Emilio Paglia - LAMPAMI E TRE - Lu pal’ (il palo)

Lu pal’
(il palo)
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        Intorno agli anni '30 Trevico era un comune popoloso perché comprendeva anche Scampitella e Vallesaccarda che si resero comuni autonomi subito dopo la seconda guerra mondiale.
        L'amministrazione comunale si reggeva con poche entrate appena sufficienti per pagare i suoi dipendenti: il segretario comunale, un impiegato all'anagrafe, un bidello che curava la pulizia degli ambienti e, nei mesi invernali, accendeva i carboni nei bracieri collocati poi negli appositi portabracieri contornati da un manufatto circolare di legno che serviva da poggiapiedi.
        Due sole guardie comunali, con tanto di berretto con le cifre dorate G.C., erano addette al servizio di vigilanza: una per il capoluogo e Scampitella, Girolamo Rossi, chiamato in paese "lu boss", appellativo riportato dagli USA ove aveva svolto funzioni di caporeparto, prestante in salute e persona fisica tanto che il dottor Rocco Luigi Lavanga di Scampitella lo riteneva esempio unico di fumatore di sigari toscani che aspirava come una sigaretta; l'altra guardia per le restanti frazioni meno popolose, nella persona di Vito Pagliarulo, reduce insignito di medaglia d'oro al valor militare nella prima guerra mondiale e che risiedeva a Vallesaccarda.
        La condotta medica era affidata al dottor Tommaso Petrilli per l'intera popolazione del comune, coadiuvato da una levatrice.
        Gli abitanti delle frazioni, per servizi in municipio, percorrevano a piedi distanze chilometriche per scorciatoie disagevoli della montagna trevicana "aspra montana terra!" e, chi poteva permetterselo, con asini e muli.
        Destavano molta curiosità, nei ragazzi, le carovane di muli provenienti da Scampitella, in corteo rumoroso sul selciato, che accompagnavano gli sposi fin sulla piazza antistante la chiesa madre.
        In luttuose situazioni, gravi erano i disagi della popolazione specialmente di Scampitella, Vallesaccarda, Serro d'Annunzio, Caprareccia e Molini che potevano servirsi solo del cimitero comunale del capoluogo.
        Allora le bare, sorrette da almeno otto persone valide che si davano il cambio, si portavano a spalla per ripide mulattiere.
        Dietro il feretro erano ricorrenti le scene di pianto cantilenante rese ancora più penose dallo sfinimento fisico provocato dai disagi per tanta strada percorsa a piedi per raggiungere la chiesa per la funzione religiosa e poi per la sepoltura nella terra cimiteriale, che avveniva in fosse rettangolari profonde sette palmi e larghe quattro.
        Per i ragazzi del paese che si passavano la voce: "Arriva lu muort’” (Arriva il morto) anche questo rappresentava un evento e correvano subito ad intrufolarsi nel corteo, da presso i familiari, per meglio ascoltare la teatralità di alcuni lamenti.
        E... in occasione della triste dipartita d'un novello sposo, la disperata vedovella, non trovava altre parole in cantilena miste al pianto dopo il lungo repertorio sciorinato durante l'interminabile e disagevole percorso e così, prima di varcare la soglia cimiteriale, l'ultimo messaggio:
        "Marit' mii!! Marit' mii!! Cu che curagg' ài lassat' la vigna senza lu pal'!!!"
        e..............strillato: "Rimm' cu che curagg'!!"
        (Marito mio, marito mio! Con che coraggio hai lasciato la vigna senza il palo. Dimmi con che coraggio!)

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