Angela Cataldo - Vito Antonio Nufrio - La festa-fiera di San Vito a Vallata - Fiera di San Vito

Fiera di San Vito
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        Nel capitolo precedente si è detto della fiera che per molto tempo ha accompagnato, nei giorni 14 e 15 giugno, la festa di San Vito.
        Questa fiera, nel passato e almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, è stata un grande mercato di animali, prodotti agricoli, manufatti argillosi (questi ultimi provenienti dalla vicina Carife), manufatti in rame.
        Gli animali più venduti e richiesti erano i maiali, cresciuti con pastone, granone, ghiande, castagne. Le querce, abbondanti nella zona, si coltivavano, un tempo, non solo per la legna quanto per ricavare il cibo per gli animali e, soprattutto, per nutrire i maiali, la cui carne, trasformata in salumi, costituiva il piatto prelibato per i giorni di festa.
        Se le querce erano alte e pericolose, si rimaneva in attesa di qualche vento impetuoso, che scuotendo i rami faceva cadere le ghiande.
        E così dopo una notte di venti, le contadine prima dell'alba, con secchi e sacchette battevano tutte le strade di campagna per raccogliere ghiande.
        L'afflusso molto numeroso, dei cittadini dei paesi viciniori o lontani, avveniva sì per la fiera e per la festa, ma soprattutto per l'acquisto di vino e olio, affermatisi sui mercati per la loro genuinità.
        Per la vendita e per la compera, le famiglie aspettavano sempre la fiera. Gli animali in fiera erano sempre tenuti a cavezza, oppure venivano legati a dei paletti conficcati nel terreno. E questo serviva anche per la scelta del posto. Ma erano sempre controllati a vista. Numerosi erano i mediatori abili a fare stipulare contratti.
        Una presenza immancabile alla fiera del bestiame era quella degli zingari (cinque-sei famiglie di zingari sono presenti ancora oggi in Vallata), originariamente provenienti dal melfese (Basilicata) che animavano, per quanto riferiscono i più anziani, la fiera stessa sia con contrattazioni rapide e furbesche sia con il loro caratteristico modo di far esibire le bestie in vendita o in acquisto facendole muovere per provarne lo stato di buona salute e di efficienza per i vari usi previsti.
        Molti zingari, non di Vallata, arrivavano una decina di giorni prima della fiera e restavano altrettanto tempo dopo.
        La loro venuta metteva in allarme tutto il paese per i continui furti che si verificavano in quei giorni. Le case fin da quel momento, non potevano essere lasciate incustodite. Le galline, ricordano i vecchi contadini, non si facevano più uscire nelle vie.
        Se si mandavano a razzolare fuori casa, a sera, alla conta ne risultava sempre qualcuna in meno.
        Gli zingari prendevano alloggio o si accampavano sotto la volta di un vecchio arco d'accesso alla Chiesa Madre o in grotte o in vecchie taverne.
        Le loro masserizie erano trasportate su asini e muli, oppure su carretti trainati da cavalli.
        Tutti i loro animali erano destinati alla vendita e allo scambio, ma sempre in vista di buon guadagno.
        Tra gli zingari c'era anche chi esercitava il mestiere di ramaio, rivelando spesso di essere più bravo dei ramai locali.
        Le zingare, invece, giravano per il paese da un capo all'altro, entravano nelle case, si improvvisavano chiromanti, cercavano di ottenere o di portar via qualcosa di nascosto.
        Da quando la fiera è stata sospesa, questa particolare nota di esibizione "etnica" è del tutto scomparsa: Gli zingari residenti in Vallata si sono ormai integrati e, a parte qualche espressione linguistica originale e qualche comportamento tipico del gruppo, hanno assunto un costume di vita ben adattato all'ambiente locale, pur restando chiusi nel proprio ambito familiare e nel proprio gruppo etnico, forse per "distanza" degli altri che per loro libera scelta.
        Lungo gli anni '70 la fiera si è ridotta per concorso di persone e presenza di vari capi di bestiame anche se, per impulso della Pro-Loco, dal 1974 al 1980 si è cercato di rivitalizzarla istituendo un particolare trofeo (cinquecentomila lire) all'indirizzo dell'allevatore del "Più bel vitello da carne" (la Commissione giudicatrice prevedeva la presenza di rappresentanti del Comune, della Pro-Loco, del Comitato Festa, di veterinari, di allevatori ed anche di qualche zingaro).
        Con l'evento sismico dell"80 il successivo lungo periodo (più di un decennio) di ricostruzione, la fiera di San Vito rapidamente si è spenta (nel contempo, occorre rilevare, la collina di San Vito si è rimpicciolita per il progressivo avanzare delle strutture di urbanizzazione (campo sportivo, scuola media, case popolari, piccolo parco giochi per bambini).
        Se si volesse ripristinare la fiera tradizionale, occorrerebbe distaccarla fuori del centro abitato; ma, d'altra parte una fiera del bestiame presupporrebbe gli allevamenti significativi precedenti agli anni'50 –'60; attualmente nulla fa pensare ad una ripresa di attività in tale direzione, in una campagna sempre meno popolata e sempre meno ricca di iniziative zootecniche.
        I contadini (quelli ancora attivi, sebbene anziani) che in questi ultimi anni hanno partecipato alla "due giorni" in onore di San Vito, pur ripetendo i "gesti" della tradizione, hanno confidato una grande nostalgia per la loro l'partecipazione centrale" del passato (oggi si sentono superati, marginali) ed anche un relativo disappunto per il modo in cui le feste vengono oggi gestite, più in funzione del divertimento puro e semplice che in funzione della difesa di una tradizione locale.
        Quando la festa era anche fiera, c'era una significativa mostra di artigianato locale: aratri e utensili vari per il lavoro campestre, ceste d'ogni sorta, di vimini, o di canne, botti di rovere, manufatti argillosi a volte di notevole pregio artistico, manufatti in rame che si scavano in cucina o si tenevano esposti nella sala per ricevimenti e facevano parte del corredo delle donne.
        I più anziani ricordano anche della presenza in fiera e in festa di carrettini. e bancarelle con le "copete" (forse da cuplta: dal lat. = cose desiderate) ed altri spassatempi": le "copete" sono le antenate degli attuali torroni.
        "Copeta" era forse il dolce di sui parla Apicio nel De re coquinaria"(cap.II, par. XVI del libro IV): "Patina versatilis vice dulcis nucleos pineos, nuces fractas et purgatas, attorrebis eas, teres cum melle, pipere, liquamine, lacte, ovis, modico mero ed oleo"(prendi pinoli e noci, puliscili e abbrustoliscili, mescolali a il miele, pepe e salsa, latte, uova e poco vino puro e olio")117. Insomma, tra torrone e panforte.
        Per quanto riferisce il coordinatore del Comitato, i contadini, tuttavia, si distinguono per l'adesione emotiva e sentimentale alla festa di San Vito, vissuta da secoli, di generazione in generazione, come una festa quasi offerta alla "città" dalla "campagna".
        E ciò si constata, ancora oggi, per i doni tradizionali portati al Santo il mattino, di buon mattino, subito dopo il "canto del gallo" (rigeneratore di forze fisiche e morali), dai contadini e dalle contadine delle diverse ma ormai spopolate contrade rurali.
        Se la partecipazione non è solo adesione appariscente, è ancora questa dei contadini la forma di partecipazione più sentita, più profondamente motivata e più legata al significato identitario della comunità locale.
        Sulle bancarelle erano esposti, inoltre, illuminati dalla incerta fiammella ad acetilene, semi di melone essiccati o arrostiti, noccioline americane, nocciole con o senza guscio, lupine, carrube, ecc. che i ragazzi piluccavano con. evidente piacere.
        Il "franfellicaro" preparava al momento sul marmo bastoncini di miele e giulebbe, che tagliava a piccoli pezzi (franfeluche, dal franc.=cianfrusaglia, bazzecola e, quindi, leccornia semplice).
        Per l'acquisto della "copeta" intervenivano i genitori; questa poi, gioia dei bambini, non era facile da mangiare.
        I copetari tagliavano la "copeta" in grossi pezzi con robusti coltelli. La tradizione delle "copete" ha resistito fino ad oggi e, in verità, può essere considerata, nell'ambito delle feste religiose e popolari con fiere e mercati quasi una sagra118.
        Durante la festa i bambini e i ragazzi degustavano sorbetti preparati con ghiaccio ed essenze di frutta varie: blocchi di ghiaccio provenivano dalla vicina Trevico nel cui territorio, nella parte più alta, (oltre m. 1000) erano attive numerose neviere (una vera e propria piccola industria del ghiaccio che di notte, nei mesi caldi, a dorso di muli, veniva portato in Puglia e nell'area pianeggiante della Campania).
        Sebbene il mese di giugno, a Vallata e dintorni, non abbia fatto registrare solitamente temperature alte, il sorbetto "con ghiaccio paesano" era molto gradito e sembrava volesse annunciare un bisogno di refrigerio prima ancora che sopraggiungessero le giornate afose della piena estate.
        Nei bar di Vallata ancora oggi si preparano buoni sorbetti e gustosi gelati d'ogni genere, ma nella memoria collettiva delle generazioni meno giovani quel sorbetto in fiera-festa ha lasciato il segno: un segno di freschezza, semplicità, genuinità, tipicità e industriosità locale.
        Una nota del paesaggio montano, con le sue nevi dell'inverno trasformate in ghiaccio da distribuire d'estate in luoghi particolarmente caldi.


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117) APICIO, "De re coquinaria". La ciucina dell'antica Roma (a cura di Clotilde mesco) Scipioni. Ed. Roma, 1990, TEN, 1994, pag. 39.
118) Cfr. MARIO DE SIMONE, "I fatti del tegame". Sellino, Barra, Pratola Serra (AV), 1997, pagg. 92-93

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