Comunità di Vallata tra Chiesa Madre, Cappellanie e Regia Dogana - Sergio Pelosi — S.E. Cav. Don Bartolomeo.

Capitolo VII
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7.2 S.E. Cav. Don Bartolomeo.

        Questi fu il 3° figlio del Mag.co Dottor Don Carmine nato a Vallata il 29 Gennaio 1770 e battezzato il 6 Maggio dello stesso anno. Gli fu dato un secondo nome, Andrea ed un terzo, Vincenzo. In occasione del sacramento del battesimo che si svolse nella Chiesa Madre di San Bartolomeo, il padrino fu il Marchese di Trevico e Conte di Potenza che inviò la procura tramite il suo agente: “Patrinus fuit Joseph Nicolaus Bartilomo civitatis Gravinae Agens Ecc.mi Ducis Trevici ”. Sua madre, Donna Caterina Patetta, aveva già tentato di aver, per ben due volte, un piccolo Bartolomeo, una prima volta il 1° Giugno 1760, battezzato con il secondo nome di Vincenzo i cui compari furono il Dottor fisico don Joseph Alvino di Andretta ed il Dottor fisico Don Gaetano Mirabelli di Vallata, ed una seconda volta il 31 Dicembre 1763 al cui nome Bartolomeo furono aggiunti quelli di Antonio, Vincenzo, in cui cambiarono soltanto i testimoni che furono il Dottor Don Gaetano Mirabelli e sua moglie Donna Rosaria Testa di Frigento  ma, a quei tempi, la mortalità infantile era assai alta e così, dopo quei due tentativi andati a vuoto, arrivò prima Giuseppe e poi nel 1770 Don Bartolomeo. Quando suo padre morì ad Agosto del 1782, Bartolomeo era ancora minorenne come peraltro il fratello Giuseppe che frequentava il Seminario ad Avellino e la loro madre Donna Caterina Patetta fu la loro tutrice. Alla fine di quell’anno presso la Regia Dogana di Foggia, a pagare la professazione degli animali, si recò il Mag.co Don Michele Rinaldi di Ascoli, amico di famiglia e nipote del canonico Don Ottavio che era stato l’affittuario della “Grancia della S.S. Incoronata” e lo fece per tre anni consecutivi, fino al 1785, quando comparve il fratello maggiore di Don Bartolomeo, il Mag.co notar Michael Pelosi che pagò la fida per tutti gli anni che seguirono fino alla fine del sistema feudale avvenuta nel 1806. Essendo poi, ancora aperta la successione aperta dal testamento del padre, la fida a Foggia fu sempre pagata con la dizione Don Carmine  Pelosi, e solo dall’anno dopo il 1808, comparve, sia pur per pochi anni, Don Bartolomeo, ormai maggiorenne, ma già sposato e con un figlio di nome Carmine. Dal 1819 in poi, così come apparve nell’Archivio di Stato di Foggia, nel Fondo del Tavoliere, e per il tempo che si produssero le domande di censuazione ed affrancamento delle terre del Tavoliere, i diritti fin li acquisiti furono passati tutti a nome del figlio di Don Bartolomeo, il Dottore in Legge Don Carmine Pelosi. Nei documenti che Don Bartolomeo produsse, prima con il fratello Michele e poi da solo, dando le generalità si definiva “unico erede di Don Carmine nobile ed antico locato della Dogana”, e mai comparve il fratello Giuseppe che lasciò che il fratello minore si dedicasse a quelle attività, mentre lui era attento all’evolversi della situazione sul fronte locale. Don Michele e Don Bartolomeo sempre esercitarono quel vecchio diritto di pascolamento con i loro animali sopra i ristori dei demani di Candela, in Località Piano dei Morti, ma anche su quelli che da Ascoli andavano verso Rocchetta ed Melfi.
        Suo padre, il Mag.co U.J.D Don Carmine, in punto di morte, diede disposizioni che divenisse almeno un dottore ma, indipendentemente se lo fosse diventato o meno diventato, nel ritratto che gli fu fatto, in occasione del conferimento del titolo di Sua Eccellenza Cavaliere, in cui fu insignito dal Re Francesco I, venne ritratto con il con il libro delle leggi civili nella mano sinistra(Foto 25).
        Fatto sta che, dopo un consulto familiare, tra sua madre Donna Caterina ed i figli maggiori don Michele e don Giuseppe, si convenne di far sposare Bartolomeo che aveva  diciotto anni con Fortunata Pelosi, sua cugina, figlia dello zio Domenico a cui era da poco morta la  moglie ed era rimasta sola in casa. Così avvenne che i due si sposarono il 28 maggio del 1788 a Vallata nella Basilica di San Bartolomeo. I due coniugi ebbero diversi figli, il 1° fu Carmine nato il 12 Novembre 1789, seguito da Maria Luigia il 3 Dicembre 1792 ed anche in questi due battesimi i padrini furono il Marchese di Trevico Don Gerardo Loffredo e sua moglie Donna Ginevra che, stando in terra di Sant’Agata di Puglia, inviarono la delega tramite il proprio agente Signor Antonio Amato della città di Lagonegro. Esattamente la stessa cosa accadde quando nacque un’altra femmina di nome Michela, conosciuta come Donna Michelina Pelosi che sposò Don Pasquale Cataldo, dottor fisico(=medico) di Vallata il cui figlio fu Generoso, che il 3 Novembre 1870 sposò Angela Addimondi. Dal matrimonio tra il dottor Fisico Don Pasquale e Donna Michelina Pelosi, oltre a Generoso, nacque Filomena il 20 Novembre 1832, i cui testimoni furono Donna Rachele Pelosi  fu Carmine ed Angela Travisano fu Giandonato. Il sacerdote officiante fu Pater Giacintus Cataldo, dell’ex ordine dei predicatori che chiese chi avesse fatta da mammana perché era prassi appuntarlo sul registro delle nascite e, così scrisse, che fu Donna Rachele, figlia del quondam U.J.D Don Carmine Pelosi, sposata con il Dottor Michele Angrisani di Luogosano – Colle - il 12/10/1812, ad aver fatto la “mammana probata”. Dei due coniugi Don Pasquale Cataldo e Donna Michelina Pelosi, si ricorda anche quando fecero da testimoni  il 20 Ottobre 1833 a Giuseppe Batta, neonato di Don Antonio Batta ed Anna Cataldo. Tra i discendenti di Don Bartolomeo e Donna Fortunata vanno ricordati anche Nicolò,Vito, nato nel 1798, il cui nome fu scelto per ricordo dello zio ma, questi, pur essendo sposato il 17 Febbraio 1828 con Angela Addimondi, figlia di Don Angelo e Donna Caterina Batta, morì senza eredi il 16 Maggio 1849. Poi, fu la volta, dalla nascita nel 1800 di Gaetano, ma anche lui non diede origine ad alcuna discendenza e morì il 3 Settembre 1835. Finché i due figli Nicolò e Gaetano furono in vita, furono il braccio operativo di Don Bartolomeo che li aveva destinati ad occuparsi delle sue notevolissime proprietà terriere, mentre per il primogenito Carmine, si aprì una vita da studente che lo portò a divenire un “Utriusque Juris Doctor”, esattamente come i suoi avi. Dai discendenti di casa Pelosi, fu sempre ricordato come un uomo severo ed autoritario e, marchio che gli rimase per tutta la vita, fu sempre filo borbonico come suo padre, divenendo amico personale del Generale Del Carretto, Ministro di Polizia del Re di Napoli che anni addietro aveva assegnato a suo padre  Bartolomeo il titolo di Cavaliere prima e  Commendatore di Gran Croce in seguito. Don Bartolomeo, per quelle sue idee tanto filo borboniche nel 1828, anno in cui venne costituita a Vallata la “Guardia Urbana”, fu nominato Capitano, proseguendo poi quel cammino fino al grado di Generale Già il 3 Agosto 1793, per mezzo del notaio Andrea Sauro, per atto pubblico, Don Michael, suo fratello germano, lo istituì nel testamento quale erede universale e particolare in proprietà ed usufrutto; poi, grazie anche a quel matrimonio combinato in famiglia con la cugina Fortunata, Don Bartolomeo aveva aggiunto anche altre proprietà derivanti dalla suocera, Donna Nicoletta Ippolito, riunendo le proprietà di Maggiano in tenimento di Vallata, ma divenne proprietario di quelle che si trovavano ai due lati del Tratturo Regio, situate proprio al confine tra Candela e Rocchetta, confinanti a Sud con i terreni del Mag.co Don Antonio Ciminale e di Don Vito Ciampolillo, entrambi di Candela ed a Nord con i terreni della Cappella del Purgatorio e con i noccioleti di Don Pasquale Ippolito, noto locato della locazione di Vallecannella, la cui sorella aveva sposato Don Carlo del Sordi di Vallata.  Don Bartolomeo,  il  30 Agosto 1835, rimase vedovo di Titina e, dopo circa un mese perse anche il figlio Gaetano conosciuto con il nome di “Tanino”.
        Nel fondo “Intendenza di Capitanata –Carte Varie Vol.23/1, nella cartella N. 72, fasc. 7300 del 7 Dicembre 1808, l’Intendente del Principato Ulteriore Giacomo Mazas, scrisse a S.E. il Consigliere di Stato in qualità di Intendente di Capitanata della Provincia di Foggia, perché obbligasse Don Bartolomeo Pelosi di Vallata a sborsare la somma di ducati 24 al di lui debitore Signor Don Andrea Scelsi di Avellino, che glieli aveva prestati ed in più ordinò di calcolare gli interessi di 55 tarì per ogni ducato prestato. Non ho trovato la motivazione ufficiale per cui Don Bartolomeo chiese quei soldi a quel personaggio ma posso solo supporlo, avendo notato che altri vallatesi erano ricorsi ugualmente al suo credito per il riscatto delle terre fin lì chieste in censuazione; cioè non si erano rivolti al sistema bancario creato sul posto a Foggia, come fecero tutti gli altri locati del Tavoliere e, dal momento che fu accordata a tutti la possibilità del riscatto enfiteutico delle terre prima solo affittate, parecchi locati dovettero sborsare pronta cassa dei soldi che non avevano.
        Così, in una causa  che il sottoscritto possiede, nel 1817, quando cioè il fratello Don Michele già non c’era più da cinque anni, a testimonianza di un carattere molto belligerante, continuò le liti intraprese dal padre don Carmine e trovai che in data 17 Maggio di quell’anno, nominando suo procuratore il Dottor in Utroque Jure Don Giovambernardo Buontempo, dopo aver chiesto ed ottenuto il riscatto delle terre censite a pascolo già dalla fine del 1806 non solo sue, ma anche di quelle che erano dei Patetta, suoi parenti,  che non erano riusciti a riscattare, li citò perché quelli non dovevano più portare le pecore nella zona detta “Mezzana della Torretta ad Ascoli”, perché quell’antico suo diritto sia pure solo in parte allora proveniente da sua madre, ora, era tutto il suo perché l’aveva riscattato ed in quella zona adesso lui faceva pascolare 2mila e 400 pecore e quelli (si riferiva ai Patetta) ci portavano le capre, e nella sua istanza così riportò: “le due specie sono tra loro incompatibili, una rifugge i pascoli dell’altra e poi, se sono costretti a stare proprio nello stesso luogo, vengono compromessi nel sapore anche i prodotti come il latte ed i formaggi”.
        Nella b. 299 f. 383 della serie VII del Tavoliere di Puglia il 18 Maggio 1817, Don Bartolomeo fece istanza ai Regi Incaricati della Commissione del Tavoliere di Puglia, tanto in suo nome che come erede del germano Don Michele affinché, fermo restando quei due solenni istrumenti  redatti in data 20 Novembre e 31 Dicembre 1806 per i quali gli furono assegnati due carri e mezzo di terra salda a pascolo nella “Posta di Monterocilio”, secondo i quali intendeva conservare i suoi antichi diritti e censirli, vista la Legge del 13 Gennaio 1817, si dichiarò a disposizione per far valere i suoi diritti, secondo l’Articolo 12, Titolo 2° per manifestare la sua intenzione di avere una nuova censuazione di altro erbaggio, proporzionato questa volta alla quantità di animali che possedeva, definendo la censuazione dei due carri e mezzo che possedeva, “una meschinissima censuazione”. Così nella busta 346 fasc.671 del Tavoliere serie III, a seguito di quella istanza, il 19 Febbraio del 1818, il Direttore dei Ripartimenti del Tavoliere Giuseppe Gualtieri, avendo esaminato tutti gli atti che già confermavano che Don Bartolomeo era censuario del vernotico e che era effettivamente erede di suo fratello defunto Don Michele  della Posta di Monterocilio di carra due e versure quattro a pascolo, in osservanza della Legge del 13 Gennaio 1817, dispose che il Regio agrimensore Michele Barisani censisse la statonica della stessa zona, poiché a seguito della legge del 21 Maggio 1806, la statonica per l’intera locazione di Vallecannella: “appartiene alla Sacra Religione di Malta, anche se oggi n’è in possesso il Governo, perciò mi rimetto alla risoluzione dei Regi Incaricati per verificare i Reali Interessi”. I Regi Incaricati Don Gennaro Negri ed Andrea Filomarino, letta la comunicazione del Direttore interino del Tavoliere, rispose con una nota del 23 Marzo 1818 che: “ si proceda all’ultimazione dell’annuo canone per l’enunciata statonica da corrispondere a beneficio del Tavoliere di Puglia, a cui appartiene la Posta, la cui statonica  non è più ad appannaggio della Religione di Malta e l’esecuzione si commetta ai due regi agrimensori Don Amanzio Caso ed a Don Matteo Murino i quali, già conoscono il luogo e riferiscano a noi il risultato”.
         Don Bartolomeo seguiva molto attentamente l’evolversi della situazione, sapeva che il sistema feudale era venuto meno sin dal 1806 e che i Francesi gli avevano dato un colpo definitivo e, nonostante nel 1815 fossero ritornati i Borboni, di cui lui fu sempre un nostalgico, si rese conto che le riforme intraprese andavano avanti e lui seguì l’evolversi delle cose, purché quegli antichi privilegi fossero sanciti come stabili proprietà e questa fu la risposta ufficiale che ricevette dalla la Giunta del Tavoliere: “ci complimentiamo con lei, perché la statonica(=erba estiva) dell’intera locazione di Vallecannella è sempre appartenuta alla Sagra Religione di Malta, ma con la Legge del 21 Maggio 1806, è l’attuale Governo che deve prendere in esame questa sua richiesta perché questo è un modo corretto per portare vantaggio gli Interessi Reali”.
        Anche nella Serie 1a N.215 della Dg. II, a Settembre del 1817 vi fu un altro riferimento a Don Bartolomeo che chiese alla Commissione della Regia Dogana che si stabilisse una volta per sempre di non essere disturbato sopra i riposi ed i ristori stabiliti nei demani comunali di Candela, e dopo qualche giorno, il dott. Andrea Filomarino il 18 Novembre sancisce nel relativo atto: “ Non si rechi alcuna molestia agli armenti di Don Bartolomeo Pelosi nell’esercizio dei suoi antichi diritti “. E che fosse molto contrariato nell’esercizio di quei diritti, lo si potette desumere anche da questo atto successivo.
        Nel 1818, in un'altra causa che l’autore possiede come ricordo di famiglia, “Don Bartolomeo Pelosi, citò il Sindaco di Candela, Pasquale Lupo”, che anche se questi non era presente all’accaduto, ma lo fece ugualmente perché ritenne che il comportamento che quel Sindaco aveva utilizzato fosse da sanzionare, perché permettendo l’intervento di alcuni legionari della Milizia Provinciale che gli impedirono l’accesso ai ristori su quei Demani Comunali detti “ I piani dei morti”, aveva, in realtà, spalleggiato alcuni torbidi cittadini, comunisti, capeggiati da un tal Potito Palmieri che utilizzò anche modi violenti pur di conseguire il fine di non permettere il pascolamento ai suoi pastori. Il termine comunista non va inteso in senso politico anche se il tema della parola è identico, qui sta ad indicare un gruppo di persone che gestivano degli animali in comunione. Ma, la cosa più grave, secondo don Bartolomeo, fu che: “abusò del proprio potere di Sindaco per interessi del tutto privati e non della collettività, perché Pasquale Lupo, ha delle terre subito dopo la strada Candela-Foggia, affianco a quelle del Reverendo Capitolo di Candela, e lì, in quelle terre demaniali del Piano dei morti voleva metterci le mani lui ed i suoi amici”. Dopo tanti carteggi la conclusione fu che Don Bartolomeo, potette pascolare su quei demani, ma per brevi periodi dell’anno, in particolare da fine Ottobre a metà Novembre secondo quello che era il disposto dell’articolo 50 del Montluber.
        Nella b. 398, f. 7405 serie IV del Tavoliere nel  1819,  giunse il momento che i Regi Incaricati  Andrea Filomarino e Gennaro Negri scrissero a Don Bartolomeo a Vallata perché sarebbero andati i due agrimensori per la perizia a cui lui tanto teneva e sulla comunicazione scrissero:”  I due periti Don Ascenzio Caso e Don Matteo Murino verranno, per le valutazione del canone della Statonica della Posta di Monterocilo in locazione di Vallecannella spettante al Tavoliere in luogo della Religione di Malta, a sue spese che ne chiede la censuazione e dopo, ci diamo l’onore di consegnarle copia della loro relazione, affinché si compiaccia farci conoscere, se sulla perizia dai medesimi eseguita, abbia osservazioni a farci” . Don Bartolomeo rispose con una nota allegata all’incartamento in cui c’era scritto : “Vengano gli agrimensori sopra specificati a mie spese per ordine della commissione del Tavoliere e stimino l’annuo canone” Così, i due periti, avendo fatto il sopralluogo, tramite il loro segretario, Medoro Gamberale così scrissero nella loro relazione: ” siamo andati il giorno 13 Marzo 1819 nella Posta di Monterocilo, dove il Signor Don Bartolomeo Pelosi è censuario di carra due e versure quattro circa di terre a pascolo ed ora chiede di censire anche la statonica ed essendoci portati sopra il luogo convenuto, lì c’era il suddetto Signore che prima di incominciare l’osservazione, il medesimo ci manifestò i siti più interessanti, dandoci nel tempo stesso dei chiarimenti all’uopo onde eseguire la Perizia affidataci con ogni esattezza ed avendo percorsa l’intiera estensione di detto territorio ed acquisita la conoscenza del medesimo che è di natura montuoso e pietroso, abbiamo stimato essere suscettibile a sostenere 5 pezzi d’animali grossi per ogni carro che alla ragione di grana venti per ogni pezzo, il canone ammonta a carlini dieci per ogni carro. Questo è quanto dovevamo in adempimento del nostro lavoro”. Questa relazione fu inviata al Presidente della G.C. de’ Conti, Don Gennaro Negri, Regio Incaricato del Tavoliere ed inviata per conoscenza al Regio Giudice del Circondario  Michelangelo Zorzi, oltre che al diretto interessato a Vallata.
        Così il Ripartimento delle censuazione del Tavoliere(b. 475, f.1319 del 1820), gli concesse quella censuazione della terre a pascolo, tenendo presente che alle sue, bisognava aggiungere quelle provenienti dal fratello defunto Don Michele, come mostravano i due atti notarili di Andrea Sauro del 1793 e di Giuseppe Novia fu Celestino del 26 Febbraio 1817, entrambi del Comune di Vallata in Principato Ulteriore, e che in ottemperanza della legge del 13 Gennaio 1817, come aveva deciso anche il Razionale, il canone stabilito doveva essere pagato in due soluzioni : entro il 15 Maggio ed entro la fine di Novembre di ciascun anno, sopra la censuazione di 2 carri, 6 versure e 15 catene dell’erbaggio vernotico. Di fronte ad una domanda di Don Bartolomeo di voler censire anche quelle del defunto fratello Michele, il Razionale Giovambattista Corradi certificò che quando furono stipulati solennemente i due contratti di censuazione per istrumento del Notar Vincenzo Iorio di Napoli in data 20 Novembre e 31 Dicembre 1806, risultava che Don Michele Pelosi aveva solo 14 versure, catene 28 e quattro/quinti, al canone di ducati 29 e 03, le quali, unite all’estensione di terre di Don Bartolomeo, ammontava ora a “carri 2, versure 7 e catene 07 al canone annuo di 140 ducati e 050”. Allora, i Regi Incaricati del Tavoliere Gennaro Negri ed Andrea Filomarino, visti tutti gli atti, l’allegato certificato del Razionale che fece i calcoli, vista la domanda di don Bartolomeo Pelosi che si dichiarava disponibile ai pagamenti in due volte l’anno, stabilirono in data 9 Marzo 1820 che si potesse fare l’istrumento per mano del Regio Notar Certificatore don Giovanni de Marino di Napoli.
        Nella b. 288, f.267, del Tavoliere nel 1827, Don Bartolomeo, come capoposta di Monterocilio, assieme a Giovandonato Travisano, Giovanni Netta, tutti possessori di armenti, chiesero di avere l’assegnazione di pascoli adeguati alle esigenze dei loro animali, preferibilmente nella locazione di Torrealemanna, poiché le carra di territorio avute a Monterocilo erano del tutto inadeguate, ed in particolare, lui già prima della censuazione aveva duemilaquattrocento animali pecorini e caprini, oltre a duecento altri animali vaccini e giumentini, come ebbe già modo di esporre all’incaricato del signor Duca della Torre che era l’ex feudatario Marulli di Ascoli, a cui fu concesso la responsabilità dei Demani del Tavoliere. Pertanto, in data 26 Marzo 1827, Don Bartolomeo, fece un’istanza formale all’Incaricato Dott. Prudente Negri, che era il funzionario dell’esecuzione della Legge sul Tavoliere di Puglia, nella quale scriveva:” Io, Cavaliere di Gran Croce, Don Bartolomeo Pelosi di Vallata in Principato d’Ultra, tanto nel mio  proprio nome che come erede del fu don Michele mio fratello, entrambi figli del fu U.J.D Don Carmine, Locati della Dogana di Foggia, espongo che procedutosi alla censuazione del Tavoliere, come antichi locati e possessori di armenti, fu a noi censita, in locazione di Vallecannella, in capoposta di Monterocilio, l’estensione di circa due carra e mezzo di territorio saldo addetto al pascolo, pur essendo tutta la Posta estesa per carra quattro, divisa tra i Signori Giovanni Netta e Donato Travisano. Questo terreno è del tutto deteriorato ed incapace di sostenere tutti i nostri animali, tant’è vero che abbiamo avuto bisogno di provvedere a procurarci altra erba per il loro mantenimento, eppure, già prima della censuazione io l’ho fatto presente, i due carra e mezzo di territorio erano insufficienti e venne l’incaricato del Duca della Torre a verificare se c’erano quei 2400 animali pecorini e caprini oltre a 200 tra vacche e giumente. Ora, sapendo che ogni vacca si eguaglia a dieci pecore, tutti gli animali da me posseduti equivalgono a più di quattromila pecorini e, quindi, quell’estensione di terreno non è proporzionato ad essi ed ecco perché, E.V., chiedo una maggior estensione di territorio saldo a pascolo o una capo Posta nella Locazione di Vallecannella, oppure nella locazione di Torrealemanna, possibilmente nel luogo detto”La Posta di Ragucci“, affinché possa stare più prossimo a  Monterocilo,  sia io che gli altri miei due amici censuari”. Infatti, in quella Posta di Ragucci a Torrealemanna in Locazione di Cornito, Don Bartolomeo ed i suoi amici di Vallata  avevano vecchi amici come Don Vincenzo Gentile e Don Giovanni Di Pirro di Pescasseroli , Vit’Antonio Graziani di Villetta Barrea e Don Ferdinando Spagnoletti di Andria, tutti incasati in quella Posta.
        Dopo pochi  giorni, tutti e tre furono chiamati per l’assegnazione di altre terre(busta 288 fasc.252 del Tavoliere), ma quel giorno, al posto di Giovandonato Travisano, figlio di Domenico si presentò lo zio sacerdote Don Nicola e tutti e tre, che già vantavano in quella Posta, carra 4.17.43, in parte in censuazione ed in parte in transazione, ebbero in totale carra 9.11.8, dopo aver fatto un altro esposto più dettagliato nel quale dissero: ”la censuazione di quella Posta di Monterocilo, da sempre ci diede il diritto a pascolare sul Demanio di Candela, ma anche sul riposo laterale al Regio Tratturo che passa lungo la tenuta del Comune medesimo, ma noi potevano pascolare anche sulle terre di portata della Masseria di San Mercurio ma, ultimamente il possessore le affrancò e ci precluse il pascolo; così avevano pure il diritto di pascere nella vicina Mezzanella di Cirillo, la quale è stata sempre incorporata in questa locazione, ma oggi, trovandosi nelle mani degli eredi di Giuseppe Rosario, è stata scandalosamente ridotta a coltura, con sommo pregiudizio dei ricorrenti. E, questa situazione si verificò già da 4 anni, ed oggi, cosa ancor più grave, hanno avuto l’ardimento di dissodare buona porzione di detto Tratturo, riducendolo a coltura, privando così le greggi dal godimento del piccolo riposo a quello laterale, senza considerare che noi possessori di armenti, mercé l’uso degli additati pascoli, siamo più che mai gravati sull’imposta del canone e del peso fondiario”. E, chiedendo la censuazione di altre terre a Torre Alemanna, finirono il loro esposto con questa aggiunta di Don Bartolomeo:  ” Ecc.mo Signor Duca della Torre, qualora per l’anno prossimo le cose staranno ancora così, molti possessori di pecore si vedranno costretti a portare i loro animali al macello e non so se questo convenga ai Reali Interessi. Tanto Supplichiamo e speriamo, con la certezza che  l’avremo, ut Deus.”
        Da altri documenti in mio possesso, Don Bartolomeo Pelosi era in collegamento con il barone Zezza ed il figlio che ebbe modo più volte modo di incontrare sia nella loro Masseria dei Lagni a Cerignola che nella vicina locazione di Salsola ed in particolare li incontrò nel 1808 a quello che divenne poi un incontro fisso dei locati, cioè la Fiera Agricola e Zootecnica di Foggia che si tiene ancor oggi in Primavera.  Non furono rari i casi in cui sia Travisano Giandonato e lo zio Domenico, sia Giovanni Di Netta ed il figlio, affidarono a don Bartolomeo le proprie greggi, che lui come capoposta, dietro compenso, subaffittava ad altri locati o capicollettiva di affittuari, come, ad esempio a don Alessandro Monaco ed ad Alessandro la Quaglia entrambi di Vallata. Poi, il 19 Dicembre 1826 alla presenza dell’Ill.mo Signor Doganiere Nolli ed al Duca D’Ascoli Marulli, Don Bartolomeo ebbe l’assegnazione di quei terreni che aveva chiesto da anni in censuazione per il pascolo ed accordata dalla Regia Corte con l’iscrizione sul Borderò del credito ipotecario risultante da un atto di obbligo valido anche per gli eredi, stipulato dal Notar Vincenzo Iorio di Napoli, che per quell’occasione stava stipulando nella città di Foggia. In quella occasione, nell’atto comparvero 4 cartine topografiche dove comparvero a Nord-Est, i terreni della Regia Corte, ad Ovest c’era la Masseria degli eredi di Giuseppe Rosario di Ascoli ed  a Sud c’era il saldo di Monterocilio.
        Quell’antico complesso di Torre Alemanna tanto richiesto dai locati di Vallata, era un sito posto a 18 Km da Cerignola, sulla strada per Candela, oggi inserito nella frazione rurale di Borgo Libertà e dal 1951, di proprietà dell’Ente Regionale per lo Sviluppo Agricolo della Regione Puglia. Il nome di Torre Alemanna, citato per la prima volta in un documento della metà del XIV secolo, derivava da una possente struttura a pianta quadrangolare alta 24 metri edificata dai Cavalieri dell’Ordine religioso-militare dei Teutonici(=Alemanni) di Gerusalemme, che ne entrarono in possesso per effetto di acquisti e donazioni di cui la più cospicua dovuta a Federico II di Svevia. Quei Teutonici la detennero fino al 1483, fino a quando gli fu sottratta dalla Chiesa, che tramite alcuni cardinali che si servirono di alcuni procuratori, ne gestirono sia il complesso che l’Azienda agricola pastorale annessa, finché non fu incamerato nel 1789 dal Fisco Regio ed affittato ai locati del Tavoliere .
        Don Bartolomeo come tutti i facoltosi proprietari terrieri e locati dell’epoca commerciava in prodotti agricoli principalmente con il territorio della Capitanata, ed ogni anno si recava a Foggia anche per l’altra Fiera Zootecnica, quella di Santa Caterina che si svolgeva in Novembre, dove aveva modo di scegliere bestiame selezionato e vendere formaggio pecorino,  servendosi dei suoi due fiduciari Rocco Cirillo e Bartolomeo Negro che aiutavano anche gli eredi di Mauro di Gennaro, vecchio conoscente di casa sua, la cui attività era stata trasmessa ai suoi eredi che l’avevano ampliata anche con l’acquisto e la vendita di formaggi con l’Abruzzo, attività sapientemente indirizzata dal Don Pasquale di Gennaro che a Vallata il 21 Settembre 1811 fece da testimone a Carmine Pelosi, figlio di Don Bartolomeo,  che in quella data convolò a nozze con Donna Maria Caterina Gallicchio.
        Quell’occasione della Fiera di Santa Caterina era per lui, come per tanti altri locati del Tavoliere l’opportunità di pagare quanto dovuto al Regio Fisco per la locazione dei terreni.  La Fiera a Foggia era il momento più importante e culminante  per il vasto mondo legato all’industria armentizia, durante il quale si procedeva alla commercializzazione della produzione, con la vendita della lana, dei formaggi, delle carni e degli altri prodotti dell’allevamento anche meno importanti come il pellame e le interiora. Erano i giorni della Fiera, durante la quale convenivano a Foggia i locati della Dogana, cioè i proprietari delle greggi e gli acquirenti dell’industria lanaria e quelli interessati alla produzione casearia e delle carni provenienti da ogni parte del Regno e dall’Italia. Come riferito da Vitulli27, fu calcolato che il prodotto lordo che ogni anno proveniva dal commercio lanario, lattiero-caseario e delle carni si aggirasse mediamente nel secolo XVIII, in 500 mila ducati. La Fiera così concepita nel periodo Aragonese durò per 400 anni ininterrottamente, fino all’unificazione dell’Italia, anche se il 25 Febbraio 1806 fu già una data fatale per Foggia, l’abolizione della Mena delle pecore, e la fine della transumanza. Con questa legge si affrancava l’immensa proprietà della Dogana, vendendola ai Locati o comunque ai miglior offerenti, annullando così quella che potremmo definire la ”ragion pastorale”, modificando profondamente la struttura agraria del territorio, specie per quanto attenne il rapporto pastorizia-agricoltura, a favore di quest’ultima. Ma fu l’unificazione d’Italia con la cessazione della Dogana delle Pecore a dare il colpo di grazia a Foggia ed alla sua provincia che come Napoli subì la perdita di un ruolo particolarissimo che la città aveva avuto fra le province del Regno borbonico, per la traumatica caduta del secolare legame e dipendenza con Napoli Capitale.
        Fin quando Don Bartolomeo fu in vita, ogni anno, per consuetudine acquisita, andava a Foggia dove aveva modo di incontrare vari amici e convenuti per gli stessi motivi ed in particolare era in consolidati rapporti con Don Lorenzo Filiasi perché a lui forniva nei pressi della Chiesa di San Pasquale a Foggia, dove aveva un grande magazzino, i formaggi pecorini e pellami derivanti dalle sue greggi al pascolo, ma quella attività Don Lorenzo la praticò fino al 1797, anno in cui divenne Marchese.
        E’ doveroso ricordare che Don Lorenzo Filiasi, il 25 Giugno 1797 a Foggia, al Palazzo della Dogana delle pecore, in occasione delle nozze tra il Principe ereditario Francesco II di Borbone e la principessa Maria Clementina d’Austria, aveva speso molto del suo tempo per organizzare quell’evento e donò anche 1000 ducati e per quei suoi servigi Don Lorenzo fu nominato Marchese con Diploma del 5 Agosto 1797 e, dai nobili dell’epoca, in senso dispregiativo, per rimarcare il suo vecchio lavoro, fu ribattezzato come “Il Marchese dei Caciocavalli”.
        Alla fine del XVIII secolo, la Dogana di Foggia già visse gli ultimi anni della sua vita in modo disordinato sia per gli abusi crescenti, sia per la recrudescenza del brigantaggio che per l’instabilità del governo centrale. A quei tempi il Tavoliere di Puglia era da considerare una vera e propria terra di frontiera ed il Re Ferdinando nel 1804 diede avvio ad un progetto di riforma attraverso la censuazione e, nell’anno successivo, concedette l’affrancazione dei canoni al 4% sulle terre demaniali poste a cultura. Nel 1806, con i Francesi, la Dogana venne soppressa ed il 21 Maggio venne istituita l’Intendenza di Capitanata ed il 1° Settembre venne decretata la divisione di tutte le terre demaniali, baronali, ecclesiastiche e comunali con la loro concessione in affitto, dietro corresponsione di un canone annuo(=estaglio) e di una tassa detta “ di entratura”. Ma, quello che può sembrare facile ai tempi d’oggi, non lo era affatto per quei tempi, in cui pagare un canone d’affitto o una tassa diventava per dei poveri contadini un problema insormontabile. Morale della storia, i principali beneficiari di quelle riforme volute dai Francesi, furono soprattutto quelli che già detenevano quei terreni per qualsivoglia titolo e, quindi, ne approfittarono quelli che erano i locati più benestanti come Don Bartolomeo e compagni che avevano seguito i loro padri in tutte quelle operazioni di censuazione e che avevano ereditato la cultura dominante dell’epoca e le conoscenze che gli servivano per tenere sotto controllo tutti quei terreni che erano appartenuti alla Regia Corte, ben conosciute e che detenevano con documentazioni notarili comprovanti il possesso, l’enfiteusi e quant’altro poteva servirgli per divenirne proprietari. Quando il controllo della procedura di divisione delle terre fu affidato ai Consigli di Intendenza, i Comuni non poterono far altro che provvedere ad assegnare solo piccole quote ai poveri contadini che ne facevano richiesta, e questo proprio perché la maggior parte era già tutta di fatto assegnata ai vecchi ed antichi locati del Tavoliere.
        Nel 1806, quando Giuseppe Bonaparte s’insediò sul trono di Napoli, iniziò subito l’opera rinnovatrice che lasciò segni profondi nella società dell’epoca e questa durò per tutto il decennio successivo, determinando un turbamento generalizzato in tutti gli strati della società, come spesso avvenne in occasioni di nuove occupazioni militari, ma la fine del feudalesimo avvenne proprio allora, nel 1806, e la proprietà fu assoggettata ai Regi tributi che dovettero essere pagati (=professati) dai detentori di tutte le terre, comprese quelle dei Signori Feudatari che l’avevano ricevute solo per “Grazia Sovrana”. Molteplici furono le opere di riforme civili, grazie a quelli che potremmo definire i figli della Rivoluzione Francese e quando tornò al trono di Napoli, dopo dieci anni, Ferdinando IV che da quel momento si chiamò Ferdinando I delle Due Sicilie, fece rimpiangere il periodo luminoso del decennio napoleonico: iniziò il lungo periodo delle persecuzioni poliziesche, dei sospetti e delle crudeltà da tutte le parti, il tutto condito da una serie di sette carbonare di cui era pieno anche il territorio Irpino dell’epoca. Per poter rimpinguare le casse e pagare i debiti contratti in esilio, il governo borbonico introdusse tutta una serie di eccessivi oneri posti a carico dei censuari, provocando un crescente  malcontento e facendo ricadere l’intera economia in una gravissima crisi economica. Dopo la Restaurazione borbonica avvenuta nel 1815, Ferdinando I re di Napoli, ridusse a 4 le Locazioni ed aumentò comunque la pressione fiscale sui censuari, e l’aria di crisi del comparto agricolo  e non solo, continuò per anni. Molti ex Feudatari, pieni di tasse da pagare, furono costretti a svendere le proprietà. Nel 1828, essendosi costituita a Vallata la guardia urbana,  così come riportato precedentemente, Don Bartolomeo venne nominato capitano e divenne un fedelissimo dell’allora terribile ministro di Polizia del Carretto. Nella busta 1 bis fasc. 26, Carte varie del Tavoliere, Don Bartolomeo il 20 Giugno 1829 fece un ricorso al Ministero di Grazia e Giustizia contro Nicola Pennella di Candela per risolvere un suo specifico problema, ma affrontava una tematica che negli anni successivi diventò il vero rompicapo dei vari governanti che volevano cimentarsi con gli abusi e le occupazioni dei tratturi, tratturelli e bracci del Tavoliere delle Puglie. Ancor oggi, al 3° piano degli Uffici Statali di Foggia esiste l’Ufficio della Reintegra tratturi della Regione Puglia ed i problemi dei frontisti che hanno occupato i tratturi, fino a farli scomparire, con tutta la problematica connessa  alle vendite abusive di quegli appezzamenti, è un problema di difficile risoluzione. Così Don Bartolomeo facendo il suo ricorso, scrisse che Nicola Pennella occupò abusivamente dei fondi che invece appartenevano al Regio Tratturo, ricorrendo a maniere violente e lo aveva fatto in modo da rendergli difficile l’accesso ai suoi fondi che dal Piano dei Morti di Candela salivano fin su verso la Posta di Monterocilo in tenimento di Ascoli, dove lui passava con le pecore per poter ritornare all’Ovile dove aveva pure costruito un “Casone di Fabbrica” ed aveva migliorato la condizione generale dei terreni rendendoli coltivabili, dopo aver dissodato quelle carra di terra che aveva avuto in concessione dalla Regia Dogana, come antico locato di quella Locazione. Intervenne così la forza pubblica, ma gli abusi in quella zona e non solo, si moltiplicarono ed il problema divenne di carattere politico e sociale, interamente ereditato dal successivo Regno d’Italia.
        Così, nel Consiglio d’Intendenza, Processi II Camera, busta 68 fasc. 2236 comparve un giudizio tra ” Il Signor Cav.re Don Bartolomeo Pelosi di Vallata contro il Comune di Minervino”, presso la Presidenza del Consiglio di Intendenza di Capitanata il 1° Settembre 1840 . Don Bartolomeo Pelosi, il 31 agosto di quell’anno si recò a Foggia nello studio dell’Avvocato Raffaele Petrone e così scrisse : “ Gentilissimo Signor Don Raffaele, avendo domani mattina una causa presso questo Consiglio d’Intendenza tra me ed il Comune di Minervino per la pretesa tassa fondiaria delle Murge, non potendo personalmente qui trattenermi, la prego di accettare il presente “Mandato di Procura”, in forza del quale Ella sarà compiacente sostenere quelle ragioni che mi portano a rigettare questo atto”. L’Avvocato Petrone 1° Settembre porta la procura con sé, registra la causa nel libro 2° volume 59, foglio 92 ed alle 11.30 viene chiamato dal Presidente Gabrielli a discutere le ragioni e così viene messo agli atti  “ Io qui sottoscritto Avvocato e Procuratore Raffaele Petrone del Signor Cavalier Don Bartolomeo Pelosi, censuario domiciliato in Vallata espongo quanto appresso: “ Fin dal 6 di Agosto ultimo scorso fu spedita coazione dal Cassiere Comunale di Minervino Murge Sig. Zanni, vistata da quel Sindaco per conseguire, a titolo di Tassa di rimborso, la Cartella Fondiaria sul riposo delle Murge di quel Demanio Comunale, per la somma di ducati due e grana trentaquattro in Vallata, ma non fu eseguita la notifica come si evince dall’atto in copia, mandato in quella data, né poteva essere quindi, essere pagato l’usciere di questo Regio Uffizio, che in quel giorno era il Signor Giuseppe Rizzo, perché quello era un atto contro Don Michele Pelosi da tempo deceduto. Il giorno 27 Agosto, Don Bartolomeo, erede del fratello, quondam Don Michele, ha prodotto atto di debita opposizione consegnandolo all’usciere suddetto e si analizzò con essa la ragione della sua difesa”. L’avvocato Raffaele Petrone, fu invitato per il giorno seguente 2 Settembre a presentare le ragioni per cui si rigettava quell’atto da parte del suo cliente e così continuò quell’opposizione: “sia valutata con saggezza da questo Consiglio l’opportunità di procedere alla riscossione di quella cartella fondiaria, perché le pecore lì non sono mai più andate a pascolare da quando morì Don Michele Pelosi, poi allego l’atto originale non notificato e, secondo me, questo è un vizio procedurale e, poi concludo che ho saputo che il Sindaco di Minervino di queste lettere in giro ad altri censuari ne ha mandate moltissime ma io non ho visto comparire nessuno, nel termine legale, innanzi a questo Consiglio d’Intendenza di Capitanata, al contrario il mio cliente lo ha fatto e questo va pure tenuto in conto”. La sentenza fu positiva per Don Bartolomeo ed annullata la coazione, mentre fu condannato il Comune di Minervino alle spese di lite ed al pagamento delle comparse dell’Avv. Raffaele Petrone in Foggia sia per il giorno 1 e per  il 2 Settembre 1840.
        Poi, in un articolo di Caruso28 , ho trovato che Don Bartolomeo Pelosi apparteneva al corpo morale del Comune di Vallata ed un mulino di sua proprietà che si trovava in località Chiusano, gli rendeva  72 ducati annui, nonostante macinasse solo per sei mesi perché non aveva acqua perenne. Su quel fondo aveva una vigna dalla quale Don Bartolomeo ricavava del buon vino per se, per la sua famiglia e per i suoi amici, tra cui Don Vincenzo Netta, Don Generoso Cataldo ed il cugino Amato Alvino di Andretta, con i quali amava intrattenersi. Come suo padre che intratteneva rapporti con alcuni nobili dell’epoca come Don Orazio Brancia di Mirabella, il Duca d’Alessandro di Pescolanciano ed i de Rinaldo di Ascoli o con il Marchese di Trevico, anch’egli aveva buoni rapporti con Don Giorgio Doria, con la principessa di Solofra e con, il Barone Don Filippo Orsini che all’epoca aveva  tra le tante proprietà, anche il pieno titolo della tenuta di Maggiano a Vallata di 1.163 tomoli. Con la fine del sistema feudale, anche Don Filippo dovette, al pari di tanti altri feudatari, alienare alcune terreni a Maggiano che il Comune di Vallata utilizzò per accontentare i quotisti, cioè piccoli aspiranti proprietari, che pagarono sin dal 1810 un canone detto quota. A quelle quote, parteciparono pure don Bartolomeo ed altri proprietari di Vallata, dopo che molti cittadini aspiranti proprietari non riuscirono a pagare quella semplice quota. E questo fu anche il caso di Don Andrea Gallicchio che per suo figlio Biagio comperò la masseria storica dell’ex feudatario di Vallata.
        Ma le proprietà di Don Bartolomeo erano tante e per la maggior parte si estendevano da Trevico a Vallata, da Vallata ad Ascoli, da Ascoli a Rocchetta, da Rocchetta ad Aquilonia e da quest’ultima a Melfi. Al pari di suo padre, anche lui amava le armi ed i cani con i quali spesso andava a caccia nei boschi del suo amico Don Giuseppe Araneo di Melfi e stazionava per giorni nella zona del basso Ofanto per la ricerca delle beccacce. A casa di Don Giuseppe Araneo a Melfi, Don Bartolomeo conobbe sia il Principe Don Giorgio Doria, sia il Principe di Torella Giuseppe Caracciolo. Entrambi i nobili erano grandi appassionato d’agricoltura, ed in particolare Don Bartolomeo entrò nelle grazie della moglie del Principe Doria che spesso era presente nei territori del suo feudo accompagnato dalla moglie Donna Teresa Orsini, principessa di Solofra che invece possedeva grandi proprietà a Vallata, specialmente a Chiusano, dove a Sud, dopo il cosiddetto vallone, c’erano le proprietà della Signora Principessa di Solofra. Costei parlò di Don Bartolomeo al generale  Del Carretto di cui, col passar del tempo divenne grande estimatore e confidente.
        Il casato dei Doria, sin da quando ereditò il complesso feudale della zona di Melfi, Candela, Lagopesole, Atella, Rapolla etc., fondò la sua politica di sviluppo sul massiccio incremento della cerealicoltura, attraverso l’introduzione di 2 meccanismi essenziali di conduzione delle aziende agricole: l’affitto e la colonia.
        Molti terreni incolti o adibiti a pascolo, grazie alla presenza assidua del feudatario e grazie all’aiuto di alcuni ricchi possidenti e di alcuni dei maggiori fittavoli del Principe, furono maggiormente sfruttati a cereali.
        Don Bartolomeo fu sempre un convinto filo borbonico, non abbracciò mai le idee napoleoniche e non condivise mai le idee del cugino medico Don Vito, figlio del defunto zio Nicolò che, a suo parere dava troppo spazio a tutte quelle che lui considerava idealità politiche del momento e mode passeggere.
        Dopo la Restaurazione Borbonica ed il tramonto definitivo delle tante speranze infuse dai Francesi di Gioacchino Murat, Don Bartolomeo frequentò sempre più gli ambienti vicini alla corte di Re Franceschiello e, primi tra tutti  il Colonnello siciliano Francesco Saverio  Del Carretto, dapprima commissario delle province di Salerno ed Avellino e poi Ministro di Polizia, che prima fu un carbonaro e poi, conoscendo bene chi doveva contrastare e come erano organizzate le sette dei Carbonari e dei Filadelfi, come Ministro, spesso soffocò nel sangue i moti rivoluzionari tendenti ad innalzare l’albero della libertà. In particolare, dopo la repressione dei moti del Cilento e la distruzione della città di Bosco, Del Carretto fu premiato dal Re di Napoli con la croce di Cavaliere, il titolo di Marchese e la promozione a Generale.
        Di quegli avvenimenti restò una notevole testimonianza nella rassegna risorgimentale di Luigi Settembrini.
        Così come riportato nell’atto n.45 Don Bartolomeo Pelosi morì all’età di settantanove anni,  il 6 Aprile del 1848 alle 15, nella propria casa in strada Fontana ed il triste annuncio fu dato al Comune di Vallata dai due contadini Francescantonio Gallo di 35 anni e Gaetano Crincoli di 38, entrambi vallatesi, che lo comunicarono al Sindaco Don Nicola Cataldo ed al Cancelliere Domenico Mirabelli, figlio del Dottor Don Ciriaco che già nel 1821 fu Sindaco di Vallata (Foto 26).

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