Comunità di Vallata tra Chiesa Madre, Cappellanie e Regia Dogana - Sergio Pelosi — Processi dal 1777 al 1781.

Capitolo IV
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4.4 Processi dal 1777 al 1781.

        Nella Dg. III, b. 111 f. 5759, il 26 Settembre 1777, essendo scaduta una nota di cambio(=cambiale) che Don Carlo del Sordo aveva fatto per trecento ducati a nome di Giuseppe Furia, quest’ultimo fece valere le sue ragioni innanzi al Presidente della Regia Dogana, Marchese Don Xaverius Danza, responsabile anche della suddelegazione dei cambi a Foggia. L’istanza presentata da Giuseppe Furia conteneva gli estremi della sua richiesta che era però limitata a cento ducati più gli interessi maturati, così come attestava un atto del Comune di Vallata a firma di Bernardo Crincoli, Pietro Pelosi e Michele Fabiano. In virtù di quel debito, a Don Carlo del Sordo, che era al momento nelle carceri di Vallata per un altro debito contratto nei confronti del Governatore di Vallata, furono sequestrati  il 28 Maggio 1778, nove giumente con tre figli di cui un maschio e due femmine e quattro cavalli tutti marcati in modo differente. L’atto di notifica dell’esecuzione, firmato dal Giudice Carlo Maria Valletta e dal segretario sacerdote Melanconico della Regia Dogana di Foggia, fu recapitato nelle mani della sua seconda moglie Donna Teresa Troccolo di Vallata. Il 3 Luglio 1778, Pietro Villano ordinario giurato della Corte di Vallata scrisse: “affermo sotto giuramento, alla presenza del Notaio Giovambattista Branca della stessa mia terra che gli animali sono stati venduti e che si trovavano al momento consegnati a Leonardantonio Batta ed in attesa, resto a disposizione di ulteriori ordini”. Nel frattempo il Giudice Valletta fu sostituito con De Dominicis il quale intimò il pagamento di 107 ducati a favore di Giuseppe Furia, di cui 100 per il debito in conto capitale e 7 ducati per interessi di mora e spese processuali.
        Nella Dg. II b. 576  f.12011, nel 1778 ci fu una causa tra Leonardantonio Batta contro Nicola Domenico Batta della stessa terra di Vallata, con atto di inibitoria per la Corte Locale di quella città per una tentata turbativa nell’affitto delle vacche delle cappelle Laicali. Il fatto prese spunto da un bando pubblico delle Cappelle Laicali che, dopo aver ben pubblicizzato l’avvenimento dell’affitto delle loro vacche, vitelli e tori con il solito sistema dell’accensione e dell’estinzione della candela, tutti gli interessati, tutti i priori ed i consiglieri deputati alle stesse cappelle, alla presenza del governatore e giudice di Vallata Signor Marotta, alla presenza del Consiglio Comunale, il 15 Settembre di quell’anno, alle ore 15, davanti al solito posto, davanti al piazzale della Cappella del S.S. Sacramento, si procedette all’appalto pubblico. L’analisi dei documenti ci testimonia che il Consiglio Comunale di Vallata in quell’anno era così composto: Sindaco Don Pietrantonio Vella, capo eletto notaio Andrea Sauro, ed i 2 eletti erano Alessandro la Quaglia e  Giovambattista Cerullo. I Priori delle Cappelle erano Don Michele Pavese per il Purgatorio, Don Giuseppe Tanga figlio di Domenico per la Santissima Trinità, il notaio Don Celestino Novia per quella di San Vito, Guglielmo la Quaglia per la Cappella Laicale del Santissimo Rosario, Don Aniello Bove e Don Paolo Monaco entrambi priori del Santissimo Sacramento; tutte le cappelle, poi, si servivano di alcuni consiglieri deputati alla supervisione degli atti e per ricevere consigli sui beni stabili e su quelli mobili e semoventi (le vacche appartenevano a quest’ultimo gruppo), e quelli erano Don Michelangelo Garruto, il Mag.co Don Bernardo Crincolo, Don Mauro di Gennaro ed il Mag.co U.J.D Don Carmine Pelosi. Tutte le vacche, i tori ed i vitelli dovevano essere affittati “a capo salvo”, per nove anni e dovevano essere gravati di decima e di sesta e, quelli che se le fossero aggiudicate, con atto pubblico, si sarebbero dovuti impegnare a conservare il patrimonio nelle migliori condizioni possibili “servatis servandis” nelle proprie stalle, e per questo, avrebbero dovuto rilasciare anche una congrua cauzione nelle mani del notaio Andrea Sauro. Tutto stava procedendo nel modo più tranquillo possibile, fino a quando s’arrivò all’estinzione di candela di un gruppo di 15 vacche e tre vitelli, due maschi ed una femmina, per complessivi 18 pezzi appartenenti alla Cappella del Santissimo Sacramento. Se li aggiudicò Don Crescenzo Furia, benestante, per carlini 11 al pezzo da pagare ogni anno nel mese di agosto, ma quando seppe che doveva sborsare la decima e la sesta, pubblicamente in piazza, davanti a tutti rinunziò, anche se successivamente andò a parlare con il Governatore Marotta che intercedesse presso il Priore di quella Cappella a che glieli desse ugualmente, perché nella sua stalla sarebbero stati benissimo. Il giorno dopo, 16 Settembre, Don Leonardantonio Batta, recatosi prima dal Notaio Andrea Sauro, fece un atto pubblico col quale s’impegnava lui a pagare gli 11 carlini l’anno per nove anni, e questi, incaricato dalla Cappella del Santissimo Sacramento, per nome e conto di quest’ultima gli mise a disposizione i 18 pezzi che già aveva portato nella sua stalla. Poi, per svolgere le ultime formalità, si recò al Palazzo Ducale e confermò che essendo stato l’ultimo licitatore del giorno precedente, l’appalto  delle vacche “a capo salvo” l’aveva vinto lui, esibendo l’atto del Notaio Sauro, ma incontrò Don Nicola Domenico Batta che contestò il modo d’assegnazione compiuto e chiamò in causa Arcangelo Villano che da sempre svolgeva quel lavoro dell’accensione e dell’estinzione della candela e che poteva testimoniare che si sarebbe dovuto svolgere un’altra gara d’appalto. E, aggiunse pure che il Governatore era d’accordo perché aveva parlato la sera precedente, e che a breve avrebbe chiamato pure tutti i priori delle Cappelle affinché esprimessero un loro giudizio in merito alla questione. Don Leonardantonio Batta mise nero su bianco e scrisse una lettera al Governatore di Vallata ed a tutti i Priori, stigmatizzando la vicenda e scrivendo che il comportamento di Don Nicola Domenico Batta “ mi fa inquietare molto” e poi “voi amministratori, non potete intervenire adesso su un contratto già perfezionato, anche perché i Luoghi Pii non hanno mai goduto di questi benefici concessi solo al Fisco ed alle Università, cioè ripetere la gara d’appalto e prevedere che l’affitto non deve essere più di nove anni ma di sei, come dice anche il Governatore”. Quest’ultimo non perse tempo in questo suo proposito e, chiamando il priore del Corpus Domini Don Paolo Monaco, gli raccomandò di fare urgentemente una riunione con gli altri priori perché, per un maggior utile e vantaggio delle stesse cappelle, era bene portare l’affitto a sei anni. Seguì il 20 Settembre la riunione dei priori e fu redatto un documento allegato al processo in cui tutti i Governanti delle Unità Laicali della Terra di Vallata, riuniti in assemblea, decisero: “ abbiamo tutto il piacere e vediamo anche l’impegno che le cappelle laicali compiono per profittare di più nel contratto a capo salvo delle loro vacche, ma la domanda sia del Governatore che di Domenico Batta, non può aver luogo, a meno che non viene fatta un’altra accensione di candela e ciononostante che Domenico Batta e Crescenzio Furia, entrambi si sono detti disponibili all’affitto ed a pagare decima e sesta”. Ma, il 22 Settembre Don Leonardantonio Batta stava già a Foggia alla Regia Dogana, dove produsse una domanda all’attenzione dell’avvocato Fiscale De Dominicis, se lui quale affittatore di terre salde sin dal 1° Maggio dell’anno precedente, potesse servirsi di quel foro competente e quel privilegio gli fu accordato perché il “Patronum Fisci” scrisse che era assimilato ad un Locato, tanto più che la causa riguardava l’acquisto di animali. Inoltre, nella domanda  scrisse che lui non intendeva pagare né decima né sesta, perché se avesse vinto, avrebbe pagato la tassa dell’allistamento tipica degli animali di grande taglia al Regio Fisco e non alla corte Ducale di Vallata. Quella sua affermazione bastò ad ottenere un’importantissima “inibitoria” nei confronti della Corte Locale di Vallata che ebbe un dispaccio nel quale si riportava che non dovesse intervenire in quella faccenda né creare turbativa, altrimenti tutti gli atti prodotti fin lì sarebbero stati dichiarati nulli. L’avvocato De Dominicis, conseguentemente avocò tutto il processo a Foggia e stabilì come data d’udienza il 29 Ottobre, intimando tutti a comparire in Regia Dogana. In quella sede ed alla data convenuta don Leonardantonio Batta decise di non presentarsi e recatosi dal notaio Andrea Sauro gli fece preparare una procura a favore di Don Giuseppe Zamarra che lo doveva rappresentare in quel giudizio a Foggia; la stessa cosa fece Don Paolo Monaco, priore della cappella Laicale sotto il nome del Santissimo Sacramento che, scrivendo che era legittimamente impedito, nominò suo procuratore Don Francesco Saverio Massari, con la registrazione del Notaio Professor Regio Francescantonio Gallo di Vallata. Poi, in ordine cronologico, comparve l’atto formale con il quale il Marchese Don Xaverius Danza, Miles et Presidente della Camera della Sommaria di Napoli et Presidente della Regia Dogana di Foggia, per Ferdinando IV Dei Gratia Rex, ripetendo tutta la vicenda accaduta aggiunse che ora Don Nicola Domenico Batta, pretende portar via gli animali da Leonardantonio, ma questi pretende che venga rispettato l’affitto degli animali e non vuole pagare né la decima, né la sesta, e desidera che le spese e gli interessi per questo atto, stabilito dall’Avvocato De Dominicis “in omnia“ per 15 ducati, siano pagati da chi soccombe nel giudizio. Comunicazioni di quest’atto furono mandati al governatore ai priori, ai consiglieri, formalizzando ed evidenziando che c’era un atto d’inibitoria formale. Alla data prestabilita del 29 Ottobre, furono acquisiti tutti gli atti dell’asta e delle procure dei priori ed amministratori vari. Così, ritenendo interessante ciò che avvenne a Vallata quel 15 Settembre del 1778 , riporto quanto scritto interamente sul relativo verbale.
        A Don Crescenzo Furia(che prima rinuncia e poi si pente) N° 15 vacche e 3 vitelli dal Santissimo Sacramento; a Don Vincenzo Pali N°2 vacche dalla cappella di San Vito; ai Signori U.J.D Don Carmine Pelosi, Mag.co Don Nicolò e Mag.co Don Domenico N° 7 vacche dalla Cappella del Santissimo Rosario, con 2 vitelli, un maschio ed una femmina con l’obbligo di pagare 11 carlini a vacca l’anno, per un ammontare di ducati 7 e carlini 7; al Mag.co Don Biase Gallicchio che fu pure nominato perito nell’attribuzione del valore da dare agli animali, N° 2 vacche dal Santissimo Rosario che portavano il marchio “R”, una che si chiamava PREVITERA ed aveva sei anni e valeva 20 ducati, con un vitello maschio del valore di sei ducati, e l’altra di nome BANDERA ed aveva 7 anni ed era valutata di 18 ducati, poi prese pure un toro dal valore di 44 ducati; a Don Vincenzo Netti, figlio di Domenico, una vacca dal Santissimo Rosario chiamata BIANCABELLA che aveva sette anni e fu valutata in ducati 24, avendo tre anni verso i quattro; a Mag.co Don Nicolò Pelosi due vacche, una chiamata CENTURIA di anni 7 valutata 20 ducati con un vitello del valore di 5 ducati e l’altra chiamata CASCITELLA di anni 6 valutata 24 ducati ed un toro di 49 ducati ; a Don Biase Bortone una vacca di anni sei del Santissimo Rosario di nome FACCIBELLA valutata in 22 ducati; all’U.J.D. Don Carmine Pelosi una vacca di nome CARAMALA di anni se e valutata in 24 ducati; a Don Michele di Netta una vacca appartenente al Purgatorio di nome BELLASCRIMA di anni 3 verso i quattro, valutata in 16 ducati, con una vitella del valore di 5 ducati, un’altra di nome MATINELLA di 5 anni verso i sei del valore di 23 ducati con una vitella di 5 ducati, una terza vacca di nome BELLAPRESENZA di anni sei verso i sette del valore di 22 ducati, con un vitello del valore di sei ducati, poi una quarta di nome FATANA di anni 10 del valore di 15 ducati con un vitello del valore di sei ducati ed una quinta di nome PARIBELLA di nove anni del valore di ducati 22 ed infine un toro campione del valore di 122 ducati; a Don Vincenzo Pali una vacca della Cappella di San Vito di nome PIGNATELLA di anni quattro del valore di 25 ducati ed un’altra dal nome MALVAIELLA di anni sei del valore di 18 ducati ed un vitello del valore di 5 ducati, più un toro del valore di 43 ducati; a Don Leonardantonio Batta 15 vacche dal Santissimo Sacramento, una FAINELLA di sei anni per ducati 24 con un vitello di sei mesi del valore di 10 ducati, una GIARDINA di quattro anni verso i cinque del valore di 15 ducati, un’altra è la figlia di PORTAFIORE di  3 anni del valore di 15 ducati, un’altra è PASSANNANTE di 10 anni, del valore di 14 anni, con una vitella di mesi sei del valore di 10 ducati, una che si chiama MONACELLA di tre anni verso i quattro di ducati 22, una di nome PAGANELLA di anni dieci, del valore di 13 ducati, una di nome PORTAFIORE di anni sei verso sette del valore di 22 ducati con un vitello del valore di ducati 8; una di nome STELLANTE di anni cinque verso sei del valore di 25 ducati, una di nome CONCETTINA di anni nove del valore di 18 ducati, poi la figlia di BANCHERA di anni due in tre del valore di 16 ducati, un’altra di nome PERNICE di anni due verso i tre del valore di 16 ducati, poi la figlia di FACCIBELLA d’anni due del valore di 11 ducati, poi la figlia di CUNTURIA d’anni due in tre per ducati 13, tutto per il valore di 291 ducati. Resta anche a lui il Toro, franco di pagamento, del valore di 30 ducati, ed anche se lo terrà lui in custodia, non può non farlo usare ad altri cittadini e, poi quando s’invecchierà lo potrà anche vendere e lo potrà surrogare con un altro di buona qualità; a Don Giuseppe Tanga figlio di Domenico due vacche sterpe(=che non avevano figliato), una di nome LEVATRICE di anni quattro e del valore di 25 ducati, l’altra di nome CARABELLA del valore di 24 ducati e di sei anni, tutte e due del valore complessivo di 49 ducati. Tutto questo bestiame dovrà essere restituito a capo salvo alla fine dei nove anni, ovverosia ad Agosto del 1788,al solito posto, cioè davanti la Cappella dello Spirito Santo e lì per esso il Priore attuale, ossia Don Giuseppe Tanga. Questo documento redatto dal Notaio Andrea Sauro fu esibito sia al Sindaco Pietrantonio Vella sia a tutti i Priori delle Laical Cappelle della terra di Vallata. A Foggia il 29 Ottobre tutti si fecero rappresentare per procura e tutti addussero che erano molto impegnati per altre cause e controversie e, anche se nella fattispecie quella risultava un’assenza troppo sospetta, era tuttavia plausibile che importanti locati dell’epoca o priori delle cappelle laicali fossero davvero impegnati in diversi giudizi ed in varie sedi; così Don Biagio Gallicchio diede la procura a Don Nicola Colabianco con atto firmato dal notaio Andrea Sauro e con i testimoni nelle persone di Giuseppe Maria Giglio e don Crescenzio Tanga; Don Michele Netta ugualmente affidò la procura a Don Nicola Colabianco, l’atto fu firmato dal Legal Professor Gallo ed i testimoni furono Don Giuseppe Pavese e Nicola Lillo; Don Vincenzo di Netta figlio di Domenico ugualmente diede la procura a Don Nicola Colabianco, l’atto firmato dal Notaio Gallo ed i testimoni Don Nicola Silla e Don Giuseppe Pavese; i fratelli Pelosi, il Dottor Don Carmine, il Mag.co Don Nicolò ed il Mag.co Don Domenico, ugualmente l’affidarono a Don Nicola Colabianco, l’atto del Notaio era di Andrea Sauro ed i testimoni furono Bonifacio Giglio e la loro cugina Mag.ca Donna Vincenzina Pelosi, moglie del notaio Andrea Sauro. Don Nicola Colabianco, apparteneva alla famiglia del Duca del Peschio di Ovindoli già da tempo stabilitasi nella locazione di Vallecannella dove, come persona di fiducia del Barone De Paolis di Orsara di Puglia gli amministrava alcune proprietà che da Vallata andavano verso Trevico. In particolare la famiglia Colabianco gestiva la masseria di pecore per conto della Confraternita del S. Sacramento di Bisaccia. Questi a Vallata conosceva e frequentava tutti i maggiorenti locali e spesso andava a Foggia dove si recava alla Regia Dogana per gli interessi del Barone e di quant’altri gli affidassero consulenze di vario genere. Anche tutto il consiglio Comunale di Vallata decise di non andare a Foggia per il processo, quasi snobbando l’evento nel quale tutti furono inconsapevolmente trascinati, e la procura la diede a Don Michele D’Aloia di Foggia. Don Nicola Colabianco non tradì le aspettative di tutte le persone che gliel’avevano concesso la procura perché fece una bella difesa dei suoi clienti, facendo scrivere che bisognava dare le “provvidenze di giustizia”(=condannare) a Don Nicola Domenico Batta, perché questi fece venire l’ufficiale giudiziario di Trevico, trattandosi di problemi legati alle Cappelle e quindi alle Chiese, portando oltre all’inibitoria anche tante umiliazioni ai priori ed ai consiglieri delle Cappelle Laicali di Vallata. Il 7 Novembre 1778 l’avvocato fiscale Don Franciscum Nicolam De Dominicis, dopo aver esaminato le carte, i contenuti ed aver cerziorato le responsabilità, decretò che a far data da quel giorno, ogni data era buona per fare una nuova accensione di candela, ma il periodo d’affitto degli animali a capo salvo non poteva essere di sei anni, ma doveva continuare ad essere di nove.
        Nella Dg. IX, b. 58 f. 1167 il 27 Giugno 1780 a Foggia Don Biase Bortone di Vallata, noto locato sia in locazione Vallecannella che Camarda, denunciò Vincenzo Cornacchia suo compaesano per violenze. Tutto accadde alcuni giorni precedenti, quando un suo garzone di Vallata di 22 anni, Francesco Galletta, figlio di Antonio, stava conducendo e custodendo una sua morra di pecore nei territori del Demanio del Reverendo Capitolo di quella città, quando sopraggiunse Vincenzo Cornacchia che era il guardiano delle pecore di Giuseppe Maria Quaglia, armato di “scoppetta e coltello” e, sotto finto nome si presentò al cospetto di Francesco Galletta e gli disse di essere il Guardiano della Ducal Camera. Poi, nei confronti del suo garzone, con viva forza, accusandolo di “essere passato per dentro delle parate dell’erba della cennata Camera Ducale”, volle per pegno il pelliccione che Francesco Galletta portava con se. Quest’ultimo, nonostante non fosse passato di la e che gli contestasse di essere il guardiano della Ducal Camera, essendo stato minacciato con il coltello appuntito, fu costretto a dargli il pelliccione e Vincenzo Cornacchia, afferratolo se lo portò via. Passarono diversi giorni ed essendosi sparsa la notizia di quel fatto, grazie all’intervento di Don Lorenzo di Majo che faceva le veci dell’agente della Ducal Camera che assieme al suo caporale Michelangelo Mazza ed al vero guardiano Saverio Saporito erano andati a trovare a casa sua Vincenzo Cornacchia e, dopo tanto parlare e convincimenti, si fecero restituire il pelliccione. Ma questo, quando fu restituito a Don Biase Bortone che era il vero proprietario che era solito solo prestarlo ai suoi garzoni, si accorse che in più punti era stato spelato ed a sfregio, dalla parte del colletto c’erano “30 intacche fatte con un coltello pontuto”, oltre ad essere bucato in varie parti, tanto da essere praticamente inservibile. Don Biase Bortone, recatosi a Foggia il 27 Giugno, andò a denunciare Vincenzo Cornacchia anche perché, oltre alle minacce ed alle violenze usate nei confronti del suo garzone, c’era la faccenda del danno al pelliccione e, cosa ancor più grave si era spacciato come guardiano della Ducal Corte. A Foggia, il Presidente era l’Ecc.mo Don Filippo Mazzocchi che dispose che occorreva prima nominare due periti della stessa città di Vallata affinchè si accertasse l’entità del danno e poi che fossero ascoltati tutti i testi presso l’Ufficio Doganale di Trevico, retto da Don Daniel Paglia. Così avvenne e furono nominati Paolo dello Monaco, massaro di campo di anni 60 e Lorenzo del Sordo, esperto di campagna di 46 anni. Nella relazione che i due presentarono allegata al processo confermarono sia le spelature in vari punti, sia le intacche sul colletto e sulle maniche, sia i buchi fatti con il coltello appuntito in varie parti, tanto da aver perforato anche il panno di stoffa bianco all’interno. Dall’Ufficiale Doganale di Trevico Don Daniel Paglia, si presentò anche don Biase Bortone che dichiarò di avere sessant’anni ed aggiunse che già in passato c’erano stati degli screzi sia con il Cornacchia che con il suo padrone, Don Giuseppe Maria Quaglia, ma mai avrebbe pensato che si potesse arrivare a tanto. Poi, toccò fare la deposizione a Michelangelo Mazza, caporale di 48 anni e poi a Francesco Saverio Saporito guardiano della Ducal Camera di 50 anni ed infine fu il turno di Francesco Galletta di 22 anni, garzone. Finito di ascoltare i testi, Daniel Paglia inviò tutto il processo a Foggia dove manca la sentenza finale, forse per un accordo extra giudiziale, dal momento che le prove contro Vincenzo Cornacchia erano schiaccianti.
        Nella Dg II b. 718 f. 14799 il 2 Settembre 1785 ci fu una causa civile tra il Mag.co Don Giuseppe Barbarisi, pubblico negoziante della città di Foggia e Michele Ciasca della terra di Vallata. Il fatto fu che il ricorrente, avendo un negozio a Foggia per poter rifornire di tabacco Michele Ciasca che aveva un suo fondaco(=negozio) nella città di Vallata, aveva preteso che il suo cliente si recasse con lui nello studio di un notaio e la scelta cadde su Andrea Sauro di Vallata ed il 7 Giugno 1783, in quello studio, fu sottoscritto un impegno di pagamento. Recatisi lì per redigere l’atto, Michele Ciasca s’impegnò per 70 ducati da restituirsi in 7 tanne da 10 ducati l’una, da pagarsi entro il mese di Agosto di ogni anno e si accompagnò a sua moglie Crescenzia Fischetti della sua stessa terra ed in verità fu proprio lei che dovette impegnarsi con i suoi beni dotali a far fronte ad eventuali mancati pagamenti del marito e, davanti al notaio fece scrivere la seguente espressione: ”per questo debito impegno me stessa ed i miei eredi, con i miei beni dotali, per non vedere mio marito carcerato ed andar fuggiasco” e, per quella sua obbligazione, trattandosi di beni dotali, ci fu bisogno anche di un regio assenso che non tardò ad arrivare. Ma, dopo che alla fine di Agosto del 1785 scadde anche il terzo anno, il 2 Settembre, il Mag.co Don Giuseppe Barbarisi, suddito della Regia Dogana di Foggia, in qualità di negoziante con licenza annuale rilasciata da quell’istituzione, avendo perso ogni aspettativa di vedersi rimborsato il debito, dopo aver messo in mora Michele Ciasca davanti all’uditore giudiziale Don Angelo Polacchi ed al segretario Palladino, pretese la restituzione di 30 ducati già maturati. Così, il Presidente della Regia Dogana che era il Barone Don Hieronymus Mascaro, Miles et patricius Salernitanum, concesse 6 giorni a Michele Ciasca, per presentarsi in sede a Foggia ed essendo inutilmente trascorso tale periodo, si cominciarono ad elaborare gli atti formali nei confronti di Michele Ciasca che fu considerato contumace. Così, in corso di dibattimento, comparve una procura del negoziante foggiano a favore di Vacca Michele, che come prima cosa, si recò dal notaio Andrea Sauro a Vallata e lì contestò il mancato pagamento e mise in mora il debitore. Il 10 Dicembre di quell’anno, essendo stato investito del problema in sede processuale nella Regia Dogana l’avvocato del fisco De Dominicis, fu inviato l’atto di notifica ed esecuzione del debito a Vallata, a nome del Presidente che era cambiato nella persona del Marchese Don Nilo Malena, con il quale si dava un’altra settimana di tempo per rispettare l’impegno preso. La notifica di esecuzione fu formalizzata nelle mani dal Mastrodatti Benedetto Guida e dal Mag.co notaio Don Nicola Cataldo, entrambi facenti parte della Ducal Corte di Vallata che, recatisi sul posto, non trovarono il diretto interessato del sequestro e la stessa cosa avvenne anche l’8 Gennaio 1786 e, da quella anomala procedura, apparve molto chiaro che Michele Ciasca fu volontariamente aiutato sia dal notaio Cataldo che dal Mastrodatti Guida. Pur tuttavia, l’esecuzione anche se notevolmente ritardata, avvenne ugualmente il 26 Aprile 1786, allorquando l’ufficiale doganale di Lacedonia, Pasquale Infascelli, essendo stato formalmente incaricato da Foggia, si recò a Vallata e, dopo aver affisso il cartello del sequestro sulla casa del moroso contumace, situata nel luogo “ove si dice sotto la Cappella di Montevergine”, procedette al suo sequestro alla presenza di due testimoni: Domenico Cautillo e Pietro Fischetti. Poi, l’ufficiale doganale si portò nella vigna dello stesso Michele Ciasca in un luogo chiamato “Chiusano”, che confinava da una parte con la pubblica strada e dall’altra parte con il territorio di Pietro Antonio Vella, lo sequestrò alla presenza di due altri testimoni: Nicola Branca e Michelangelo Lombardi. Il 16 Febbraio 1787, il Notaio Romualdo Rosa di Vallata, alla presenza dei testimoni Don Crescenzio Tanga e Vito Cautillo, appose il visto di esecuzione avvenuta ed immissione in possesso del Mag.co Don Giuseppe Barbarisi di Foggia che rilasciò l’attestazione di essere pienamente soddisfatto del sequestro avvenuto nella città di Vallata, sia della piccola casa, situata sotto la Cappella di Montevergine che della vigna a Chiusano e che non aveva alcuna intenzione di rivenderle in futuro. Infatti, da alcuni atti esistenti nell’Archivio di Foggia, ho scoperto che solo suo figlio Don Saverio vendette quelle proprietà, perché troppo impegnato nella sua professione di avvocato in Capitanata, infatti, fu colui che, con il Governo francese, predispose un progetto di legge per sciogliere tutti i vincoli e le servitù esistenti delle terre del Tavoliere e concederle così in enfiteusi perpetua ai locati che lo desiderassero.
        Nella Dg. III b. 187 f.. 5960 la Mag.ca Donna Gelsomina Cuoco di Trevico il 13 Marzo 1788 citò in giudizio, a Foggia, presso la suddelegazione dei cambi, gli eredi del quondam Pasquale ed Euplio Agostino Addesa oltre alla vedova Marianna Primavera, tutti della sua stessa città. Tutto cominciò anni prima quando la Mag.ca Donna Gelsomina, madre del Notaio Pietro Scola di Trevico, sottoscrisse una Polizza di Cambio (=cambiale), in data 9 Settembre 1784, davanti al notaio Euplio Arminio ed ai testimoni Saverio Paglia e Pietro Ferrara in cui diede la somma di duecento ducati a tutti coloro che adesso si vedeva costretta a citare in giudizio. Sul contratto notarile c’era scritto che se l’intera somma fosse rientrata prima dei quindici giorni, quelli avrebbero dovuto restituirle solo il capitale ma, se ciò non fosse avvenuto, non solo s’impegnavano “penes acta” loro in prima persona, ma anche i loro discendenti ed eredi, oltre al calcolo dell’interesse annuo dell’8%. Ora, facendo quell’istanza presso la suddelegazione dei cambi a Foggia, aggiunse che aveva aspettato tre anni prima di prendere la decisione di passare alle vie di fatto, così, dopo essere andata dal notaio Giuseppe Cicella di Foggia il 2 Novembre 1787, protestò la Polizza di cambio e mise in mora i suoi debitori. A seguito dell’atto presentato il 13 Marzo 1788, il Presidente della Regia Dogana, Marchese Don Nilo Malena, in qualità anche di responsabile della suddelegazione dei cambi inviò le lettere esecutoriali(=atto d’esecuzione) a tutti i suoi debitori di Trevico tramite l’alguzzino Aniello Stanco in data 6 Dicembre 1778. Questi, molto attento alle formalità di rito, trovò prima le possibili proprietà dei debitori, poi con un atto del notaio Timoteo Pagliarulo ed alla presenza di due testimoni, Antonio Schiavina ed Antonio Trinalta, tutti della città di Trevico, confermò di aver posto sotto sequestro 2 case soprane utilizzate ad uso botteghe appartenenti a Pasquale ed Euplio Agostino Addesa, situate tra la via pubblica e la piazza principale del paese, confinanti con la casa di Nunziata Paglia e che in attesa che tutta la procedura si perfezionasse quelle due case furono consegnate nelle mani di Rocco Capone. Tutto proseguì come da copione e le due case dopo diversi anni furono vendute per soddisfare il debito della Mag.ca Donna Gelsomina Cuoco, ma quando suo figlio il Notaio Pietro Scola ritornò alla suddelegazione dei cambi perché si facesse anche il conteggio degli interessi, il ritardo fu spropositato ed infine gli fu detto che era cambiato il regime fiscale e che in quella sede non si potevano più calcolare gli interessi maturati. In realtà, quando ciò gli fu detto,  il foro competente dei locati di Foggia era già stato soppresso e Don Pietro Scola, per il Decreto del 6 Agosto 1806, si rivolse al Tribunale di Avellino quale sede dell’Archivio Provinciale a cui afferiva la città di Trevico. In quella sede il Notaio Don Pietro Scola produsse un’istanza di 1° grado ed il Tribunale di Avellino mandò a richiedere tutto l’incartamento del processo che si era svolto a Foggia, ma si pretesero non le copie degli atti, ma gli originali, con un ulteriore aggravio di tempo, tanto che il 30 Agosto 1811 il Duca della Torre, in qualità di Amministratore del Corpo del Tavoliere, emanò il Decreto con il quale si autorizzava ad inviare gli originali ad Avellino ed a lasciare le copie a Foggia, affinché quella sede calcolasse gli interessi dovuti su quel debito.
        Nella Dg. IX - Processi Criminali – b. 56 f. 1121, il 24 Dicembre 1779, si stava approssimando la mezzanotte e tutto era pronto nella Cattedrale e Chiesa Matrice della città di Trevico per aspettare la nascita di Nostro Signore Gesù. All’interno della Chiesa c’erano tante candele ed un bagliore illuminava costantemente ogni suo angolo. In quell’atmosfera prenatalizia, Caterina Nuzzo di diciotto anni, dopo aver chiesto permesso a suo padre Marco di anni sessanta, si recò ad assistere alla funzione di mezzanotte, assieme alla madre Donna Donata Novia di Vallata, a sua cugina Rosalia di Pasquale di diciotto anni, a sua sorella minore Angela ed alla Mag.ca Donna Anna D’Arminio sposata con Pasquale Addesa, oltre ad un altro gruppo di vicine di casa. La Chiesa era piena di gente che occupava anche lo spazio tra il portone d’ingresso e la porta esterna di legno tamburata che serviva per ripararsi dal vento. Finita la funzione Caterina Nuzzo si avviò verso l’uscita, aveva appena superato il portone e nello spazio antistante la porta esterna tamburata, si vide afferrata per un braccio e nonostante si divincolasse ed opponesse resistenza, un tale le diede “un bacio nella faccia” e poi s’udì “tieniti questo per l’amore mio”. Tutti udirono e videro che si trattava di Saverio Euplio dello Russo, figlio del quondam Gerardo della città di Trevico. Caterina alla presenza di tutto quel popolo e per l’offesa ricevuta incominciò a piangere a dirotto e si ritirò velocemente a casa assieme alla cugina ed amica Rosalia di Pasquale. Il padre Marco Nuzzo quando la vide tornare in casa in quelle condizioni le chiese cosa fosse successo e lei tra il rossore ed il singhiozzo raccontò l’accaduto. Passato il giorno di Santo Stefano, il 27 Dicembre 1779, Marco Nuzzo si presentò a Foggia presso la Regia Dogana, poiché ben sapeva che Saverio Euplio dello Russo era un coltivatore di terre salde e pertanto era soggetto che, al pari di altri locati allevatori di bestiame, aveva il privilegio di potersi servire di quel tribunale e, dopo aver esposto l’accaduto, chiese che quel giovane di anni 27 fosse imprigionato e fosse emesso subito un giudizio di condanna. Il Presidente della Regia Dogana, Don Filippo Mazzocchi, formalizzando il processo e ripetendo tutto ciò che era successo, concluse e fece mettere a verbale dal Regio Scrivano che quello subito dalla giovane Caterina era un affronto gravissimo e che quell’atto era da considerare un delitto grave contro la persona e che “pertanto, tenendo conto di ciò bisogna impartire una lezione esemplare a quel giovane dopo aver ascoltato i testimoni di quella sera”. Poi, il Presidente stabilì che della faccenda se ne dovesse occupare, in modo assai solerte, l’ufficiale doganale di Flumeri, Don Giovanni Maria D’Elia, poiché quello di Trevico era già molto impegnato e si sarebbero persi diversi giorni, e così avvenne. Questi, convocò tutti a Flumeri e, come prima cosa, volle ascoltare Caterina Nuzzo, poi il padre Marco, poi il Dottor Don Pietro Sebastiano Giannetta e poi il Reverendo Padre Don Saverio Steriti che fu colui che celebrò la funzione religiosa, il quale si fece accompagnare da due testimoni presenti quella sera a mezzanotte, Giuseppe Saverio Giannetta di 52 anni e Giuseppe Pelosi di 36 anni, tutti di Trevico. Dopo aver raccolto le deposizioni che risultarono piuttosto identiche e ripetitive, l’ufficiale doganale D’Elia che sapeva dell’urgenza della faccenda, non ricevette alcuna disposizione in merito, tanto che dopo due mesi di attese, stanco, scrisse alla Regia Dogana di Foggia chiedendo cosa dovesse fare e, dopo 15 giorni arrivò un nuovo messaggio che gli fu recapitato nel quale c’era scritto: “CASO ARCHIVIATO… NOZZE”.
        Nella Dg. IX - Processi criminali – b. 23, f. 586, il 15 Dicembre 1780 l’Ill.mo Dottor Don Liborio Petrilli di Trevico citò in giudizio criminale alla Regia Dogana di  Foggia, Giovanni Paglia, figlio dell’Ufficiale Doganale della sua stessa città, Don Daniel Paglia. Esisteva una grande inimicizia tra Don Liborio e Don Daniel Paglia, sin dai tempi in cui il primo, noto professionista e gran proprietario terriero, divenne anche Sindaco di Trevico. Poi, finito il suo mandato, e divenuto Don Daniel Paglia Governatore interino nella città di Trevico, servendosi dei razionali eletti, sollevò contro di lui una pretestuosa storia di alcune spese fatte da Don Liborio a danno dei cittadini e trasmise i conti al Tribunale della Regia Corte. Ogni occasione era buona perché i due venissero in contrasto, ma il conflitto fu esteso anche ai loro figli, a Nicola, figlio di Don Liborio di tredici anni ed a Giovanni, figlio di Don Daniel di ventuno anni. Così accadde che il 19 Ottobre 1780, Nicola verso le ore venti si trovava ancora nella vigna di un suo bracciale, Dionisio di Spirito, in un luogo detto “Taccaro”, quando Giovanni Paglia, avendolo visto, prese la schioppa, la caricò con palle di piombo e impugnandola verso Nicola mostrò l’intenzione di voler sparare; l’azione fu sventata dal bracciale, che impugnando l’accetta, lo minacciò di andar via. Passarono altri giorni ed accadde un altro episodio; per scampare ad un temporale Nicola si rifugiò nell’edificio di fabbrica posto sempre vicino la vigna coltivata da Dionisio di Spirito ed entrò per ripararsi e, Giovanni Paglia che era sempre sulle sue tracce,  vedendolo, entrò sempre con il fucile. Lì inveì verso il ragazzo con ingiurie e maleparole, ma Nicola Petrilli, gli prese la schioppa  che stava appoggiata alla lamia e gliela riempì d’acqua che scorreva dai canali, nonostante le proteste di Giovanni. Ma, il 5 dicembre, Giovanni e suo padre Don Daniel, incontrandolo in pubblica piazza, gli urlarono tante ingiurie, poi Don Daniel tirandogli uno schiaffone, scappò ed il figlio volendo vendicare l’affronto ricevuto dal ragazzo che gli aveva rovinato la scoppetta, continuò ad assalirlo colpendolo con pugni e calci, tanto da farlo cascare a terra su di un fianco e sarebbe successo ancora qualcosa di peggio se non fossero intervenuti tempestivamente gli Armigeri Baronali. Don Liborio Petrilli avendo saputo l’accaduto, uscì di casa e si mise alla ricerca dell’Ufficiale Doganale che da poco era diventato governatore interino, lo trovò e lo malmenò e disse la seguente frase: “Va vattènne, mariuolo, va vattènne che tu per noi non conti niente!!”. Poi, il 14 Dicembre Don Liborio, che a tempo perso era anche un ottimo avvocato, andò a Zungoli per fare la denuncia presso quella sede doganale ed il giorno successivo 15 Dicembre 1780 andò a Foggia alla Regia Dogana ed aprì un processo criminale nei confronti di Giovanni Paglia. In quella sede, Don Liborio portò con se il certificato medico del Dottore cerusico Pietro Malleone di Trevico di 49 anni che assieme al barbiere “prattico in chirurgia” Pietro della Ferrara, avendo visitato il ragazzo, cosi si esprimevano: ”lo abbiamo ritrovato in casa a letto, con un gonfiore al ginocchio sinistro, mentre sulla fronte c’aveva un gonfiore come un cocchiolo di una noce”. Poi, il Presidente della Regia Dogana, Don Filippo Mazzocchi, assistito dall’avvocato De Dominicis e dal segretario Don Angelo Polacchi, decisero di ascoltare in sede tutti i testimoni presenti all’accaduto. I primi furono il comandante degli armigeri Raffaele Zuccarino di 49 anni e l’armigero semplice Domenico Ciocia di 35, poi fu la volta di Daniele Stanco “tavernaro” della stessa città, di 30 anni, Anna Maria Palluottolo di 50 anni, Elisabetta Checa moglie di Pasquale Bambino, oltre al dottore cerusico Malleone Pietro ed il barbiere “prattico chirurgo” Pietro (della) Ferrara. Poi, avendo acquisito tutte le deposizioni, la Corte inviò un atto ad informandum Giovanni Paglia, in data 27 Luglio che, sotto pena di 25 ducati, il 28 Agosto avrebbe dovuto comparire a Foggia. Ma, il 28 Agosto Giovanni Paglia fece giungere un atto a firma del Notaio Marcellino Pagliarulo di Trevico che viste le condizioni soffocanti di gran caldo e poiché a Foggia c’era pericolo di tante malattie, chiedeva di rimandare l’udienza alle prime piogge. Gli fu accordata , ma il termine fu fissato per l’11 Settembre 1781; ma a quella data comparve un 1° certificato a firma del Dottor cerusico Pietro Malleone, con il quale si metteva a conoscenza la Corte che Giovanni Paglia accusava dolori reumatici per tutto il corpo e consigliava l’assistito di curarsi bene, ai primi di Gennaio 1782, comparve un 2° certificato sempre dello stesso dottor cerusico che asseriva che Giovanni Paglia “s’è vieppiù aggravato ed ai reumatismi s’è aggiunto gonfiore alle ginocchia e febbre erratica”. La Corte di Foggia scrisse un atto tramite l’avvocato fiscale Don Francesco Nicola De Dominicis che d’ufficio gli era stato dato un avvocato per difenderlo alla data dell’Udienza fissata per il 20 Aprile 1782, l’avvocato Domenico Margiotta. Allora, Giovanni Paglia inviò un atto a Foggia, con il quale ricusava l’avvocato d’ufficio perché secondo lui era innocente e non ne aveva bisogno, ma ottenne un’ulteriore dilazione dell’udienza fissata per il 20 Ottobre. Ma, a quella data nonostante fosse stato invitato a presentarsi, pena 100 ducati d’ammenda, comparve un atto del Consiglio Comunale di Trevico che attestava che Giovanni Paglia non era ancora in grado di presentarsi all’Udienza e che altri due medici l’avevano visitato. Poi, il 12 Novembre avvenne la sua deposizione e nel racconto, cercò di stravolgere le cose, portando due nuovi testimoni da Trevico che cercarono di far apparire che non era lui ad aver aggredito Nicola Petrilli, ma fu quest’ultimo. Lorenzo Cardinale barbiere di 30 ed Euplio lo Russo di 28 anni bracciale, furono i suoi paladini. Si perse altro tempo per ascoltarli, e tra un testimone e l’altro, la sentenza definitiva arrivò il 23 Dicembre 1783. Il Presidente della Regia Dogana, Barone Mascaro che aveva sostituito Don Filippo Mazzocchi, inflisse a Giovanni Paglia, mesi sei continuativi da esule, lontano dalla città di Trevico.
        Nella Dg. 1, b. 177 f. 4105, 18 Ottobre 1780 Pasquale Travisano di Vallata in Principato Ultra fece la richiesta di potersi iscrivere come locato della locazione di Vallecannella per un numero di pecore reali di 100 pecore, pur possedendone 310 nella sua città d’origine. Infatti, Travisano portò con se un certificato del Comune di Vallata a firma del Sindaco Pietro Antonio Vella, e con la testimonianza del Notaio Celestino Novia e di Vito della Vecchia, redatto tre giorni prima, con il quale si testimoniava che era un iscritto al “Libro della Numerazione delle Pecore” di quella città. Il Presidente della Regia Dogana Don Filippo Mazzocchi, Presidente anche della Sommaria di Napoli, avendo constatato la disponibilità in quella locazione, tramite i due scrivani Giovambattista Quattrocchi ed Onofrio Muro, con l’atto di procura di Pasquale Travisano che nominava suo procuratore il Dottor Don Nicola Belmonte, l’iscrisse sullo Squarciafogli che andava dal 1780 all’anno 1781.
        Nella Dg. II b. 636 f. 13142, nel 1781 “Atti civili del Notaio Celestino Novia di Vallata contro Evangelista Novia della stessa terra”. Nella Corte Ducale di Vallata, il 3 Marzo 1781 comparve il Notaio Celestino Novia ed espose le sue ragioni che lo portarono ad agire contro Evangelista Novia. Il fatto fu che quando suo nonno Carmine Novia fece il testamento nuncupativo in data 16 aprile 1753 nelle mani del Notaio Pagliarulo e poi trascritto da Martino Novia, lasciò suoi eredi universali i suoi due figli Evangelista e Giuseppe, suo padre. Ma, successe che suo padre Giuseppe, passando rapidamente a miglior vita, non ebbe il tempo di fare il testamento e, dopo diversi anni dalla morte del testatore Carmine Novia, suo nonno, Evangelista, suo zio si godeva tutto il patrimonio e lui non era entrato in possesso della sua quota. Pertanto, appellandosi al “Decreto di Preambolo”, chiedeva che fosse nominato coerede del nonno Carmine al 50%, per intermezzo della persona di suo padre Giuseppe deceduto e per essere immesso, per legge, nel suo patrimonio ereditario. In particolare, mostrando gli atti notarili, ricordava che il nonno con il testamento nuncupativo aveva lasciato i seguenti beni: una casa con otto membri soprani ed otto sottani in luogo detto “La Teglia”, una cantina in luogo detto San Vito, una vigna di tre tomoli più un querceto in luogo detto San Pietro, mezzo tomolo d’orto in luogo detto Santa Maria, oltre a tutta una serie di suppellettili ed un somaro. La metà di tutti questi beni ereditari spettava a lui in quanto figlio di Giuseppe ma, da quando il padre era morto Evangelista suo zio, godeva di tutto il patrimonio. Fu così che il Notaio Celestino Novia presenta il 29 Marzo del 1781 la copia del testamento nuncupativo del nonno fatto dal Notaio Pagliarulo a suo tempo nel 1753, da cui fu possibile trarne una copia per mezzo di Martino Novia, ed il giorno seguente, il 30 Marzo presso il Palazzo Ducale a Vallata porta i due testimoni che a suo tempo erano stati presenti a quell’atto nuncupativo del nonno. I due testimoni confermarono quanto esposto in precedenza dal Notaio Celestino, aggiungendo di ricordare tutto benissimo quanto disposto verbalmente da Carmine Novia al Notaio Pagliarulo. I due erano Pierfrancesco Pavese che dichiarava di avere 65 anni e che faceva il maestro barbiere, e l’altro era Giuseppe Furia di anni 59 e faceva il pizzicarolo. Seguì su entrambe le dichiarazioni la vidimazione di Palladino Giudice ed Angelo Polacchi, agente del Duca; ma, sorprendentemente, comparve anche la dichiarazione del Duca in persona che confermò che le cose erano andate proprio così come asseriva il Notaio Celestino, Firmato Don Domenicus Genuarius Gubernator. Su un altro atto, il Giudice Palladino della Ducal Corte scrisse che era bene che tutto l’incartamento si portasse a Foggia e che, per un fatto di riservatezza e segretezza della cosa,  era meglio che ci andasse un procuratore di fiducia del Notaio stesso, accompagnato da un testimone, ed una volta lì, i due dovevano portare una lettera di presentazione del Duca perché di quel caso così delicato se ne occupasse personalmente il “Patronum fisci” (=avvocato fiscale) Francesco Nicola De Dominicis che era anche l’Uditore Giudiziale della Dogana a Foggia. Così avvenne ed il giorno 8 Giugno 1781, tutto il processo stava già ala Regia Dogana, dove si presentò il procuratore del Notaio Novia, nominato da questi per la sua rinomata probità ed integrità morale, Don Francesco Sanna, visto che lui era impegnato in uffizi ed affari, con l’atto di procura firmato da lui stesso. La settimana dopo, il 15 Giugno c’era gia l’udienza ed a quella era presente Don Francesco Sanna, che riassumendo tutte le ragioni del Notaio che lo avevano indotto a quell’azione civile, aggiunse altre rivelazioni: “ il fatto è, Signor Giudice, che il Notaio Celestino è figlio di primo letto di Donna Isabella D’Errico che portò in dote a Don Giuseppe 200 ducati ed ora Don Evangelista sta non solo usufruendo di tutto il patrimonio, ma lo sta anche dissipando, pur di non farlo godere al nipote Celestino”. Pertanto il procuratore continuò, chiedendo che venissero conteggiati anche tutti gli interessi maturati da quel capitale, aggiungendo tutte le spese processuali, nonché i diritti di segreteria. Ma, il procuratore Don Francesco Sanna, forse perché istruito dal Notaio, o forse perché proprio bravo, aggiunse pure che “ a voler fare un esempio,  Don Evangelista sta compromettendo e rovinando il querceto che sta vicino alla vigna in località San Pietro, e quello, Signor Giudice, era proprio un bene dotale di Donna Isabella D’Errico, quindi prima che sia abbattuto definitivamente e prima che distrugga quei frutti che ancora produce, “Etiam quoad fructus”, glielo si tolga immediatamente, perché è intendimento suo non darlo al Notaio suo nipote”. Nel corso della causa, anche Don Evangelista presentò una procura e nominò suo procuratore Don Alessandro Sorrentino, con i due testimoni che furono Don Nicola Pali e Don Lorenzo Ippolito. Firmato Notaio Cataldo Nicola. Ma, la cosa più sorprendente di questo processo è stata la sua brevità, infatti, in data 7 Luglio 1781 il caso già viene chiuso, perché l’Avvocato ed Uditore De Dominicis accolse in pieno il “Decreto del Preambolo” presentato dal Notaio Novia, per cui lo immise immediatamente sul 50% del patrimonio del nonno, rendendolo coerede e poi mandò delle Lettere Commissionali(=ingiunzioni di pagamento) a Don Evangelista Novia a Vallata nelle quali gli fece presente che oltre a pagare tutte le spese procedurali ed i diritti di segreteria entro sei giorni dalla ricezione delle stesse, non si permettesse a vendere alcun bene, a pena di nullità dell’atto. La settimana seguente tutto fu acclarato come disposto dalla Regia Dogana.
        Nella Dg. III b. 186 f.1815, per una polizza di cambio contratta sin dal 7 Luglio 1781 da Giuseppe Spatuzzo di Trevico a favore del suo compaesano Antonio Capobianco, quest’ultimo lo denunciò presso la suddelegazione dei cambi della Regia Dogana di Foggia. L’atto della polizza di cambio(=cambiale) fu fatta davanti al Notaio Marcellino Pagliarulo della città di Trevico alla presenza dei testimoni Giovanni Petrilli ed Umberto d’Arminio. Sempre presso lo stesso notaio, fu reclamato il mancato pagamento della somma di 64 ducati e 65 grana, somma rimasta inalterata nel suo valor capitale mentre, già erano stati pagati 11 ducati e 48 grana d’interessi maturati in due anni di prestito. Con quell’atto Antonio Capobianco si recò alla presenza del Barone Girolamo Mascaro, Presidente e Governatore della Regia Dogana e davanti al suo scrivano Raffaele Guadagno il 26 Ottobre 1783, formalizzò l’atto civile contro il suo debitore, confermando che, in un primo momento, sembrava che quello fosse intenzionato a restituirgli il denaro, ma poi si rese irreperibile. Il Presidente, allora, di suo pugno scrisse che si davano 4 giorni di tempo per verificare “si verum, solverit suum debitum” la sua volontà di pagare in quella sede. Ma passarono alcuni giorni e Giovanni Spatuzzo fu considerato contumace ed in data 11 Novembre 1783 fu inviata la lettere esecutoriale (=l’atto d’esecuzione) dall’alguzzino straordinario della Regia Dogana in servizio a Trevico, Giovanni d’Addesa che, non trovandolo, l’affisse dietro la porta della sua casa alla presenza dei testimoni Angelo Salerno e Gioacchino d’Addesa. Ma, il Notaio che vidimò quell’atto, Timoteo Pagliarulo, scrisse che occorreva notificargli l’esecuzione dell’atto personalmente e così, dopo un secondo tentativo, fu rintracciato e Giovanni Spatuzzo che voleva rifiutarlo, dovette prenderne atto, alla presenza dei testimoni Euplio Sala e Rocco della Ferrara. Così, l’alguzzino straordinario Giovanni d’Addesa gli sequestrò una casa sita nella città di Trevico, nel luogo detto”Lama del Gelso” e lo comunicò alla suddelegazione dei cambi di Foggia. Ma, nonostante il sequestro fosse stato fatto da tempo, il 26 Settembre 1785, Antonio Capobianco scrisse al nuovo Presidente della Regia Dogana, Marchese Don Nilo Malena affinché fosse soddisfatto il suo debito di 65 ducati e 65 grana. Ma, ad Ottobre il Presidente scrisse che bisognava fare l’apprezzo della casa e che di quella faccenda se ne doveva interessare l’ufficiale doganale della città di Trevico con la nomina di 2 persone non sospette, poiché aveva saputo che quell’immobile valeva molto di più del suo credito e, pertanto, ordinò che tutta la somma fosse depositata presso la banca della suddelegazione dei cambi a Foggia, per verificare altri ed eventuali debiti contratti da Giovanni Spatuzzo.
        Nella Dg. I b. 177 f.4177 il 15 Ottobre 1781 si recarono a Foggia i fratelli Vincenzo e Platone di Netta di Vallata(=quest’ultimo era il padre del Venerabile Vito di Netta) per potersi iscrivere come locati della Regia Dogana, con preferenza per la locazione di Vallecannella, impegnandosi a farlo “in perpetuum”, con una professazione di 100 pecore reali fisse. Il Presidente Don Filippo Mazzocchi ed il Giudice Palladino, chiesero ai due scrivani del Real Patrimonio di verificare se già risultasse qualcuno con il loro nome in una delle 23 locazioni. I due scrivani Marasco e Quattrocchi scrissero: “ proprio nella locazione di Vallecannella c’è un Dottor Fisico che si chiama Don Felice di Netta di Vallata che paga la fida da diversi anni per 30 pecore reali, ma non c’è parentela tra loro”. Poi, comparve un certificato del Comune di Vallata, con il suggello del Notaio Andrea Sauro, che così riportava : ” si attesta che i Fratelli Platone e Vincenzo di Netta sono regolarmente iscritti nel  libro dei conteggi di questa Università e concesso dalla Sommaria con 312 pecore che pascolano sugli erbaggi di questo distretto” così, come  attestato anche dal Sindaco Mag.co Don Nicola Patetta, capo eletto Don Pasquale di Netta, eletto Francesco Saverio Cirillo, eletto Giuseppe Cautillo, eletto Angelo Calascio. Così, il Presidente della Regia Dogana Don Filippo Mazzocchi, dopo aver preso visione dell’atto di procura dei fratelli di Netta fatto a favore del Dottor Don Nicola Belmonte nominato a svolgere tutte le funzioni in loco per loro conto, firmato davanti al Notaio Andrea Sauro ed ai due testimoni Mag.co Don Nicolò Pelosi e Mag.co Don Domenico Pelosi, concesse loro l’autorizzazione ad iscriversi nello Squarciafogli del 1781 che andava verso il 1782.

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