più giovane di lui, con una solenne funzione celebrata nella Chiesa madre di San Bartolomeo, alla presenza dei testimoni Mag.co Don Nicola Pali ed Don Pasquale de Gennaro, mentre la funzione fu celebrata dall’Arcipresbiter Don Felice Villani Così, mentre il Don Carmine per tutta la vita si occupò di leggi, di contratti e di contenziosi, un fratello, a lui molto legato e di nove anni più piccolo, di nome Gaetano, si interessò materialmente dell’andamento delle masserie, delle coltivazioni cerealicole, dei pascoli, delle greggi di pecore e delle mandrie di vacche e di giumente che dalla Posta di Monterocilo, tra Rocchetta e Candela arrivarono fino a Torre Alemanna e Minervino Murge. Fin quando visse il fratello Gaetano, questi fu la sua ombra ma, a 35 anni, il 3 Settembre 1835 esalò l’anima a Dio e lo spazio fino a quel punto occupato dal fratello, fu prepotentemente occupato dalle sue prime 6 figlie, la prima fu Donna Enrichetta, nata il 4 Luglio 1822 che nacque quando il Sindaco era il dottor Ciriaco Mirabelli, la seconda fu Olimpia nata il 28 Novembre 1825 che sposò il cugino Don Biagio Gallicchio(un cui figlio Vito Mario sposò Addimondi Ippolita figlia di Domenico e Tommasina Andreotti), la terza fu Giuseppantonia il 9 Agosto 1828, la quarta fu Costantina nata il l2 Agosto 1830, la quinta fu Cleonice il 25 Aprile 1831, la sesta fu Ginevra nata il 13 Aprile 1832  e, poi, finalmente arrivò il sospirato maschio, il settimo a cui fu dato il nome di Vito, Francesco, Antonio nato il 19 Luglio 1833 che fu da subito l’orgoglio di tutti, ma principalmente del nonno Bartolomeo, ed i testimoni di quel battesimo furono i coniugi Vitale di Bisaccia e l’officiante di quella messa fu il Sacerdote Don Ciriaco Cataldo. Vito, entrò nel Collegio di Avellino nell’anno 1844, per uscirne il giorno del Diploma, il 18 Giugno 1851. Ebbe giusto il tempo di sposarsi con Donna Caterina Batta quando, dopo qualche mese, passò a miglior vita per una febbre terzana contratta nel Tavoliere, dove si era recato incautamente nell’estate del 1853 dove, in alcuni luoghi, non essendoci ancora nessun lavoro di bonifica, si poteva rimanere solo a rischio della propria vita, ma suo figlio nacque ugualmente a Dicembre dello stesso anno e gli fu dato il nome di Giuseppe, ma la morte lo portò via il 21 settembre 1854.
        L’U.J.D Don Carmine, fu  più volte presente in Consiglio Comunale a Vallata ed allo stesso tempo ricoprì prima la carica di Priore della Cappella del Santissimo Sacramento e poi di quella del Santissimo Rosario. Dal quel prolifico e felice matrimonio, con la Donna Maria Caterina Gallicchio dopo Vito, nacque un altro maschio, il nono Gaetano il 23 Gennaio 1836 che diede seguito alle generazioni future, seguito dalla decima di nome Giovanna il 3 Febbraio 1837 e dall’undicesima di nome Elisabetta nata l’11 Novembre 1839.
        Il Dottor Don Carmine Pelosi di Vallata fu uno dei 3000 locati che nel 1845 ancora si rinvenivano nei Registri dell’Amministrazione Fiscale di Foggia, essendo un possessore effettivo di terreni del Regio Demanio del Tavoliere, sempre nella Posta di Monterocilo in Locazione Vallecannella, essendo subentrato a suo padre don Bartolomeo che, sia pur ancora in vita fino al 1848, già da tempo aveva ceduto tutto nelle sue mani. In quegli anni il numero dei censuari diminuì sensibilmente ed in presenza di nuove condizioni di mercato, i vecchi locati abbandonarono le vecchie attività zootecniche e di coltivazione in modo diretto e fu quello il momento in cui fiorirono mercanti, usurai ed altre figure professionali di imprenditori. Subito dopo lo Stato Borbonico, il nuovo Regno d’Italia cominciò a pensare a delle opere di colonizzazione del territorio del Tavoliere oltre che a delle opere di Bonifica a cui si dedicò Afan De Rivera, con lavori di arginatura del Lago Salpi, del Candelaro, del Salsola e del Celone, a cui chiaramente dovettero contribuire anche i proprietari terrieri, specialmente dopo l’affrancazione delle terre del Tavoliere. La Provincia di Foggia pagò un conto elevatissimo per una fallimentare politica fiscale dei precedenti governi, per cui basta vedere la densità abitativa a miglio quadrato di territorio per rendersi conto della situazione in cui versava. Nel 1851, c’erano nel Tavoliere 125 abitanti a miglio quadrato, nel Principato D’Ultra 358, e la pastorizia dava ormai un reddito molto basso e che diminuiva di anno in anno, le coltivazioni, intanto, continuavano ad estendersi e l’attività agricola veniva condotta con mezzi inadeguati e non competitivi, molti contadini venivano sfruttati ancora più di prima. Pur perdurando condizioni tristi e di grave disagio nel 1848 i possidenti ebbero notevole paura di  quei moti insurrezionali che dava ai contadini maggiore consapevolezza dei propri diritti. La ricca borghesia rurale di cui faceva parte Don Carmine si trovò per la prima volta a doversi difendere dalle rivendicazioni dei contadini e dalle idee del “comunismo”, fenomeno che investì l’intero Mezzogiorno d’Italia e, numerosi braccianti, incominciarono a ritrovarsi intorno alle idee di Gramsci, pensando che i molti demani comunali, i latifondi e tutte le terre usurpate, dovessero finalmente passare nelle loro mani, così come dovessero essere abolite le decime godute dalla Chiesa. Ma i proprietari, tra cui Don Carmine, non erano sicuri che tutto ciò si potesse evitare e, fu allora che a Vallata, come dappertutto, i proprietari scesero direttamente in politica. Così, ben prima dell’Unità d’Italia, Don Carmine fece il Capo Urbano ed amministrò i beni delle Cappelle Laicali, ciò che aveva fatto sia il padre che il nonno, vivendo di rendite ormai già ben consolidate, e cercava con la sua laurea in Legge di evitare controversie e situazioni che potessero compromettere la sua solida  posizione. Cosi, comparve in una sentenza del 6 dicembre 1850, in cui nella qualità di Capo Urbano assieme al suo Sindaco Don Nicola Cataldo, ricevette delle minacce da alcuni cittadini che il Giudice Regio di Castelbaronia, rinviò a giudizio e condannò: il Sacerdote Don Epifanio Villani e suo fratello Don Gennaro, Don Domenico Netta, Don Domenico Bufalo e Don Francesco Bufalo. Insomma, erano gli albori dell’Unità d’Italia, ma Vallata e tutta l’Alta Irpinia era quasi totalmente devota a Francesco II di Borbone e, come riferito dall’attuale Arciprete, si appresero con dispiacere i primi successi di Garibaldi con la sconfitta sul Volturno, ad eccetto di alcuni liberali tra cui Don Gaetano Monaco, il dottor fisico Don Michele Netta, Don Vincenzo Netta, Don Biagio Gallicchio, Don Antonio Batta e Porfirio Zamarra. I Borbonici  di sicura fede a Vallata, in quel periodo, furono i Cataldo, Don Carmine Pelosi, i Travisano, Don Donato Quaglia ed i Cirillo.
        Don Carmine cercò di mantenere quel vasto patrimonio che i suoi avi erano riusciti a procurargli, cercando di usare gli stessi,  ma tutto era più difficile e più oneroso, ci avvicinammo agli albori dell’Unità d’Italia, e qualcosa già si avvertiva che stava rapidamente cambiando!!  Morì a Vallata il 28 Novembre 1856, all’età di 66 anni, come risultò dal(Foto 28) certificato di morte N° 63, redatto dal Cancelliere Crincoli e dal Sindaco Don Tommaso Pavese, innanzi ai quali si presentarono Alfonso Talia, barbiere di 30 anni ed Angiolo de Pasquale vaticale di 40 anni che confermarono che alle ore dodici di quel giorno e di quell’anno, morì il Dottore in legge Don Carmine, nella sua casa in strada Fontana. Trascorse gli ultimi anni della sua vita in una grande armonia tra figlie e nipoti, senza far mancare i buoni consigli  al figlio Gaetano cercando fino alla fine dei sui giorni di sventare gli attacchi alle sue proprietà. Ma, il figlio Gaetano, si comportò molto bene quando accadde una tentata estorsione nei suoi confronti da parte di alcuni briganti, così come trovato nella b. 146 f. 8 dell’Archivio di Stato di Campobasso, Fondo Processi Politici, per la somma di 200 ducati da parte del capobanda Agostino Sacchitiello del 16° Battaglione Cacciatori, 4° Compagnia del disciolto esercito borbonico che, conoscendolo come figlio del dottor Don Carmine, grande favoreggiatore del Re di Napoli, lo invitava ad organizzare gli abitanti della sua zona per armarli contro i Poteri dello Stato. Tutto avvenne il 24 Dicembre del 1861, vigilia di Natale, quando un tal Domenico d’Errico di Bisaccia di 32 anni, vaccaro al servizio della vedova Stanco, Donna Lucia Cataldo, e addetto alla custodia delle vacche della medesima nel bosco di Sassano, nel tenimento di Carbonara(= odierna Aquilonia) portò una lettera intestata al dottor Don Carmine Pelosi di Vallata che essendo già defunto, fu aperta dal figlio Gaetano che, nello stesso giorno in cui gli fu recapitata, fu presentata alla giustizia. Era una lettera del capobrigante Agostino Sacchitiello di anni 30 di Bisaccia, contadino e figlio di Antonio, che la firmò per esteso e che, ritenendolo un favoreggiatore dell’ex governo borbonico, lo esortava :“a far trovare in loco un buon partito ed a passare con la colonna pel suo paese” ed infine gli chiedeva:” di tenersi pronto per versare 200 ducati per sostenere un numero di gente occulta fintanto che non l’avesse riunito alla colonna”. Don Gaetano non fu titubante sul da farsi ed il giorno stesso della ricezione della lettera, la portò al Supplente giudiziario di Vallata ed al suo Segretario. Furono interrogati tutti i vaccari che si trovavano nel bosco di Sassano, Vincenzo Simone, Francesco Cianciulli, Rosario Ciannciulli, Luigi Cristofaro, Francesco Rafaniello, Euplio Gallo e Vincenzo Spatola che concordemente riferirono questa versione : “il vaccaro Domenico d’Errico all’antivigilia di Natale partì da quel bosco per portare dei latticini alla sua padrona, la vedova Stanco e ritornò dopo tre, massimo quattro giorni e che in effetti, nei giorni scorsi lì vicino a dove stavamo, passò la comitiva capitanata da Agostino Sacchitiello ma, nessuno di noi s’accorse se fu data o meno la lettera al d’Errico”, ma durante l’interrogatorio un altro vaccaro, di nome Michele Frasca riferì che intese dire che il d’Errico doveva portare la lettera a casa Pelosi e che lui gli chiese di che si trattasse e quegli così rispose:”sei pazzo, io non ne so niente di niente”. Fu confermato dalla vedova Stanco che alla vigilia di Natale, il vaccaro d’Errico le portò dei latticini e Don Francesco Alfonso Del Campo, testimoniò che trovandosi a casa Pelosi per gli auguri di rito, a quella casa bussò Domenico d’Errico ed a lui che gli chiese che volesse, rispose che doveva consegnare una lettera al figlio del Dottor Don Carmine. Ad avvalorare ancor di più quella versione, s’aggiunse la testimonianza di Michele Cirillo che stava a casa Pelosi  e che, stazionando sulla scalinata in attesa che Don Gaetano scendesse, arrivò il d’Errico ed a lui chiese: “che vuoi ?” e quegli entrando gli disse “ho una lettera che ho ricevuto ieri dai nel bosco di Sassano”. Don Gaetano ricevuta la lettera, la portò dal Cap.no della Guardia Nazionale, il quale inviò Don Gaetano dal supplente che era Don Pasquale Stanco. Intanto Domenico d’Errico, consegnata la lettera a casa Pelosi ”andò via sollecito né si fece più vedere nel paese né fu possibile rinvenirlo”; furono interrogati i figli a Bisaccia e furono ascoltati anche tre probi del suo paese che riferirono sulla condotta del d’Errico che nato il 31 Marzo 1829, contadino, figlio di Mattia non aveva certo una sua opinione politica e concordarono che era finanche incapace di commettere furti.

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