Vallata - brevi cenni storici -
Cap. I
Un Tuffo nel Passato... Remoto!

... per capire l'anima di un popolo.                     

      La regione montuosa del Sannio meridionale, cinta al sud dal corso superiore dell'Ofanto, ad ovest dal corso superiore del Calore, era abitata anticamente dagli Irpini, popolo di stirpe sannitica, il cui nome deriva da "hirpus" (lupo, sacro a Marte, dio della guerra). Adoravano l'hirpus perché credevano che nel lupo albergasse l'anima dei propri genitori e che in esso vi fossero qualità naturali superiori all'uomo stesso: la forza, la resistenza alla fame, alla stanchezza, al freddo. Il lupo è prudente, vigila di notte, ha la vista, l'odorato e l'udito sviluppatissimi, come confermano tutti i naturalisti.

      Secondo Tolomeo facevano parte dell'Irpinia: Abellinum, Aeclanum e Aquilonia; mentre Plinio attribuisce all'Irpinia anche: Aequm Tuticum, Beneventum, Caudium, Trivium, Compra e i Ligures Baebiani. Nell'ordinamento augusteo l'Irpinia fu compresa nella II regione.

      Beneventum, divenuta colonia nel 268 a. C., separerà gli Irpini dai Pentri, assicurando ai Romani una terza strada, la più breve, verso l'Apulia.

      Dopo la sconfitta di Cannes, gli Irpini defezionarono, diversamente dai Pentri, alla parte di Annibale, del che furono più volte puniti dai Romani e nel 209 a. C. dovettero sottomettersi. Forse a questo loro atteggiamento durante la seconda guerra punita si deve la presenza nel loro territorio di "ager publicus" che poté essere oggetto delle distribuzioni grattane. Ebbero parte attivissima nella guerra sociale e furono sottomessi da Silla.

      Il Sannio, invece, costituiva in origine la regione interna dell'Italia peninsulare, abitata dai Sanniti, e comprendeva le alte valli del Sangro, del Volturno, del Tiferno e del Trigno, ed anche il territorio degli Irpini e dei Caudini. La regione aveva per centro il Matese e corrispondeva alla parte orientale della Campania, al Molise ed alla sezione meridionale dell'Abruzzo. Nella divisione augustea il nome Sannio fu dato alla IV regione. Al tempo di Augusto era più estesa ed era percorsa dalla via Salaria, dalla via Valeria nella parte settentrionale, e da parecchie trasversali: due trasversali congiungenti, l'una la Salaria alla Valeria (da Antrodoco ad Alba), l'altra l'Appia alla Valeria (da Benevento a Corfinio per Sepino, Boiano, Isernia, Aufidena, Sulmona, passando ad oriente del Matese e attraversando l'attuale via delle Cinquemiglia, fra le valli del Sangro e del Ginzio); ed infine la terza trasversale che da Benevento (per Telesia ed Allife ad occidente del Matese) andava a Teano.

     In questa regione del Sannio e nelle zone limitrofe si erano stabiliti i Sanniti, antico popolo italico, appartenente al gruppo meridionale della famiglia Osco-Umbra, costituito da numerose tribù confederate e da altre appena alleate. Aveva per centri principali Aufidena (Alfedena nella provincia dell'Aquila, che conserva avanzi di mura ciclopiche e di una antichissima necropoli sannitica, corrispondente forse all'antica Aquilonia) dei sete. VI e V a. C.; Bovianum Vetus (presso Pietrabbondante nella prov. di Campobasso), che era la capitale del Sannio, distrutta da Silla; Bovianum Novum o Bovianum Un decumanorum: ricevette una colonia di veterani della XI legione Claudia, donde il suo appellativo (risorta da Bovianum Vetus, venne ancora distrutta dai Saraceni, da Federico II, nonché dai terremoti); Aesernia (Isernia); Venafrum (Venafro); Saepinum (Sepino); Alliphe (Alite); Telesia (Telese): queste ultime tre città erano situate intorno al Massiccio del Matese, il nucleo montagnoso più caratteristico e più nettamente individuato della regione. E poi Abellinum (Avellino); Aeclanum (Eclano) e Akudunnia (Lacedonia) (1).
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     (1) Dei Carecini: Aufidena, Bovianum Vetus et Novum, Tereventum (Trivento), Aesernia, Venafrum; dei Caudini: Alliphee, Caudium e Saticula (S. Agata dei Goti), Telesia, Combulteria, Tebula, Caiatia, non lontano dal Volturno; degli Irpini`. Abellinum, Aeclanum e Akudunnia.

 

     Secondo la tradizione (Strabone V, 250) i Sanniti si sarebbero staccati dai Sabini in seguito ad una "primavera sacra" e, guidati da un "toro" (ricorda questo animale sacro il nome Bovianum), sarebbero venuti nel paese degli Opici (dal gr. Opikoi, in relazione alla loro operosità), coi quali si sarebbero fusi, dando origine agli Oschi, da cui sarebbero poi derivati Campani, Lucani e Bruzi.

     I Sanniti compaiono nella storia con la discesa in Campania, chiamati o no dagli abitanti, e favoriti dal decadere della potenza etrusca dopo la seconda battaglia di Cuma (474 a. C.). La conquista di Capua è secondo Livio, (IV, 37) del 421, secondo Diodoro (XII, 31) del 438; dopo Capua, in anno non precisato, i Sanniti s'impadroniscono di Cuma (greca). Dell'occupazione di altre città non si ha notizia diretta: sono nomi sannitici certamente quello dell'antica Moera, cambiato in Abella e quello di Pompei (Pompaios).

     La popolazione avrebbe raggiunto il numero di tre milioni di abitanti, stabilitisi in una regione che si estendeva da un mare all'altro, dal Liri alle montagne lucane ed ai piani dell'Apulia, superando così nel periodo più florido, in numero di abitanti e territorio, Roma stessa.

     Sabini e Marsi furono spesso federati con i Sanniti. Ma una viva e profonda affinità venne a crearsi ben presto tra Sanniti e Irpini (meraviglioso connubio tra "toro" e "lupo"!), dando vita ad un popolo indomito e forte, che non si stancava mai di combattere il comune nemico che fu Roma. Essi formavano come una grande famiglia di gente che univa all'operosità degli Osci, la fierezza indomita del toro e la scaltrezza tenace del lupo. Il carattere "vulcanico" di questa gente risente dei movimenti tellurici della regione e dell'azione eruttiva di quella doppia linea di Vulcani estinti, fra i quali essi hanno fondato le loro colonie. Essi in ogni circostanza, felice o avversa, saranno sempre uniti come un sol uomo; del resto è noto che i migliori condottieri dell'esercito sannita furono Irpini. Fra le gole degli Appennini, essi dominavano la posizione fra quattro naturali fortezze che circondano Abellinum, con facile ritirata, attraverso valloni e torrenti, verso i tre mari: Tirreno, Ionio e Adriatico. Gente indomita e accorta, esperta nell'arte della guerra, difesa da valli e da monti, era divenuta terribile nemica di Roma: non per nulla Virgilio li aveva chiamati "... gensque virum truncis et duro robore nati". Aveva a guida della Lucumonia un capo detto Induperatore.

     Le città greche ed etrusche, e gli stessi Campani non videro mai di buon occhio l'espandersi di questi montanari invasori. In particolare gli abitanti della pianura campana, d'origine sannitica o no, venivano a trovarsi in condizioni di privilegio, rispetto a quelli dei monti: e perciò, il loro interesse a conservare e a difendere il loro benessere economico, era pari all'aspirazione dei Sanniti-Irpini dei monti, a raggiungere ed a dividere i loro bepi. Ma se inizialmente il movimento che guidò i Sannito-Irpini fu quello della conquista, comune del resto a tutti gli altri popoli, dalle guerre sannitiche, in poi, il movimento fu quello della emancipazione, servendosi dei soliti mezzi: guerra, rivoluzione, federazione, ecc.

      I Romani, con l'aiuto dei montanari Marsi e Peligni, vinsero i Campani al Vesuvio nel 340 a. C.: in questa guerra fraterna, ricorda il De Napoli, Manlio Torquato condanna a morte suo figlio per aver combattuto contro gli ordini. Severità da conservatore fanatico! Assoggettarono poi i Volsci, distruggendo la fertilità di quel paese nel 327 a. C.; ma il fatto decisivo che arresta l'espansione sannitica si compie nel 325: l'intervento dei Romani in Apulia, attraverso il passaggio liberamente concesso da Marsi, Peligni, Marrucini nei loro territori. Questi popoli (Sabelli, Marsi, Peligni e Marrucini) hanno sempre costituito il vero "tallone di Achille" della federazione sannitica, dalla quale essi stessi avrebbero potuto trovare vantaggio, dando un corso diverso alla storia. Ma purtroppo essi non hanno capito l'importanza che la federazione poteva avere nel processo storico, partendo da un movimento di base nel rispetto delle autonomie. Purtroppo la mentalità tipica dei montanari, che temono più del vicino sia pure affine, che del lontano sia pure straniero, ha fatto sì che nessuna autonomia locale, a cominciare dalle lievi particolarità dialettali, venisse sacrificata all'interesse generale. E ben presto, per paura della nuova idea federale, essi divennero inconsciamente potenti sostenitori dell'azione accentratrice romana.

     Seguendo poi la solita tattica del "divide et impera", Roma spinge Campani ed Apuli contro i Sanniti, che erano guidati dal valoroso Erennio Irpino. Il console Valerio riporta due vittorie nella Campania contro questi nuovi e formidabili nemici. Il suo collega Cornelio si lascia quasi accerchiare nelle gole del Sannio e, senza lo straordinario coraggio di Decio Mure, non avrebbe riportato altra vittoria. La Campania diviene provincia romana e sono assoggettati gli Ausoni (popolo antichissimo che, nell'età del ferro, abitava la regione dai Sanniti chiamata poi Campania), che i Latini chiamavano Osci, in relazione alla loro operosità (325 a. C.).

     Successivamente troviamo i Sanniti-Irpini, insieme a Lucani e Vestivi, che, spinti dai Tarantini (i quali avevano chiamato in aiuto anche Alessandro, re di Epiro) muovono guerra contro i Bruzi e i Romani; ma la vittoria riportata da Fabio Massimo obbliga i Sanniti a chiedere una tregua (321 a. C.).

     Una ostinata disperazione spinge i Sanniti a riorganizzare un nuovo esercito, sotto l'abile guida di Caio Ponzio l'Irpino, figlio di Erennio. L'esercito romano, ingannato da falsi avvisi di pastori, penetra nelle strette gole dei Caudini, presso Monteforte, (credendo il nemico impegnato all'assedio di Luceria) dove resta improvvisamente accerchiato, senza possibilità di scampo. Dopo questa umiliante sconfitta, l'esercito romano con consoli e legionari è costretto a passare sotto il giogo delle "Forche Caudine", lasciando in ostaggio 600 cavalieri.

     Erennio, il vecchio generale irpino, padre di Ponzio, consigliava una duplice scelta: o ammazzare tutti i guerrieri romani, o rimandarli senza infamia a Roma. Ponzio, generale e filosofo, preferendo al gioco politico la voce dell'umanità, risparmia i vinti, purché lascino armi e bagagli, e accettino l'umiliazione delle Forche Caudine. Dopo questa vergognosa umiliazione inferta alla superba Roma, i Sanniti prendono ad insegna le quattro lettere S. P. Q. R., cui danno un'interpretazione diversa: "Samnitium Populo quis resistit!

     La vergogna della disfatta e l'onta subita irritano molto i Romani che, con pretesti religiosi, non accettano il patto giurato dai consoli Postumio e Veturio, i quali, scacciati sdegnosamente dalla città, sono accolti generosamente dai vincitori, che li considerano Sanniti. I Romani, feriti nel loro orgoglio, motteggiano anche il "feciale", inviato per patteggiare la pace, e pretendono con questa nuova finzione giustificare la ripresa della guerra, con sistema di feroce roce distruzione.

     Nel corso dell'anno successivo infatti il Dittatore Cornelio Lentulo, concentrando nel suo cuore la sete di vendetta di tutta Roma, cancella l'onta subita, facendo a pezzi l'esercito sannita, presso lo stesso Caudium verso Nola; e il generale di cavalleria L. Papirio, poco dopo, fa passare sotto il giogo lo stesso Ponzio e tutti i suoi a Luce-ria, liberando anche i 600 cavalieri romani, là tenuti prigionieri. Luceria (314) e Sora (305) diventano colonie romane, come anche Saticula ( 305) (St.di Strabone, Livio, Frontino, Tolomeo).

     Dopo due anni di tregua, i Sanniti riprendono la guerra, ma restano sconfitti dal Dittatore Lucio Emilio e poi dal console Sulpicio. Quelli, vinti ma non domati, non fanno che meditar vendetta contro i Romani che, nell'anno successivo, corrono il pericolo di rinnovare l'esempio delle Forche Caudine entro la foresta di Averno, dove erano stati tratti in un'imboscata. Il disperato valore dei Romani e l'avidità del bottino che ivi trovano i Sanniti, operano il prodigio di salvare i Romani, che perdono però venti mila uomini.

     I Romani hanno ormai capito di non poter vincere frontalmente i Sanniti, tanto abili nel tendere agguati e sorprese, per cui ricorrono ad una nuova tattica. Con marce forzate, girando la posizione, attaccano improvvisamente Romulea, una fortezza difesa da 6 mila uomini: Livio ricorda che gagliardamente vi si difesero gli assediati e non meno di tremila ne morirono. Il console Aulo Cornelio mette in rotta tutto il presidio, mentre Fabio Massimo, con un altro esercito, attaccava Ferentino presso Nusco. Dopo questa sconfitta, parte degli Irpini si arrendono. Dopo pochi mesi i Sanniti-Irpini si misurano ancora una volta con i Romani, sconfiggono il console Marcio e tolgono un ricco bottino a P. Cornelio presso Aeclanum. Roma si vede così costretta ad eleggere Papirio come nuovo Dittatore (316 a. C.).

     A questo punto ci chiediamo come mai i Sanniti-Irpini abbiano raggiunto una così vasta esperienza bellica, da dimostrare che la destrezza valga più della forza. Erennio l'Irpino insegnò metodi mirabili di difesa e di offesa; il generale C. Ponzio, potette perfezionare l'esperienza paterna con una cultura bellica, appresa da libri greci (Polibio). Questo abile condottiero soleva assalire con la destra dell'esercito, la sinistra del nemico, mentre il resto si disponeva in forma di spiedo. Faceva assegnamento sul valore a preferenza del numero, partendo dall'idea che una posizione vantaggiosa prevale anche sul valore dei soldati.

     Dobbiamo poi ricordare che l'ostinazione dei Sanniti-Irpini contro i Romani deriva fondamentalmente dal fatto che si trovano di fronte, non un popolo giovane contro uno decadente, ma due popoli in via di espansione per due strade opposte. Da una parte Roma, che rappresenta il principio accentratore, l'espansione per "conquista", raggiungendo una posizione sempre più preminente nella Lega Latina; dall'altra il Sannio, impersonale e federale, che rappresenta il principio opposto per "associazione", nella ricerca ostinata di libertà, di autonomia, che parta dalla base, dalla volontà popolare.

     Giustamente il nostro conterraneo, F. De Sanctis, sostenne che la storia del Sannio-Irpino è congiunta alla "Idea Italiana", perché le prime guerre dell'indipendenza furono combattute dai Sanniti che, per lo più, ebbero valenti generali irpini, come abbiamo ricordato. Le guerre italiche per l'Unità, combattute per quattro anni dal 95 al 91 a. C., furono promosse da Papio Sannita, che De Sanctis chiama il Cavour di quei tempi. E' significativo che le principali città del Sannio-Irpino, nate prima di Roma, erano talmente fiere della libertà che godevano, per cui non stimarono conveniente di godere il diritto di cittadinanza che, per la legge Giulia, fu esteso a tutta Italia; e fino ai tempi di Augusto si governarono da sé con leggi democratiche, sul tipo di Atene. I cittadini erano divisi in fraterie, per eleggersi i Lars, che erano i più distinti della Lucumonia, si univano nei "tocchi", specie di sedili, forse ricavati da tronchi di alberi e da pietre.

     Espressione di quest'anima popolare, che ha amalgamato popoli così diversi, è stata pure l'unità linguistica, così compatta ed estesa in tutte le zone d'influenza sannitica. Questa unità linguistica è chiamata "osca", denominazione in un certo senso ingiustificata, precisa l'enciclopedia Treccani, poiché è la lingua dei Sanniti che, diffusa tra gli Opici, ha dato origine alla lingua osca e non viceversa; l'espressione può essere giustificata solo per l'importanza che ha avuto la Campania nel diffondere l'alfabeto, di origine etrusca, e la cultura, in genere di origine greca. Solo i Lucani, che del resto, pur avendo affinità d'origine, hanno interessi e aspirazioni differenti verso il Mezzogiorno e verso il Golfo di Taranto, si dimostrano refrattari all'uso di tale alfabeto, presso i quali le iscrizioni in lingua osca usano l'alfabeto greco, almeno fino a quando, col dominio latino, non sarà introdotto l'alfabeto latino. Del resto sappiamo che l'uso dell'alfabeto decade assai prima della lingua, come rivelano le iscrizioni in alfabeto latino, quando ancora la lingua osca era vitale.

     L'unità linguistica d'altra parte è nata, o meglio si è conservata, anche, per ragioni non linguistiche in parte dipendenti dal Sannio; il senso dell'unità nazionale, che si diffondeva progressivamente presso i Sanniti-Irpini, ha agito favorevolmente sull'unità linguistica, la quale è stata così assicurata dai due fattori associati: dalla penetrazione di una cultura uniforme dalla Campania verso il Sannio, e dall'aspirazione ad una unità nazionale irradiante dal Sannio.

     Dopo questa parentesi esplicativa, riprendiamo il racconto delle ultime gesta di questo valoroso popolo. Il proconsole Fabio e il dittatore Papino, con due legioni di Romani e due di alleati, con oltre 1800 cavalli, riportano vittoria a Langula, poi ad Afife contro ì Sanniti, ed assoggettano Marsi, Peligni, Salentini ed altri ausiliari (312 a.C.).

     I Sanniti tentano di rialzare la loro fortuna con altri tre combattimenti, ma sempre con risultati negativi; ostinatamente osano portar guerra ai Romani contemporaneamente in più regioni, a Lara, ad Alba, a Nola, a Sinuessa, accampati sopra alture ove si credevano inespugnabili, e dove non valeva la cavalleria. Ma i Romani, ormai edotti della tattica avversaria, con mosse strategiche, con marce e contro-marce veloci, con cui eludevano i Sanniti, colpiscono sempre di più i paesi dei diversi confederati, che combattevano nelle file sannitiche. L'anno 310 segna la sottomissione definitiva dei Marrucini, Marsi, Peligni, Frentani con la creazione di molte colonie in varie città campane; si apre a Capua la via Appia (296).

     I Sanniti spingono alla guerra la confederazione etrusca, che viene però disfatta al lago Vadimane; gli Etruschi, dietro sollecitazione dell'aristocrazia, perdono la loro indipendenza, anche se il nome di "socii latini" maschera la loro servitù. Essi conservano i governi municipali, continuano a dedicarsi alle arti, a fare e dipingere vasi, a fondere bronzi, ad avventurarsi sul mare (295).

      I Sanniti-Irpini, ormai stremati di forze e abbandonati dai vecchi alleati, stretti nella morsa delle colonie romane, tentano ostinatamente la loro ultima carta: tornano fra gli Etruschi e, facendo leva sugli scontenti della base, che non vedeva di buon occhio la pace conclusa dall'aristocrazia con Roma, li spingono a nuova sollevazione; e con essi, con gli Umbri e con orde stipendiate di Galli Senoni,formano una tremenda lega, che viene però sbaragliata definitivamente a Sentivo nel 295. Etruschi ed Umbri ottengono pace, ma non i Sanniti-Irpini, il cui paese viene abbandonato alla devastazione soldatesca. Abellinum, fra tante città dell'Irpinia, è distruttala uguale sorte tocca a Sabatia, ad Aeclanum e ad altre città verso la Taurasia, capitanate da Enignia. Nel 291 i Romani fondano la colonia di Venosa.

     Ormai agli eroi sannito-irpini non resta che difendere a denti stretti, con la forza che viene solo dalla disperazione, l'ultimo lembo della loro terra, ridotta quasi alla sola Irpinia. Raccoltisi in Aquilonia, recingono di tele uno spazio di venti piedi quadrati; e, sacrificate numerose vittime per propiziarsi gli Dei patrii, introducono un dietro l'altro quel residuo di valorosi, formato questa volta in massima parte da Irpini, presso l'altare del sacrificio, a proferire orrende imprecazioni sopra sé ed i suoi, se osassero fuggire o non uccidessero i fuggiaschi. Chi mostra esitazione è trucidato immediatamente da guerrieri, disposti intorno all'altare colla spada sguainata (293).

     In tal modo si forma un esercito di trentamilatrecento uomini, decisi a tutto, pur di mantener fede al giuramento fatto. In una battaglia, che possiamo immaginare durissima, ad Aquilonia, quegli eroi, soverchiati dall'imponenza delle forze romane, più abili in campo aperto, sono schiacciati e trucidati quasi tutti. I pochi superstiti riparano fra gli Appennini, verso il Terminio e il Partenio, ma i Romani non danno tregua; l'anno successivo scopertine duemila in grotte, precisa il De Napoli, ve li soffocano tutti... Erano quasi tutti di Aquilonia, Romulea, Conza e paesi viciniori; i pochi Sanniti erano Aquilani e Chietini.

     La guerra si protrae per molti anni, fino alla sottomissione definitiva di questo valoroso e sfortunato popolo sannito-irpino a Roma tra il 272 e il 268 a. C. Due milioni e mezzo di libbre di rame in verghe, ricavate dal riscatto dei prigionieri, furono portate a Roma in trionfo, con 2.260 marchi d'argento provenienti dal saccheggio; delle armi tolte, una porzione fu lasciata come trofeo agli alleati ed alle colonie; con le restanti si fece una statua di Giove in Campidoglio, "sì gigantesca che vedeasi fin dal monte Albano" (Balbo, Storia d'Italia).

     Nel 225 a. C., all'inizio della II Guerra Punica, secondo i dati di Polibio (II, 24) il Sannio aveva messo a disposizione dei Romani 70.000 fanti e 7.000 cavalieri. Nell'anno 180, contingenti di Liguri Corneliani e Baebebiani sono condotti nell'Ager Taurasinus, a oriente di Benevento, nel territorio che era stato annesso nel 268.

     Nella Guerra Sociale i Sanniti compaiono insieme ai Frentani e agli Irpini (Appiano, 1, 39) nella lista dei popoli ribelli. La loro partecipazione non è, agli inizi, in prima linea; gli avvenimenti principali si svolgono in territorio sabellico. Solo quando le cose si mettono male  a settentrione, si trasporta la capitale federale da Corfinio a Isernia (anno 88), che diventa nuovo centro di resistenza. Dopo che, con le sostanziali concessioni romane, la guerra si poteva considerare finita, i Sanniti, insieme con i Lucani, si trovano coinvolti nelle lotte interne fra partigiani di Silla e di Mario, legati a quest'ultimo. Così nella battaglia decisiva di Preneste (anno 83), i Sanniti al comando di G. Ponzio Telesino hanno una parte preponderante, ma, sconfitti, sono sterminati sotto le mura di Roma. E' la fine anche della nazione sannitica.

     Lo spirito indomito, non certo distaccato da un vivo senso umanitario e democratico di questo popolo sannito-irpino, che sente profondamente il valore dell'autonomia e della libertà; la sua vigile accortezza nel prevenire le difficoltà, in modo da premunirsi contro di esse; la sua costante laboriosità, che non pone limiti al sacrificio, sono certamente le qualità fondamentali e, direi, congenite, che sopravvivono nella nostra gente, così legata al verde delle nostre montagne. Su questi valori umano-sociali dovrebbero far leva tutti quelli che hanno responsabilità in ogni campo, perché questo popolo sia sollecitato a valorizzarsi con quello spirito che gli è congeniale.

     Certo, urbanesimo ed emigrazione sembrano aver quasi definitivamente cancellata l'immagine di una Irpinia montanara e contadina, abitata da pastori, boscaioli, allevatori di animali e lavoratori della terra; percorsa da bestie da soma, da traini, da carri e da calessi, lungo mulattiere, carraie, strade e stradine erte e tortuose.

     Il processo di trasformazione sociale ed economica, registrato in questi ultimi decenni, col susseguente fenomeno della corsa in città, ha svuotato i nostri paesi, lasciando ovunque solitudine e silenzio, e spogliando le nostre popolazioni del loro patrimonio culturale. Oggi questa civiltà del passato, rimasta immobile per secoli ed ancorata ad una fatale schiavitù dal "padrone di turno", si va sempre più sfaldando sotto la spinta di nuove aspirazioni sociali, di nuove esigenze di vita, di più umani condizioni esistenziali.

     Ma sarebbe inutile ed anacronistico uno sterile rimpianto del passato in quanto tale, se contemporaneamente venisse a mancare da parte nostra un'appassionata ricerca del presente, per coglierne i segni dei tempi e comprenderne le manifestazioni del pensiero, dell'arte e della creatività, e per proiettarsi verso un futuro migliore. E' stato affermato che la tradizione (intesa certo non come "passato", ma come "presente vivo") è la civilizzazione della persona, perché la tradizione è "memoria" dell'umanità. Hegel aveva detto: "chi rifiuta la tradizione è condannato a riviverla". Non esiste infatti cultura senza storia. E chi vuole sollecitare la civiltà dell'uomo non può non interessarsi della tenace e, sotto certi aspetti, misteriosa sopravvivenza di arcaiche usanze, legate alla quotidiana fatica del lavoro.

     L'esigenza di un ritorno alla natura, oltre che alle origini, apre nuovi orizzonti alla riscoperta del mondo rurale, anche delle nostre zone, al recupero di valori umani e cristiani, che troppo acriticamente sono stati rifiutati nel recente passato. Anche i nostri paesetti irpini offrono un campionario ricchissimo di moduli pastorali e rurali, ed una serie di manufatti artistici, spesso minuziosamente curati nella loro raffinatezza.

     Il primo e più significativo aspetto di questa nostra civiltà antica è l'abitazione: semplice, rustica, stilizzata e spesso personalizzata, concepita più come luogo di rifugio che come spazio vitale. Il pagliaio, che troviamo in montagna e in collina, nella valle e più raramente anche in pianura, ha una struttura molto elementare: una base perimentrale di muratura a secco, con pietre appena smussate, ad altezza d'uomo, con una sola apertura, sostiene una travatura a forma di cono o di prisma triangolare, intrecciata con ginestra o altri arbusti; e il tutto ricoperto con stoppie, resistenti e impermeabili a piogge.

     Molte volte questi pagliai erano addossati ad una roccia, in cui si scavava la grotta dai molteplici usi; e lo stesso criterio si seguiva nei centri abitati, dove il pagliaio era sostituito dalla costruzione di una casetta in pietra e calce, col tetto spiovente in tegole di cotto, che s'inseriva nel paesaggio come una componente naturale, tra gli alberi, o col pergolato ombreggiante, carico di uva nella stagione autunnale; deliziosi festoni di pannocchie, di trecce di aglio, di cipolle o di peperoni o di grappoli di pomodori facevano da indispensabile ornamento, mentre all'interno della casa facevano la loro bella mostra salami e formaggi vari.



Vallata : Via Ponente (da una vecchia foto)

     In alternativa c'erano le case più grandi dei benestanti, che insierre alle prime, più numerose, formavano i nostri caratteristici paesi, arroccati per lo più ai monti, per motivi di difesa. Qui, tra campagna e paese, si svolgeva la vita delle nostre popolazioni, incentrata principalmente sul lavoro dei campi; un lavoro che seguiva il puntuale calendario delle stagioni nello spirito di fedeltà ad un rito scandito da semina, sarchiatura, mietitura, potatura, vendemmia, ecc. Il sorgere e il tramonto del sole segnano l'inizio e la fine di una estenuante, quotidìana sofferenza, alleggerita da un buon bicchiere di vino, con le allegre note di qualche canto popolare.

     Il montanaro irpino rivela un carattere realistico, positivo, mutuando dalla natura con cui è a contatto, concretezza e vivacità nelle idee, nel linguaggio, nelle immagini, attraverso cui si esprime: generoso e diffidente, sincero e appassionato, fiero e geloso della propria libertà, rispettoso e fedelissimo con gli amici, patriarcale e attaccatissimo alla famiglia, amante della frugalità e generoso nell'ospitalità, restio alle astrattezze filosofiche, e religioso a modo suo.

     La creatività, la fantasia degli Irpini trova la sua migliore espressione artistica nella vasta gamma di manufatti, che escono dalle mani industriose degli uomini e delle donne. I bastoni, i fusi, le conocchie, i cesti, i telai da ricamo o da tessitura, i forchettoni da cucina per i vari usi, le tazze e le scodelle, le panche, gli utensili insomma della casa e del lavoro meriterebbero uno storico o un critico, che li catalogasse ed illustrasse adeguatamente, soprattutto ai giovani (ma anche ai meno giovani), per riscoprire la preziosa funzione evocativa di questo ricco patrimonio storico. E' un patrimonio che non sempre è nato nel laboratorio dell'artigiano o nella bottega dell'intagliatore (come tanti pregiati ed originali mobili, arnesi in pietra e portali, che pur arricchivano le nostre case); senza modelli, senza sofisticati arnesi da officina; sono bastati un ramo adatto, un tortello e due mani pazienti: quelle del contadino nelle lunghe serate invernali, quelle del pastore mentre pascola le bestie, per forgiare bastoni e batacchi, schiumarole e cucchiaio, forchettoni e arnesi vari, su cui va istoriando simboli magici, religiosi, amorosi. Dimenticati in tante grotte inesplorate o in antiche abitazioni, ancora possono trovarsi residui di questi veri capolavori di artigianato locale, in cui predomina lo stile "naif", congeniale alla cultura degli anonimi artisti.

     Questa cultura (non più ritenuta subcultura) oggi merita un posto nella storia dell'Irpinia, non inferiore, anche se diverso, a quello che occupa la storia delle arti cosiddette maggiori.

     Nel settore poi delle arti femminili, il ricamo e la confezione di manufatti da corredo costituiscono un vero capolavoro, non solo per bellezza e originalità, ma anche per la tipologia e la tecnica di elaborazione, ad opera di ragazze che, sedendo sul ballatoio o sullo scanno vicino al telaio tradizionale, impiegano centinaia di ore di lavoro, senza la consapevolezza di essere delle artiste.

     In una parola, in tutto il movimento di riappropriazione da parte del popolo meridionale della sua cultura, c'è anche un'Irpinia inedita, sconosciuta, dimenticata che merita di essere rivalutata, perché nessuno sia privato del piacere di riscoprire quello che stiamo irrimediabilmente perdendo: i valori della nostra umanità, che costituiscono la nostra vera ricchezza. In questi anni, con la retorica meridionalistica si è affermato: 'T Sud ha fame... ha sete... ha bisogno di lavoro... non è vita..." cui dobbiamo saper rispondere che il Sud è forse tutto questo, ma è soprattutto "promessa di vita... di vita autenticamente umana..." e che la condizione essenziale, che deve animare dall'interno questa vita è la "cultura". Non però una cultura mutuata o imposta dagli altri, bensì una cultura propria, congeniale alla gente del Sud. E cultura è ciò che si ricorda o si dimentica; cultura è anche ciò che non esiste più, cui bisogna continuamente ispirarsi, per reinventare una cultura autentica dell'oggi.

     Certo non si può aggiogare la vita all'ovvio carro della cultura o viceversa, ma ambedue, onde evitare facili cristallizzazioni, debbono ispirarsi al passato, da cui desumere ogni elemento valido ancora oggi, evolversi  nel presente, ben interpretando i segni dei tempi, e proiettarsi verso un futuro sempre più a misura d'uomo. Del resto, pur sotto i colpi devastatori di una cultura piovutaci dall'alto, ci sono sempre stati nel nostro Mezzogiorno d'Italia cultura e vita germogliate dal basso, nel loro humus naturale. Si è avuto, è vero, un franamento e poi una più penosa confusione, sotto lo stillicidio di un bombardamento a tappeto dei Mass-Media, ma lo sfasciume totale si è fortunatamente evitato, grazie soprattutto all'intuito ed al buon senso della gente del meridione, che ha saputo reinventare tradizioni, folklore, care abitudini, e soprattutto cultura. E' stata la vita che, perdendo man mano di significato, ha sollecitato una riscoperta della cultura, quella ricordata o dimenticata, quella che non esisteva più, non perché inutile o fatiscente, ma perché franata sotto la miseria e sotto il bombardamento dei modelli imposti, anche per una volontà politica ben precisa che, pur appellandosi continuamente alla trita "questione meridionale", quasi nulla ha fatto per impedire che l'uomo del Sud fosse sradicato dalla sua terra e defraudato della sua identità.

     Fortunatamente, l'innato buon senso della gente meridionale, dopo un periodo di confusione, ha portato all'intuizione che un popolo non si può esaltare soltanto con il cemento, con la macchina, col benessere materiale, col consumismo, ma si esalta soprattutto nell'assumere una dimensione culturale sempre più larga e profonda, rispondente alla propria originalità. C'è solo da augurarsi che tale intuizione porti alla creatività di forme nuove di vita, in uno sforzo di rinnovamento verso nuovi dinamismi di vita, senza perdere il significato dell'uomo, con la sua tradizione e i suoi valori.

     Soprattutto in sede educativa è necessario che sia tenacemente recuperata la dimensione della coscienza storica: i giovani oggi rischiano di trovarsi "senza memoria" e quando l'uomo "non ricorda più" può essere schiavizzato da tutti e da tutto. Un segno positivo di recupero di questa "coscienza storica" possiamo vederlo nel rinato interesse verso la ricerca delle radici della nostra società.

     Da qui la preziosa funzione evocativa ed educatrice assolta dai beni culturali: una documentazione sintetica che, se bene utilizzata, può divenire appassionante stimolo di ricerca ed occasione di raccordo interdisciplinare. Ma parlando di beni culturali, non dobbiamo intendere soltanto oggetti di valore particolare, in ordine alla loro eccezionalità di testimonianza storica, per originalità e valore intrinseco, ma tutti gli oggetti costituenti "testimonianza storica di civiltà".
     Ogni oggetto diventa così documento privilegiato di cultura, ma di una cultura antropologica, secondo cui tutte le manifestazioni di civiltà e di vita assumono la loro importanza. Certo, i beni culturali sono soltanto simboli, di cui occorre possedere i significati, per interpretarne il pensiero trasmesso attraverso quei segni, e per riuscire in questo, bisogna interpretare quei beni come risposte ai problemi umani di ogni tempo.

     L'eziologia (dal gr. aitìa=Causa, origine; e logos=parola, significato, spiegazione) non dovrebbe essere una branca privilegiata solo della medicina, ma andrebbe più diffusamente applicata in ogni espressione della 'scienza e della vita umana, come spiegazione dell'origine o ricerca delle cause: in documenti, oggetti, avvenimenti del passato possiamo trovare la spiegazione e l'origine di esperienze e fatti del presente.

     La scuola dovrebbe aiutare e sollecitare i giovani in questa ricerca eziologica, nelle sue varie espressioni (2).
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     (2) Eziologia antropologica, per una spiegazione delle singole esperienze della vita umana, dei costumi, delle abitudini, ecc.
         Eziologia etnologica, per uno studio di ricerca delle stirpe umane, dei loro caratteri fisici e morali, dei loro rapporti amichevoli od ostili, delle loro relazioni sociali, ecc.
         Eziologia etologica, con particolare riferimento ad animali e piante.
         Eziologia etimologica, per spiegare espressioni e parole dialettali, cadute in disuso, di cui non si conosce il significato originario.
         Eziologia geografica e geologica, per ricercare tradizioni, leggende, avvenimenti storici, che spieghino la posizione di certe località, o il nome di tanti paesi: la toponomastica si sta rivelando quanto mai utile!
         Eziologia culturale-religiosa, per ricercare la spiegazione di tante tradizioni popolari, di superstizioni, di usanze religiose, e così via.

     E' ovvio che questo lavoro di ricerca non dev'essere fine a se stesso, ma l'intervento educativo della scuola deve aiutare ad operare il trapasso qualitativo del bene culturale e dei beni culturali al valore ed ai valori culturali. Una legislazione attenta non può parlare che di beni culturali da ricercare, da conservare, da favorire, mentre l'azione educativa della scuola, mediante il contatto con essi, deve mirare a trasfigurarli assiologicamente in valori, non più oggettivi, ma esistenziali e spirituali, ed in realtà umane che qualifichino cultura e vita.

     In questo itinerario educativo s'inserisce l'azione di servizio da parte della chiesa, per aiutare a riscoprire la "novità di vita" portata dal Vangelo : ogni chiesa locale deve sentire il dovere di aiutare i suoi membri a vivere sino in fondo il travaglio della storia, assumendone pienamente e solidalmente contraddizioni da superare e valori da attualizzare, nel comune sforzo di preparazione di un futuro migliore.

     Circa l'origine poi dei nostri paesi dell'Alta Irpinia, è necessario superare quello spirito campanilistico, che caratterizza tanti cultori di memorie locali, i quali fanno a gara nel dimostrare l'anteriore origine o l'importanza maggiore del proprio paese, rispetto ai paesi viciniori, basandosi a volte su fantasiose ricostruzioni del passato. Pertanto, più che insistere sull'origine romana, longobarda o normanna dei vari paesi, bisogna far capo alla comune matrice osto-sannita che, con la sua cultura ed unità linguistica, ha inciso profondamente nella vita delle nostre popolazioni. E' questa cultura originaria e congeniale che caratterizza il popolo irpino, e non l'impronta, più o meno profonda, che hanno potuto lasciare le successive dominazioni.

     E' logico che, nel corso della storia, a seconda del punto strategico occupato dai vari paesi o degli uomini avuti alla guida di essi, questo o quel popolo ha dovuto subire una maggiore o minore influenza da parte dei dominatori successivi, ma non fino al punto da perdere quella caratterizzazione di fondo, che costituisce l'anima popolare della nostra gente; di qui anche la maggiore o minore incidenza storica di questo o quel paese nel corso dei secoli.

     Ci sarebbe poi da precisare, con dati archeologici sicuri, la topografia delle antiche città irpine che, essendo molto grandi ed estese, non possono corrispondere esattamente ed in modo esclusivo ai paesi che oggi ne conservano il nome. Il guaio è che il nostro territorio, pur essendo così ricco di memorie storiche, per la totale incuria dei passati governi, che purtroppo continua vergognosamente con gli attuali, archeologicamente è per nulla esplorato. Si rinunzia così ad un vasto patrimonio culturale, che potrebbe sollecitare una promozione umana e sociale della nostra gente, nonché ad una fonte sicura di guadagno, in un quadro di sviluppo turistico.

     Nel Sannio invece ci sono stati vari tentativi, anche se non portati a termine: famosi sono stati gli scavi di L. Mariani ad Alfedena, nella valle del Sangro; notevoli risultati avevano cominciato a dare gli scavi di Pietrabbondante, iniziati già sotto il regno borbonico, ma poi non continuati successivamente. Comunque i reperti archeologici scoperti fanno pensare ad una duplice influenza: quella apula, più antica, senza traccia di monete e quindi legata alle migrazioni dei pastori dal Sannio alla Apulia, che sono continuate fino ai nostri giorni; e quella più recente e brillante della Campania, sia nel periodo etrusco, come attestano le tombe dipinte ad Alife (che sono fra le più tarde delle tombe campane), sia in quello più propriamente greco.

     Dalle scoperte fatte risulta pure che i Sanniti hanno sempre praticato per i morti l'inumazione. Sono ben note le tombe dette sannitiche a Pompei; risalgono ugualmente al periodo sannitico in Pompei la Palestra sannitica, la Porta di Nola ad un solo fornice, la bella facciata della Casa del Torello, il meraviglioso prospetto della Casa di C. Giulio Polibio, ecc. La tradizione ci tramanda notizie sopra usi sannitici, come i giochi dei gladiatori, e sopra le armi usate: scudo ovale, corazza detta "spongia", dischi di bronzo (tutte nettamente distinte da quelle lucane), schinieri sulla sola gamba sinistra, elmi chiomati (Livio X, 34). Anche un certo numero di monete è giunto a noi, ecc.

     Iscrizioni in lingua osta e alfabeto nazionale sono state trovate ad Agnone, Boiano, Isernia, Venafro, Sepino, Macchia Valfortore, Vasto, Lanciano. Particolarmente importante la Tavola di Agnone del sec. III, che .conserva un lungo elenco di divinità, più o meno legate a Cerere. Fra i culti, notevole quello di Mamerte, corrispondente a quello di Marte dei Latini.

     Per quanto riguarda l'Irpinia, non mancano nei vari paesi reperti archeologici di rilievo, che si rifanno alla cultura Osco-sannita, ma occorrerebbe una seria ed organica ricerca da parte dei competenti organismi, per uno studio serio, e per supplire alle scarse notizie storiche dei primi secoli di vita delle nostre popolazioni irpine.

     Anche nel territorio di Vallata, da parte di privati cittadini, e soprattutto da parte dell'Arciprete Saponara, un appassionato ricercatore di memorie antiche, sono stati rinvenuti pezzi archeologici importanti, risalenti anche al periodo osco-sannita: monete d'argento e d'oro; capitelli, maschere, pietre scolpite; idoli di bronzo e di terracotta; vasi lacrimatoci, anfore e lucerne fittili; cippi sepolcrali, tombe ed epigrafi funerarie; statue di guerrieri e teste muliebri; grandi vasi in terracotta e in pietra; una piccola necropoli con scheletri, utensili, spille, ecc. in particolare nelle contrade di Padula, Vallone di Chiusano, Calaggio e Mezzana Perazze. In quest'ultima contrada è conservato da una famiglia privata un pregiato capitello, ereditato dagli antenati, che doveva far parte di un tempio pagano esistente nella zona.
     Anche la chiesa parrocchiale conserva un magnifico maschero ne in pietra, scanalato sulla testa per ricavarne un'acquasantiera: un elemento pagano, utilizzato successivamente dai cristiani, come si nota chiaramente dalla lavorazione più recente della parte incavata, rispetto al resto della maschera. Il pezzo, di pregevole valore artistico ed archeologico, forse uno dei reperti più antichi che si conservi a Vallata, a detta di competenti, avrebbe chiari elementi, di arte irpina, con influenza osco-sannita o addirittura etrusca. Tale mascherone, conservato esternamente da secoli in alto, sulla porta laterale della chiesa, dopo l'ultima ricostruzione di questa, è tornato alla funzione di acquasantiera, in un angolo della scalinata di accesso alla cripta.
     Anche altri elementi (maschere, stemmi, iscrizioni, ecc.) che si conservano fortunatamente nelle strade più antiche del paese, particolarmente in Via Trionfo, andrebbero raccolti e studiati da esperti, per localizzarli nel periodo storico ed artistico, prima che l'azione distruttrice del tempo, unita all'opera vandalica di gente inesperta, li faccia andare perduti.


Antico Mascherone : elemento pagano, utilizzato successivamente dai cristiani




     Sarebbe questo un primo passo doveroso da compiere, da parte delle Amministrazioni locali, sollecitate dalla sensibilità di gruppi giovanili, finalmente orientati oggi alla riscoperta di questi valori del passato, e sostenuti dall'opera delle "Pro Loco". Queste non possono limitarsi a far rivivere valori folkloristici, alle volte solo con... dilettantismo!, ma debbono svolgere una responsabile funzione educativa di formazione umana e civile delle nostre popolazioni, attraverso una seria riscoperta dei valori storici, trasmessici dal passato.
     Anche la scuola di ogni ordine e grado, per superare quel secolare distacco tra ciò che s'insegna e la vita, dovrebbe finalmente avere un organico impatto con la realtà concreta, in cui i giovani vivono, per aiutarli a cogliere dal passato valori validi ancora oggi, onde sollecitare in essi una crescita congeniale a quell'anima popolare di cui si è parlato.
     Una volta sensibilizzata la base in tale prospettiva, occorrerà pungolare e, se necessario, sferzare uomini ed organi responsabili, perché si decidano ad uscire da quell'inerzia impressionante, che li ha vergognosamente caratterizzati fino ad oggi in questo campo, avviando, sotto la direzione della Soprintendenza ai Beni artistici e Storici della Regione, indagini sistematiche, per individuare quegli antichi agglomerati urbani, che ancora possono rivelarci tutta la ricchezza culturale, veramente originale, della Verde Irpinia.

     Non dobbiamo assolutamente. rinunziare ancora a questo messaggio culturale, che ci viene dalle generazioni passate, in quanto conserva tutta la sua carica di originale autenticità e di attuale validità.

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