Comunità di Vallata tra Chiesa Madre, Cappellanie e Regia Dogana - Sergio Pelosi — Storia di Vallata.

Capitolo I
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1.4 Storia di Vallata.

        Molto è stato già scritto circa l’antica città di Vallata che ha risentito di una millenaria cultura Osco-Sannita lasciando tracce inconfutabili in tutta l’Irpina, ma per quanti non conoscessero tale città, questa deve il suo nome alla particolare posizione geografica, che la vede ergersi su di un’altura di quasi 900 metri, quasi fosse a guardia e a difesa delle due valli, dell’Ufita e del Calaggio. Importanti studi archeologici hanno messo in evidenza i segni e le  memorie lasciate da quelle antiche popolazioni che hanno abitato la Valle dell’Ufita, rappresentate da monete d’oro e d’argento, anfore, cippi sepolcrali, vasi di terracotta, maschere, epigrafi e tombe, lucerne, capitelli scolpiti, oltre a reperti attribuibili all’età romana, così come è apparso chiaro anche tramite quelle rinvenuti nella vicina Carife e Castel Baronia.
        Quella di Vallata è stata sempre considerata fin dai tempi dei Longobardi e dei Bizantini una terra di transizione tra le due diverse ma complementari realtà geografiche ed ambientali, quella dell’Irpinia e quella della Daunia. (Foto 7).
        Nel XIV e XV secolo il territorio di Vallata fu soggetto ad un regime feudale con esagerati inasprimenti fiscali verso i coloni considerati come lavoratori precari. I Del Balzo-Orsini, principi di Taranto, nel 1447 in Alta Irpinia contavano ben 14 feudi, tra cui la città di  Vallata che gli appartenne sin dal 1343. Un momento particolarmente significativo, Vallata lo visse alla fine del 1400 quando fu recata in dote da Isabella Del Balzo-Orsini a Federico IV d’Aragona, ultimo sovrano aragonese.
        L’insigne studioso Prof. Barra di Salerno in occasione del cinquecentenario dell’assedio ed il sacco di Vallata del 6 Maggio 1496, descrivendo la collina su cui sorse Vallata, riferì che era naturalmente difesa da profondi burroni che ne rendevano assai arduo l’accesso, sia da oriente che da occidente e che fosse un luogo ben fortificato, lo dimostrano le porte d’accesso alla città come la “Porta Rivellino”, la “Porta del Tiglio” e la “Porta di Mezzo”, così come anche le strade esterne alla vecchia pianta portavano il nome dei fossati di difesa, “Via Fossato di Levante”e “Via Fossato di Ponente”, era cioè un “castrum” naturale e strategico per quelle popolazione come le bizantine che si insediarono anche a Bovino, Ascoli Satriano, Sant’Agata e Panni.  Ma, è opportuno ricordare che a Vallata esisteva anche una strada chiamata “ Via dei Chiavennieri” e, stando all’etimologia  della parola “clavis” (= chiave, serratura) ed estendendo il concetto, i chiavennieri potrebbero indicare “coloro i quali chiudevano i passi ed i valichi ai popoli stranieri”. E così, per gli amanti di storiografia locale, emblematica fu la lotta tra Angioini ed Aragonesi che sia pur  interessando tutto il comprensorio della Baronia, vide a Vallata la carneficina peggiore della sua storia, tanto che quella fu conosciuta come  “La Battaglia del Chianchione” durante la quale la maggior parte degli abitanti furono trucidati ed orrendamente tagliati a pezzi (Chianchione= grande macelleria). La storia di quella battaglia si avvalse di tre fonti bibliografiche autorevoli e per quanto a volte discordanti tra loro, si ritenne, in modo comune, che quell’esercito veneziano che spalleggiava gli Aragonesi, era al comando del Marchese di Mantova, Francesco Gonzaga, e si distinse per l’ampio impiego degli “Stradiotti” , che utilizzavano la cavalleria, mentre 1000 erano i fanti a sostegno. Questi  guerrieri, conosciuti come i mercenari più terribili di tutta l’Europa, utilizzarono cavalli piccoli e veloci, oltre che resistenti ed adatti a tutti i terreni, provenivano prevalentemente dalla Grecia, dall’ Albania e dalle coste della Dalmazia ed avevano una spiccata attitudine ai colpi di mano ed alla guerriglia, acquisita in una lunga esperienza contro i Turchi sui fronti balcanici. I fanti erano, invece, spagnoli,  i migliori della Castiglia, chiamati  “Tercios”  che in quella zona dell’Alta Irpinia già erano conosciuti perché venuti a Trevico con Consalvo de Cordoba, Gran Capitano del Re Cattolico, adatti in battaglia per servire la cavalleria formata da picchieri e moschettieri.  Gli “Stradiotti” che espugnarono Vallata, si servirono di armi da guerra tipiche orientali, da sempre considerate micidiali, come le “Asce alabardate”, i “Mazzapicchio” ed il tipico bastone che veniva appeso all’arcione del cavallo e che utilizzavano con gran abilità: il  “Martello”, vera e propria arma bianca, utilizzato alla scocca o alla veneziana(=Bec de corbin), che nella lingua  indoeuropea, originaria di quelle truppe levantine era conosciuto con il nome di “peluk”(Foto 8).  Tutto ciò che fece parte di quella grande tragedia, come lance, alabarde, spade, assieme a tutta la simbologia classica della rievocazione della Passione di Gesù Cristo, come riferì l’Arciprete De Paola, probabilmente, da quel momento, entrarono a far parte della Processione del Venerdì Santo.  Su quei territori dell’Alta Irpinia, per secoli, oltre a popolazioni autoctone, vi furono, quindi, presenze di quelle orientali e, ad esempio, quella fu confermata dall’esistenza della Chiesa di San Giorgio crollata col terremoto del 1604. Ma, tutta la Valle Ufita è stata sempre piena di Madonne nere che testimoniano la presenza dell’antico oriente; così, in contrada Valleluogo, ad Ariano Irpino, nell’omonimo Santuario si venera una statua di madonna nera con in braccio il Gesù bambino; a Bonito nella chiesa di Maria S.S. della Neve, i bonitesi chiamano la loro madonna “la Zingarella”, per il colore scuro della sua pelle. Anche a Buonalbergo, nella provincia di Benevento, ma facente parte del bacino idrografico dell’Ufita, c’è la “Madonna della Macchia” di colore nero, tipica bizantina; a Castel Baronia, c’è la “Madonna delle Fratte” ed infine a Carpignano, contrada di Grottaminarda c’e una Madonna che è in un atteggiamento tipico bizantino di Madonna basilissa che è per tutta la valle dell’Ufita un vero faro di spiritualità. Ma, quando si parla di orientalità, viene subito in mente l’arte e la passione per i cavalli, l’uso dell’arco e delle balestre, di tutte quelle cose che da sempre hanno occupato la scena bellica in tutto il Mezzogiorno d’Italia e che fa riferimento proprio all’arma nobile per antonomasia che è la cavalleria. A tal proposito, antichi libri di zootecnia di fine 800’, inizi del 900’, come il Faelli, il Chiari ed il Manetti, concordarono nel ritenere che la situazione degli equini in Campania, vedeva al 1° posto Salerno, famosa per il cavallo Persano; ma la situazione era stata sempre eccellente anche nella provincia del Principato d’Ultra perché in quel territorio, storicamente, come riferì Caracciolo13 nel 1589, si distinsero tra i tanti feudatari che allevavano i cavalli “napoletani”(=così chiamati non in quanto originari della città di Napoli, ma del Regno di Napoli), suo cognato il Principe di S. Angelo, il Marchese di Trevico, il Duca Pignatelli, il Duca di Monteleone, il Conte di Sant’Agata il Principe d’Ascoli, il Marchese Guevara di Bovino, il Signor Conte di Conza “oggi Principe di Venosa” , il Signor Roberto Carafa di Lauro ed il Marchese di Padula Don Giovambernardino Carbone, mentre oltreconfine riportò che quei cavalli erano stati riprodotti anche dai Signori Gonzaga di Mantova e dai Farnese di Parma. Quindi, grande fu quella tradizione sull’allevamento dei cavalli e non deve meravigliare già nel 1649 il Principe Caracciolo di Torella migliorò le popolazioni equine locali, sapientemente allevate nelle Difese, con incroci con stalloni andalusi provenienti dalla Turchia. Ma, stando a quanto riferito da un altro autore appassionato di cavalli “napoletani” come Fraddosio14, già dopo l’anno 1000, vi fu una massiccia immissione di sangue orientale per via delle armate cristiane reduci dalle crociate di Palestina, ma furono gli spagnoli a mettere in atto dei programmi di miglioramento genetico di quei cavalli meridionali scambiati poi con quelli della penisola iberica.  Fatto sta che già nel 1550 nacque a Napoli la prima “Accademia Equestre d’Europa”. Dal 1730 al 1800 vi fu un periodo aureo per l’ippicoltura napoletana conosciuta in molte corti straniere e, per gli amanti di questa materia, basta ricordare alcuni soggetti razzatori di gran pregio i cui nomi sono rimasti nella memoria di diversi appassionati: Maestoso, Conversano, Neapolitano, Superbo, tutti capostipiti di razze di gran valore in tutto il mondo. Infatti, molti stalloni “napoletani” furono introdotti nelle razze prussiane, in quelle di Francia, della Danimarca e d’Ungheria ed in molti altri allevamenti della Russia come, ad esempio, quello del conte Orloff che furono i capostipiti della razza di Lipizzano, fortemente voluto dalla Casa Imperiale d’Austria per la produzione dei cosiddetti cavalli “carrozzieri” per le berline imperiali e per l’esercizio dell’alta scuola. Ma, nel principato d’Ultra oltre ai feudatari che avevano a disposizione le “Difese”, molti locati erano grandi allevatori di cavalli e di gran lignaggio e famoso fu l’allevamento di cavalli orientali di Zampaglione di Calitri e di Nannarone di Ascoli, oltre a quello dei cavalli pugliesi di Del Buono e Vinciguerra di Sant’Agata di Puglia; mentre, molti altri, erano dei veri appassionati e ne detenevano preziosi soggetti (Foto 9), come i Pelosi di Vallata, i De Guglielmo di Andretta, i Vitale di Bisaccia ed i Piccolo di Rocchetta. Quando agli Angioini si sostituirono  gli Aragonesi, in quel periodo a Vallata fu data moltissima importanza al demanio di “Mezzana delle Perazze” che era di oltre 365 ettari e trasformato in “Difesa “ed adibita all’allevamento della Regia Razza di Puglia, cioè cavalli per la corte e per l’esercito, venduti annualmente presso la Fiera di Gravina di Puglia, specializzata nel raccogliere tutti i puledri napoletani provenienti dalle zone più vocate all’allevamento dei cavalli tenuti allo stato brado o semibrado sia per aumentare la resistenza alle malattie, sia per renderli più avvezzi ai disagi della transumanza esaltandone le doti di rusticità e di fondo (Foto 10).    Non a caso, il figlio di Donna Caterina Orsini, conosciuto con il nome di Conte Andrea Matteo Acquaviva d’Aragona che ebbe un infelice matrimonio con la principessa Isabella Piccolomini, passò alla storia della zootecnia equina del mezzogiorno d’Italia, come un gran intenditore di cavalli, dotato di scienza e tecnica di allevamento che andavano ben al di là della semplice passione e fu così che il quel personaggio dell’epoca, conosciuto come il “Conte di Conversano”, seguendo quello che era stata la strada già battuta e dimostratasi valida di Re Alfonso I d’Aragona che aveva creato, sempre in quella zona, la pregiata produzione della “Cavallerizza” poi passata ai Veneziani e popolò le sue terre con giumente locali derivanti per lo più dal cavallo agricolo di origine germanica, con struttura massiccia, piede forte e straordinaria rusticità e le incrociò con stalloni dell’Andalusia di grande prestigio, e poi, a quei risultati tanto brillanti, gli diede il più bello ed il più versatile dei cavalli, l’Arabo. Ma l’opera del Conte di Conversano, non si fermò ai cavalli, ma a lui spetta anche l’origine dell’asino di Martina Franca, il più celebre del mondo; insomma, fu uno di quei feudatari che la storia non poté fare a meno di ricordare anche perché alle genti del suo feudo consentì, senza restrizioni, l’uso dei pascoli e la monta dei suoi stalloni che vivevano ovviamente, allo stato brado e, l’opera da lui intrapresa, fu portata avanti anche dai suoi successori. Intanto, nella città dell’alta Irpinia di Vallata, che faceva parte dello stesso dominio feudale degli Orsini di Gravina, c’era anche l’altra difesa feudale, conosciuta come quella della “Mezzanella” di 1076 tomoli, che era addetta al pascolo di vacche e pecore che dovevano essere sempre e comunque separate dalle prime e, quegli animali, a differenza dei primi, erano commercializzati presso l’altra fiera zootecnica specializzata in Puglia, quella di Martina Franca. Ancor oggi, queste due fiere zootecniche conservano le stesse peculiarità del passato, per cui se un allevatore alleva cavalli o vacche, sa verso quale delle due fiere dirigere la propria attenzione. Questi elementi, unitamente al transito delle greggi transumanti in Puglia ed al commercio del grano ci danno l’idea dell’importanza che avesse l’allevamento e la commercializzazione del bestiame nell’economia vallatese e la cui  antichissima fiera annuale di San Vito, specializzata per il bestiame ce ne da ulteriore conferma perché, per quell’occasione, convenivano commercianti ed allevatori dall’Arianese, dalle città limitrofe e dalla Puglia. Poi, a parte la fiera, c’era l’usanza di tenere ogni Giovedì il mercato settimanale del bestiame. Tutti quegli indizi di carattere culturale, antropologici, storici, religiosi, a cui aggiungerei anche questi di carattere zootecnici  portarono il Prof. Barra ad una possibile ipotesi sulla città di Vallata, e cioè che quella vivacità economica e quella posizione strategica di nodo stradale nevralgico determinarono l’insediamento di una piccola ma fiorente comunità ebraica specializzata nel commercio del bestiame, della lana e delle pelli, oltre che nelle consuete attività creditizie ed a quella presenza si collegherebbe la tradizione vallatese della scenografica processione che diverrebbe, quindi, un’occasione di “catechesi pubblica” proprio nei confronti degli antichi ebrei divenuti con il tempo dei cristiani novelli, convertiti e bisognosi di dimostrarlo a tutti. I riti del Venerdì Santo che interessano principalmente Vallata ed in modo minore anche Lapio, Frigento e Mirabella, vengono collegati all’esposizione dei “Misteri”, gruppi di statue di cartapesta, di grandezza più o meno naturale raffiguranti le scene della passione e morte di Cristo, le tele raffiguranti la Croce del Calvario di Gesù, le insegne romane, gli stendardi, gli strumenti vari come il calice e la croce, la lanterna, il coltello, i chiodi, la spugna ed il contenitore del fiele e dell’aceto(Foto 11), i dadi, tutti oggetti e retaggi che provengono dalle sacre rappresentazioni medievali. 
        Anche la Chiesa Madre di Vallata, dedicata a S. Bartolomeo Apostolo, oltre a confermare l’orientalità delle origini vallatesi, testimonia una grande spiritualità e devozione del popolo verso forme di vero sodalizio nei confronti dei più poveri, dei più bisognosi, oltre che dell’antichissimo culto e devozione per i defunti. Un chiaro segno furono i due sodalizi laicali esistenti a Vallata che hanno sempre visto l’adesione sia di uomini che di donne, uno dedicato alla Madonna delle Grazie, l’altro in onore del Santissimo Sacramento, a cui era annesso un ospedale dove si provvedeva alle necessità dei pellegrini e dei bisognosi. Quindi, le Associazioni laicali non servivano solo per incrementare il culto ma anche a soddisfare i bisogni sociali più immediati per coloro che ne necessitavano. Su questi valori umano-cristiani si è potuta formare la Comunità di Vallata, così ricca di valori umani, religiosi, sociali e culturali. Ad esempio, sotto Alfonso I d’Aragona il Castello di Sant’Agata di Puglia, per molti anni appartenne alla Casa Orsini e nel 1443 il Duca Francesco eresse il Convento dell’Annunziata per i frati minori francescani sui locali e sui terreni di sua proprietà e che facevano parte proprio della Chiesa dell’Annunziata e molte furono le famiglie di Vallata che entrarono a far parte di quel Capitolo ecclesiastico. Solo nel 1756 Don Carlo Loffredo, Marchese di Trevico, che da tempo mirava a divenire l’utile signore di Sant’Agata,  comperò per 36mila ducati quella Signoria dalla famiglia Orsini e, con il tempo, la scelse per meglio amministrare le sue proprietà.  Un’altra testimonianza dei valori umani esistenti a Vallata viene anche confermata dall’esistenza di un Monte Frumentario, che è una istituzione antica, nata nel XVII secolo per prestare ai contadini più poveri il grano, l’orzo e l’avena per la semina. Quest’istituzione si rivolgeva alla classe più indigente della popolazione che viveva in condizioni di pura sussistenza e non erano isolati i casi in cui, per il bisogno, era costretta a mangiare anche ciò che era stato, invece, riservato per la semina. La funzione del Monte Frumentario era quella di costituire un supporto al ciclo agrario per la qual cosa alcuni contadini partecipavano attivamente con giornate lavorative gratuite, chiamate “roadie”, in modo tale da conservare delle scorte di semi per altri contadine che ne fossero privi. Quando c’erano scorte sufficienti, una parte veniva venduta ed il denaro era utilizzato per la creazione di quello che oggi potremmo definire un “microcredito alle imprese”, cioè veniva prestato agli agricoltori per le spese di semina e di raccolta ad un tasso del 5%. In tal modo la vecchia istituzione voluta il 14 Febbraio 1694 dal Cardinal Orsini per aiutare i contadini bisognosi di sementi e per altre opere di beneficenza, fu anche un modo per arginare la vecchia piaga dell’usura nei confronti di chi, troppo povero per essere considerato solvibile, poteva facilmente rimanere vittima degli strozzini. Quando Vincenzo Maria Orsini fu nominato vescovo di Benevento, abdicò in favore del fratello Domenico che ereditò il Feudo di Gravina di Puglia, di Solofra e di Vallata, ed in tal qualità, invitò i suoi parroci ad incoraggiare ed a sostenere iniziative simili alla sua. Quando questi nel 1724 fu eletto papa con il nome di Benedetto XIII, allora ordinò a tutti i vescovi dell’Italia centro-meridionale di assecondare in ogni modo l’apertura di nuovi Monti Frumentari, stabilendone le seguenti finalità:
        1)    somministrazione degli alimenti agli agricoltori poveri
        2)    obbligo della restituzione, nei giorni del raccolto, con l’aumento del 5% sulle derrate prestate
       3)    nomina annuale da parte del parroco di uno o più amministratori obbligati, al termine dell’esercizio, al rendiconto della gestione nelle mani dell’autorità vescovile
        Ma la mancanza di garanzie, comunque impossibili da pretendere, viste le pessime condizioni economiche in cui versavano i beneficiari, misero ben presto in difficoltà il funzionamento del Monti Frumentari per frequenti insolvenze, anche di massa, specialmente nelle stagioni climaticamente più sfavorevoli. Tra alti e bassi si giunse al 1741, quando, per volere regio, i Monti del Regno delle Due Sicilie vennero affidati ad un Tribunale misto (laici e chierici) che doveva mettere ordine nella loro gestione. Ma la cura si rivelò peggiore del male in quanto, così strutturati, furono soggetti a pesanti tasse oltre che cadere nelle mani dei borghesi che ne disposero secondo i loro interessi.  La situazione dei Monti Frumentari peggiorò sempre più finché il 17 Ottobre 1781 Ferdinando IV di Borbone si vide costretto ad intervenire ordinando di fare luce su tutte le malversazioni perpetrate ai loro danni. Il re volle anche la fondazione di un Monte Frumentario del Regno con un capitale di mezzo milione da cui i contadini indigenti e residenti nelle aree depresse potessero ottenere prestiti all’interesse annuo del 3%. La nascita della Repubblica partenopea del 1799 segnò un ulteriore momento di crisi per questa iniziativa : il Monte Frumentario del Regno fu soppresso e i singoli Monti Frumentari locali finirono in balia delle autorità municipali che li svendettero a nobili e piccoli borghesi amici. Ma, dopo la restaurazione borbonica del 1815, i Monti Frumentari risorsero e fu stabilito che fossero gestiti anche da un amministratore eletto dal Consiglio Comunale. Le garanzie offerte diedero grande impulso ai Monti Frumentari, tanto che nel 1830 se ne contavano più di settecento, per lo più creati grazie all’iniziativa dei contadini stessi, a questi se ne aggiunsero 173 riaperti per il recupero dei beni di quelli soppressi ed altri 205 per la vigilia dell’unità d’Italia creati grazie ai lasciti, donazioni e con la somministrazione di frumento delle Pie Confraternite. Nel 1860 nel Regno delle due Sicilie se ne contavano oltre mille ma, dopo il 1863, i nuovi ordinamenti dell’Italia unita non solo impedirono la formazione di Nuovi Monti Frumentari, ma una legge del 1865 stabilì che queste istituzioni divenissero Opere Pie sotto la tutela delle Deputazioni Provinciali. Anche a Vallata operava questa istituzione e, vari furono i cittadini che se ne occuparono sia prima della repubblica Partenopea del 1799, come  Don Bartolomeo Pelosi, Don Nicola Cataldo, Don Michele Netta, sia dopo l’Unità d’Italia, come Francesco del Campo, Giustino Gerundo, Stanco Pasquale,  Rosati Giuseppe Nicola, Bufalo Francesco e Pavese Luigi. In particolare mi è gradito ricordare la figura del segretario comunale Don Francesco Alfonso Del Campo(Foto 12)  che, come avversario politico  di Don Gaetano Pelosi , tra il 1865 ed il 1870,  non avendo altri argomenti per manifestare tutto il suo sdegno nei confronti di colui che trovava inauditamente ricco, gli rimproverò pubblicamente sul giornale dell’epoca, la “Sentinella Irpina”, di essere “tenitore di animali alla greppia, dissipatore di beni comunali e malversatore di pubblico denaro nonché divoratore delle sostanze della Congrega di Carità”.  Ma, questi, dopo tanto sparlare e dopo una causa risolta in favore di Don Gaetano, fu condannato a 6 mesi di carcere ed alla multa di lire 900 per diffamazione, oltre ad un mese di carcere ed alla multa di lire 100 per ingiurie oltre che al pagamento dei danni alla parte civile e delle spese di lite. Ma, come spesso accade quando si dice che chi disprezza compra, Don Francesco Alfonso Del Campo, nominato Segretario Comunale a Quadrelle (AV), fece di tutto per far sposare il nipote di Don Gaetano, cioè mio nonno Andrea classe 1881, con sua nipote Carmela, mia indimenticabile nonna. Quest’ultima aveva una sola cugina, zia Carmelina Del Campo, famosissima a casa di mio nonno Andrea, perché maestra severa ed integerrima, nonché istitutrice dei suoi due ultimi figli maschi, mio zio Gaetano e mio padre Alberto. Ma, a Vallata, già si ricordava come ottima istitutrice sua zia,  Del Campo Maria Domenica che tra gli altri allievi di quella città, annoverò il mio bisnonno Carmine Antonio e suo fratello minore Vincenzo, figli di Don Gaetano e Donna Erminia Araneo. Ma, anche in epoche più recenti, la parentela con i Del Campo di Vallata continuò poiché il figlio di 2° letto di Don Vincenzo Pelosi che portava il suo stesso nome, nato il 14.11.1923 e che sposò il 30 settembre 1940 Maria Infante, era figlia di Don Antonio Del Campo In realtà, a quell’epoca, quasi tutti i matrimoni erano pilotati e non fece eccezione quello contratto tra Don Gaetano Pelosi di Vallata e Donna Erminia Araneo di Melfi che era figlia di Don Vincenzo, persona di fiducia ed amministratore del Principe Doria (Foto 13), che, con testamento olografo, già nel 1840, aveva diviso la sua immensa proprietà, situata tra Candela e Melfi e riportata nella pianta allegata (Fondo Cons. d’Intendenza II camera b. 31 bis f.1087 del 1817), ai suoi 12 figli che furono Andrea, Giovambattista il canonico, Emilio il teologo, Francesco il sacerdote, Gaetano, Enrico, Annamaria, Grazia, Teodoro, Elisabetta, Berenice suora del Monastero delle Benedettine a Melfi ed Erminia, la più piccola, ma sempre la più caritatevole e la più elegante, così come appare in uno dei suoi vestiti dell’epoca(Foto 14).  La prodigalità di Donna Erminia era molto nota a Vallata e poco le importava che sua nuora, Donna Teodora Maffia, moglie di 1° letto di suo figlio Vincenzo (Foto 15), le serbasse un malcelato spirito di ostilità che riferiva, tramite lettere documentate, in modo assai esplicito a suo padre, Don Gaetano Maffia, dottore in legge, sindaco e grande proprietario terriero ad Orsara di Puglia. Ma che Donna Erminia, moglie di Don Gaetano Pelosi fosse un amante del bel mondo e della raffinatezza dei costumi, lo si può anche desumere da quest’altra immagine (Foto 16)  in cui, una sua discendente, la dott.ssa Paola Olivero, ossia la figlia di Mirella Minervini di Vallata, indossa un abito dell’800’ di donna Erminia in cui sono evidenti tutti quei particolari che fanno desumere che il suo era un rango era quello tipico della classe dei cosiddetti “galantuomini”. Così, alle spalle della stessa foto, s’intravede un settimanile di fattura artigianale, in cui appare evidente la capacità di una maestranza artigianale locale da sempre esistita nella città Vallata e dintorni. Il primo figlio di donna Erminia e don Gaetano Pelosi, fu il mio bisnonno Carmine Antonio, Sindaco di Vallata per circa un decennio, subito dopo suo padre(Foto 17)  ed al pari di tutti i suoi antenati era un grande appassionato di armi, di caccia e di agricoltura; all’età di vent’anni sposò donna Vincenza Melchionna di Flumeri, figlia di Maria Luisa Boscero e Don Andrea Melchionna (Foto18), nota famiglia di grandi proprietari terrieri e decurioni di quella città.
        La terza figlia di don Gaetano Pelosi e Donna Erminia Araneo fu la figlia Marietta che, tanto per cambiare, ebbe un altro matrimonio preconfezionato, con Don Enrico Araneo (Foto 19) e così con quella notissima famiglia di Melfi, i rapporti divennero sempre più intensi, oltre che per le rituali feste e ricorrenze di nipoti e zii (Foto 20),  sia perché tutti, indistintamente amanti di agricoltura ed appassionati di caccia che veniva effettuata sulle sponde del basso Ofanto, sulle quelle proprietà difficilmente osservabili ad occhio nudo che si perdevano all’orizzonte.

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