Vallata - brevi cenni storici -
Cap. III
Vallata Bellicosa e Cordiale

      Nella vita di ogni persona, come di ogni popolo, ci sono dei momenti qualificanti, che ne caratterizzano l'intera esistenza.

      Nel cammino storico che abbiamo intrapreso, per cercare di capire l'anima del popolo irpino e, in tale contesto, il carattere della comunità vallatese, si rende necessaria una sosta di riflessione, su alcuni avvenimenti storici molto significativi, che puntualizzano il carattere fiero e bellicoso del popolo vallatese e la sua cordialità.

      Per dare un fondamento storico alla prima caratteristica, ci offre lo spunto iniziale Riccardo da S. Germano nel suo "Chronicon Rerum per orbem gestarum", parlando delle gesta di Marcovaldo di Anweiler in Italia. Marcovaldo, di umili origini, era siniscalco di Enrico VI, addetto ai servizi di corte e della mensa imperiale, comincio la sua ascesa con l'incoronazione di Enrico VI ad imperatore.

      Siamo in periodo tumultuoso per la vita degli Stati europei e della Chiesa, allorquando alla Cattedra di Pietro sale Giacinto Bobone (Bobo), vecchio di 85 anni, romano della famiglia Orsini. Prende il nome di Celestino III, ed è il primo papa degli Orsini. Egli rivelò la sua debolezza, fino ad acconsentire in tutto al terribile e crudele Enrico VI, che dovette incoronare con la moglie Costanza d'Altavilla, il 15 aprile 1191, il giorno dopo la sua consacrazione.

      Costanza, figlia di Ruggero, religiosa in Palermo a S. Chiara, era stata dispensata dai voti e data in moglie ad Enrico; nella città di Jesi gli partorì un figlio nel 1195, chiamato Federico Ruggero.

      Felice Renda, nella vita di S. Guglielmo, ricorda che nel 1194 l'imperatore con la moglie passò in Avellino, abbandonata dal suo conte, e visitò "N. Donna di Montevergine, e diè a quei religiosi Mercogliano, e la contea di Avellino a Gualtiero Parisio".

      Celestino III non seppe contrapporre fermezza alla politica dell'imperatore, che perseguitava ecclesiastici e laici, ignorando a suo capriccio il concordato di Worms. Proprio in tale periodo l'imperatore si valse dell'opera di Marcovaldo, che troviamo incaricato di importanti missioni a Pisa nel 1191, dopo la resa di Napoli ai Pisani seguaci dell'imperatore, ed a Genova nel 1195. In questo stesso anno Enrico VI lo nominò marchese di Ancona, duca di Ravenna e conte di Romagna e, alla morte di Corrado Mosca di Lutzelhard, nel 1197 anche conte del Molise.

      Ma nel settembre 1197, alla giovane età di 32 anni, moriva Enrico VI. La morte dell'imperatore segnò anche l'inizio della parabola discendente del suo fido Marcovaldo, che già nel 1198 fu scacciato per la sua crudeltà dalla contea del Molise dall'imperatrice Costanza, sotto la cui tutela Enrico VI aveva lasciato il figlioletto Federico, di tre anni.

      Per farci un'idea della reazione suscitata dallo spietato Marcovaldo, lasciamo la penna all'Anonimo Cassinense, suo contemporaneo, che, con molta incisività, così si esprime nel suo Chronicon: "... Marcovaldo, uomo scelleratissimo, oltre modo crudele e rapace, come l'altri della sua nazione. Se ne passò egli nella! Marca d'Ancona, ch'in buona parte dominava, dove commise malvagità innumerabili...".

      Frattanto il 22 gennaio 1198 era salito al soglio pontificio, col nome di Innocenzo III, Lotario dei conti di Segni, dotato di altissimo ingegno, di vasta cultura umanistica e teologica, nel pieno vigore di mente e di volontà a soli 38 anni, ricco di esperienza non comune. Nella sua vasta opera di riorganizzazione dello Stato Pontificio e della vita interna della Chiesa, dovette risolvere anche il problema. della successione imperiale e della sistemazione del regno di Sicilia. Nel 1199 infatti, ad un anno dalla morte di Enrico VI, moriva anche l'imperatrice Costanza, lasciando per testamento, sotto la tutela di Innocenzo, il figlio unico Federico, di quattro anni.

      Il perfido Marcovaldo, alla notizia della morte dell'imperatrice, pensando che fosse il momento buono per impadronirsi del regno, adunato un esercito di genti peruerse, co'l consenso d'alcuni del Regno, v'entrò per impossessarsene, e diuenire assoluto Signore, per lo che ne fu dal Pontefice scomunicato: onde via più fatto peruerso, prendendo dominio de' Cittadi, e Castelli, senza perdonarla né meno a' luoghi sagrì, à sacco per ordinario, ed il più delle volte à fuoco anche li mandaua" (Anonym. Cassin. loc. cit.).

      La perfidia di Marcovaldo giunse anche all'arma della corruzione e della denigrazione, come precisa il Giannone, avendo egli "... tentato di concordarsi col Papa, per opera di Corrado Arcivescovo di Magonza... promettendo, pur che non l'avesse molestato nella conquista, ch'egli intendeva fare del regno, venti mila once d'oro, col dovuto giuramento di fedeltà solito a farsi da' Re di Sicilia a' Romani Pontefici, significandogli ancora, che non dovea essergli d'impedimento a far ciò l'aver preso sotto la sua protezione Federico, perciocché gli avrebbe fatto chiaramente toccar con mani, che quel fanciullo era stato supposto, né era altramente nato di Costanza, e di Errico" Ma il Pontefice era troppo intelligente ed esperto per abboccare all'amo, per cui, "conoscendo l'ingordigia di regnare, e la malvagità di Marcovaldo, non diede fede alcuna alle sue menzogne; il perché Marcovaldo, senza far più menzione di tal fatto, tentò con altri mezzi pacificarsi con Innocenzio, e d'esser assoluto dalla scomunica" (P. Giannone: Dell'Istoria Civile del Regno di Napoli, 1. XV, pag. 341).

      Avendo il Papa inviato a lui, come legati, alcuni Cardinali, perché lo convincessero a desistere dalla sua bramosia di spadroneggiare ad ogni costo, il malvagio tentò pure, "in varie guise con prieghi e minacce" di convincere i Cardinali a passare dalla sua parte, ma il Cardinale Ugolino "pubblicamente gli comandò in nome del Pontefice, ch'egli più non molestasse i Regnicoli, né tentasse intrigarsi nel lor governo, come balio di Federico: che restituisse tutti i luoghi occupati in Puglia, ed in Sicilia, e ricompensasse i danni avvenuti per opra di lui alla Chiesa Romana ed all'Abate di Monte Casino; e che più non travagliasse i Prelati, e l'altre persone Ecclesiastiche".

      Ma ostinatamente M. "ritornò alle cattività primiere, procacciando per suoi messi, dare a divedere a' Regnicoli, ch'era convenuto col Pontefice, e ch'egli l'avea confermato per Balio del Regno". L'accorto Innocenzo III precisò subito, con lettere inviate ovunque, che si trattava dei soliti espedienti di slealtà escogitati da M., per raggiungere il suo scopo. La puntualizzazione del Pontefice precluse a M. ogni possibilità di riuscita del suo disegno in Campania e nelle Puglie, per cui questi decise di passare in Sicilia, "ove giudicava poter più agevolmente, e con minor contrasto adoperare le sue malvagità" (Giannone, op. cit.).

      Per notizie più dettagliate, il lettore può rifarsi al testo di Riccardo da S. Germano, un meticoloso cronista del tempo, che integra le sue conoscenze personali con notizie assunte dagli Annales Cassinenses: col suo latino fresco e scorrevole e con dovizia di particolari, fa quasi rivivere gli avvenimenti di questo tumultuoso periodo.

      Gli scrittori successivi, da Giannone al Capecelatro, da Bella Bona al De Franchi, a Di Meo, esplicitamente o implicitamente, saccheggiano questa miniera di notizie, attingendo al manoscritto conservato nella Badia di Montecassino, oppure alle edizioni stampate nel 1725, nel 1782, nel 1864 e nel 1866.

      Riccardo da S. Germano ricorda che M., nel mese di febbraio 1199, dirigendosi verso le Puglie, assediò Avellino e, accordandosi con gli abitanti della città con il pagamento di una forte somma, tolse l'assedio: "ad Apuliae partes se conferens, Avellinum obsedit, et cum incolis civitatis se componens, discessit ab obsidione".

      Il Giannone invece ci dice che M. aveva già deciso di passare in Sicilia: "ma prima di ciò fare, assediò Avellino, la quale città non potendo prendere così presto per la valorosa difesa dei cittadini, pago della molta moneta che gli diedero per uscir di tal molestia, si tolse via dallo assedio".

      Il Capecelatro dà la stessa interpretazione dei fatti ed usa quasi le stesse parole. Il Bella Bona, citando il manoscritto di Ricc. da S. G., così si esprime: "nel mese di Febbraio 1199, drizzandosi verso la Puglia giunse in Avellino, qual cingendolo d'assedio lo restrinse: né potendo gli afflitti cittadini dal di lui furore ripararsi, si composero nel miglior modo, che poterono, e sciolto l'assedio, seguì il cammino a' danni della Puglia... da doue passato alla Calabria e Sicilia...".

      Infine il De Franchi, citando l'anonimo cassinense, dà tutta una interpretazione diversa del fatto: "... nel 1199, andando verso la Puglia, assediò e prese Avellino, e passata la Puglia e la Calabria, nella Sicilia giunse e pose in istrettezze...".

      Come si nota, i due ultimi scrittori fanno giungere M. in Sicilia, attraversando Puglia e Calabria, dopo l'assedio e, secondo De Franchi, la presa di Avellino. Invece Ricc. da S. Germ. ed altri parlano dell'assedio e della presa di Vallata: dopo tale avvenimento, volendo M. evitare uno scontro con Pietro da Celano che, con un esercito raccolto nel contado dei Marsi, marciava contro di lui nella Terra di Lavoro, dalla Puglia, attraverso la Capitanata, tornò nel contado del Molise. Questa avanzata di Pietro da Celano contro M., per ripagarlo della distruzione di Vallata, conferma il legame non solo religioso ma anche civile tra V. e la contea dei Marsi, di cui si è parlato in precedenza.

      M., dopo aver rafforzato il suo esercito ed aver tentato invano la presa di Isernia, che spogliò comunque dei suoi beni, procedendo verso il Casertano, per vendicarsi di Pietro da Celano, non potendo prendere con forza Teano, si diresse verso Salerno, dalla quale salpò per la Sicilia.

      La meticolosità del nostro cronista nel descrivere tutti i movimenti del M., puntualizzandone perfidia e rapacità, ci assicura che i fatti siano andati veramente così, anche se gli avvenimenti storici sono stati spesso infiorati da interpretazioni popolari di interventi miracolistici, che si sarebbero verificati, per castigare la perfidia spesso anche sacrilega del M.. Ma ad un lettore attento, che abbia un minimo di senso critico, non sarà difficile selezionare i dati storici, confermati del resto anche da altri scrittori di valore, dalle fantasiose interpretazioni popolari.

      Dopo questa puntualizzazione storica dell'epoca, resasi necessaria per capire a fondo personaggi e fatti; possiamo finalmente fermare la nostra attenzione sull'episodio che c'interessa: la distruzione di Vallata ad opera di Marcovaldo.

      Riccardo da S. Germano così descrive l'avvenimento, dopo il surricordato assedio di Avellino: "... procedens inde Vallatam, quoddam casale Apuliae, vi cepit, et suis dedit in direptionem et praedam" (op. cit. ediz. 1725, tom. VII, col. 979; ed. 1782, tom. IV, pag. 177; ed. 1864, pag. 22; ed. .1866, tom. XIX, pag. 331).

      Il Giannone in "Dell'Istoria civile del Regno di Napoli" (Vol. II, pagg. 341-342) così si esprime: "Prese poscia a forza Vallata, e la diede a sacco a' soldati, e procedendo a far danni maggiori gli venne incontro Pietro Conte di Celano, con un buon numero di soldati da lui raccolti nel Contado di Marsi ......

      Il Capecelatro, nella sua "Storia del Regno di Napoli" (libro V, pag. 138) plagiando, usa le stesse parole.

      L'episodio è ricordato anche dal Giustiniani nel suo "Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli" (Lib. X, pag. 7) così:

      Questo paese fu posto a sacco da M., allorché fu costretto ad uscire dal regno dalle armi pontificie, e ritirarsi in Sicilia...".

      Anche il Di Meo nel suo "Annali critici e diplomatici del Regno di Napoli" (Vol. VI, pag. 131) cita il testo del Riccardo, che passiamo ora ad analizzare.

      Anzitutto diciamo che l'espressione usata dal nostro cronista: "Quoddam Casale Apuliae" non deve far pensare ad uno sparuto gruppo di case, disperse in aperta campagna, come potrebbe suggerire H significato odierno della parola, ma dobbiamo rifarci al significato originario del termine latino "Casale", corrispondente a "Pagus" = borgo, villaggio.

      Del resto, sarebbe stato ridicolo il dispiegamento di forze del M. contro un gruppetto di case di campagna. L'espressione del Chronicon: "vi cepit", sta ad indicare chiaramente che i Vallatesi, nella loro ostinata fierezza, opposero una dura resistenza all'esercito di M., cedendo soltanto alla prevalenza delle forze, senza scendere a trattative come gli Avellinesi.

      Che poi scrittori del tempo e storici successivi facciano menzione esclusivamente di Vallata, come l'unico paese che abbia opposto resistenza all'avanzata di M. da Avellino verso le Puglie, ci dice incontestabilmente, senza voler fare del campanilismo, che questo Casale aveva una grande importanza, per la sua posizione strategica di primissimo ordine: non dimentichiamo che, all'epoca, aveva già mura di cinta e castello, come abbiamo accertato. Questo non sfuggirà all'acume storico di Iannacchini che, in "Topografia storica dell'Irpinia" ( Vol. III, pag. 76) dopo aver citato il testo di Giannone, così conclude: "... da ciò si argomenta l'importanza di questa Terra in tal tempo; come posta a guardare il passaggio dalla Valle Ufitana a quella del Calaggio, donde alle Puglie".

      Tale importanza non dovette sfuggire certo al truce M., che decise di abbandonare il paese "a sacco ed a fuoco", sia per compensare del duro attacco le sue soldatesche con un lauto bottino, sia per non lasciare alle spalle una fortezza, che ben presto avrebbe potuto riprendere ostilità.

      M. Approdò in Sicilia nel 1199 dove, alleatosi col Cancelliere del Regno, Gualtieri di Pilear, contro Gualtieri di Brienne, sostenuto dal Papa, fu battuto fra Monreale e Palermo nel luglio dei 1200, riuscendo tuttavia ad impadronirsi di Palermo il 1° novembre, e della stessa persona del giovane Re Federico II, che tenne per un certo tempo prigioniero. Sembrava ormai che M. fosse giunto al culmine della sua potenza, quando improvvisamente morì a Patti nel 1202.

      Era giunto ormai il momento di decidere la questione dell'unione delle due corone di Sicilia e di Germania, che rappresentava un grande pericolo per l'indipendenza del Papato, essendo la Sicilia un feudo papale. Innocenzo III pensa che non sarebbe proprio difficile separare le due corone e conservare per Federico quella di Sicilia e di Puglia che, sul capo di un suo pupillo, avrebbe potuto assicurare la sovranità papale.

      Intervenne così nelle lotte in Germania, dove non si volle riconoscere imperatore il pupillo del Papa, tra il partito guelfo, che sosteneva la candidatura alla corona imperiale di Ottone IV di Brunswick, e il partito ghibellino con Filippo di Svevia, appoggiò il primo, che aveva riconosciuto pienamente i diritti della Chiesa.

      Così Ottone IV venne incoronato imperatore a Roma nel 1209. Ma di fronte alla crescente potenza di Innocenzo, lo stesso imperatore Ottone IV si levò per difendere l'autonomia e la dignità dell'Impero. Il Papa, dopo aver scomunicato l'imperatore, cominciò ad appoggiare la candidatura del giovane Federico, che ormai era uscito di minore età. Il principe dovette però giurare di scindere la corona di Sicilia da quella dell'Impero, ma il futuro Federico II promise tutto, anche di fare una crociata, però non mantenne nulla. Egli come sovrano contrapporrà alla supremazia del papato il suo programma assolutistico della Casa di Svevia.

      Tralasciando altri particolari, ricordiamo che con la battaglia di Benevento, nella quale cadde il valoroso Manfredi (1266), e con lo sfortunato tentativo di Corradino di Svevia, che si concluse con la decapitazione del giovane e biondo Re nella piazza del Mercato in Napoli, ebbe termine nell'Italia meridionale la dominazione sveva, ed iniziò con Carlo I quella angioina.

      Gli Angioini conservarono in genere legislazione e strutture amministrative che il normanno Ruggero II e lo svevo Federico II avevano dato al reame nelle loro famose Costituzioni.

      Nel 1284 si ebbe da noi una importante modifica all'antica circoscrizione provinciale. Infatti la provincia di Salerno, che conservava la vecchia denominazione longobarda di Principato, fu sdoppiata, perché troppo estesa, dando luogo alle due provincie di Principato Citra (o citeriore) ed Ultra (o Ulteriore), delimitate dalle "serre di Montoro". Rispetto a Salerno, il Principato Citeriore (citra serras Montori) si trovava al di qua delle gole di Montoro; quello Ulteriore al di là (ultra) delle stesse, che comprendeva gran parte dei paesi delle attuali province di Avellino e Benevento, e che ebbe per un certo periodo come capoluogo Montefusco.

      Benevento, con altri pochi centri attorno alla città, costituiva un piccolo Ducato, soggetto alla S. Sede già dalla metà del sec. XI, definito dall'Imperatore Federico II: "petra scandali Regni nostri" nonché: "finestra del Papa, spalancata sul Regno", in quanto costituiva una piccola isola straniera, incuneata nel Regno.

      Iannacchini, non essendo a conoscenza delle notizie da noi acquisite, a pag. 76 op. cit., molto onestamente dice: "... si ignora da chi fosse posseduta Vallata in questo burrascoso periodo ...... ma per il 1343 include V. nella donazione fatta alla regina Sancia ed in quei feudi venduti a Raimondo del Balzo. Successivamenete V., come feudo dei Del Balzo e poi di Pietro Guevara Marchese del Vasto, Conte di Ariano e Gran Siniscalco del regno, pare che non abbia partecipato alla ribellione di costoro contro Ferdinando I (congiura dei baroni, 1486), che era stato munifico verso l'Università di Vallata, donandole la difesa di Mezzana, con diploma sottoscritto nel Castelnuovo di Napoli addì 23/8/1484, e confermato da un altro di Carlo V il 22/3/1530, "attesi i grandi servigi a lui resi da quegli abitanti". (Questi diplomi, nei quali sono annotati i confini della predetta difesa, si trovano nel vol. 549 dei processi della Commissione feudale, n. 3119, fol. 87).

      Ma nella discesa di Carlo VIII in Italia, per la conquista del regno di Napoli, troviamo V. parteggiare per i Francesi. Carlo VIII entra solennemente in Napoli, per Porta Capuana, il 22 febbraio 1495, dopo una resa spontanea a lui di Capua, Sangermano, Aquila, Gaeta ed altre città, suscitando allarme nei vari sovrani d'Europa.

      Difatti fu conclusa in Venezia una Lega tra il Papa Alessandro VI, i Veneziani, l'Imperatore Massimiliano I di Germania e Ferdinando II il Cattolico d'Aragona, Re di Sicilia, con lo scopo di scacciare Carlo VIII da Napoli e dall'Italia. Entrò in questa Lega anche Ludovico Sforza, detto il Moro, che pure nel giugno del 1494, per alcuni suoi ambiziosi disegni, come zio e tutore di Gian Galeazzo Sforza, duca di Milano, aveva istigato Carlo VIII alla conquista del Regno di Napoli.

      Nel mese di aprile giunse dalla Spagna a Messina Consalvo Fernandez di Cordova, detto il Gran Capitano, con 6.000 fanti e 600 cavalli, inviati da Ferdinando II il Cattolico, in soccorso del Re Ferrante o Ferdinando II d'Aragona, detto il Ferrandino, fuggito nel castello d'Ischia (21 febbr.), durante la sollevazione di Napoli contro di lui, e rifugiatosi poi a Messina nel mese di marzo.

      Frattanto Carlo VIII, che si era fatto incoronare Re di Napoli, saputo della formazione della Lega, con la metà del suo esercito prende la via del ritorno in Francia ed a Fornovo, sul Taro, si scontra con l'esercito della Lega, al comando di Francesco Gonzaga, Marchese di Mantova. I Francesi hanno la peggio, ma Carlo VIII riesce a fuggire (6 luglio 1495).

      Il Re Ferdinando II d'Aragona, insieme a Consalvo Fernandez, da Messina sbarca a Reggio e s'impadronisce della città, dopo un gran massacro di Francesi, che vince pure a Seminara, ma ha la peggio a Monteleone, presso il fiume Seminara, per cui rientra a Messina. Di qui parte verso Napoli e approda a Nisida: i Napoletani frattanto si sollevano contro i Francesi, acclamando Re Ferdinando, che entra in città nella notte del 7 luglio.

      La maggior parte della nobiltà e delle popolazioni napoletane aderiscono di-nuovo all'Aragonese, ma parecchi dei suoi baroni gli sono ribelli, col pericolo continuo di mettere sottosopra il regno, per cui il Ferrandino alla fine del 1495 invia ambasciatore a Venezia Girolamo Tuttavilla, che aveva ricevuto il titolo di Conte di Sarno, con l'incarico di stabilire una Lega tra Ferdinando e la Signoria Veneta.

      Con la nuova alleanza, sollecitata anche dal Duca di Milano Ludovico il Moro, i Veneziani s'impegnano ad inviare nel Regno aiuti di denaro e di uomini, con a capo il Marchese di Mantova, ricevendo in cambio, come fido delle spese di guerra, le terre di Brindisi, Trani, Gallipoli, Otranto, Nola di Bari e Monopoli.

      Stipulato l'accordo, il Tuttavilla riparte da Venezia e giunge ad Avellino, dov'era accampato il Re, 1'8 febbraio 1496. Questo nuovo anno si annunziava poco propizio per il partito aragonese: il 3 gennaio era mancato poco che Ferdinando cadesse in mano dei nemici, per un trattato da questi concluso col castellano di Sarno; già era corsa (col Principe di Salerno e con i rinforzi portati da Lenoncourt e da Carlo Sanframondo, chiamati dal Montpensier), accampati già da tempo presso la fortissima Terra di Sanseverino, la presero a patti; le genti che l'abitavano, con tutte le robe, si recarono all'esercito aragonese, allora a Sarno.

      Ferdinando aveva deciso di recarsi in Puglia, per impedire che i Francesi riscuotessero la dogana delle pecore alla partenza dei pastori per l'Abruzzo, e, lasciato a Vicerè di Napoli Antonio Guevara, conte di Potenza, si era avviato con l'esercito, per portare a piccole tappe il campo a Foggia.

      Frattanto, Francesco Gonzaga, che nella battaglia di Fornovo contro Carlo VIII aveva raggiunto l'apogeo della sua fortuna, dopo aver ricevuto dalla Repubblica di S. Marco istruzioni relative alla questione dei porti pugliesi, occupati in base all'alleanza conclusa col Ferrandino, parte per l'Italia Meridionale.

      Il 24 febbraio, per via fluviale lungo il Mincio e il Po, con 100 barche, partì da Mantova verso Ravenna, dove giunse il 26 febbraio, e vi si fermò qualche giorno, per attendere che giungessero le truppe per terra. La Compagnia era formata da 2.400 cavalieri, fra balestrieri e stratiotti (= soldati a cavallo, armati alla leggera) del Levante, uomini degni e valorosi, molto esperti nell'uso delle armi, e 1.000 "provixionati eletti". Mario Equicola in "Istoria di Mantova", conferma queste notizie: "... partì di Mantoua per acqua verso Ravenna con circa duemila e quattrocento caualli e mille provigionati...".

      A Ravenna lo raggiunse anche il magnifico Paolo Capello, oratore veneziano, designato a seguirlo sempre in tale spedizione.

      Ripartì da Ravenna il 1° marzo, addolorato per una infermità della moglie Isabella, cui era legato molto affettuosamente, come si rileva dalle lettere che le scriveva giornalmente, facendola partecipe delle sue imprese. Il viaggio proseguì in parte per mare. Il 2 marzo giunse a Cesenatico, dove fu allietato dalla notizia della guarigione della moglie, da promesse di aiuti militari dall'imperatore Massimiliano, e da attestazioni di fedeltà agli Aragonesi di Napoli da parte del Governatore dell'Abbruzzo. Altre tappe furono Rimini, Cattolica, Pesaro, Fano dove giunse la sera del 9 marzo. Qui trovò una lettera del suo agente a Roma, Carlo Scolona, con, cui questi lo invitava a Roma, da parte di Alessandro VI, che gli avrebbe consegnato l'ambita Rosa d'oro e lo avrebbe accolto con ogni riguardo.

      Il Marchese rispose che non avrebbe messo piede in Roma, se il fratello Sigismondo non avesse ottenuto la porpora cardinalizia. Poco dopo gli pervenne a Fano anche una lettera da Venezia, con cui la Signoria gli comunicava che l'oratore veneziano a Roma aveva dato buone speranze circa tale richiesta, soddisfatta però solo successivamente. Così il 26 marzo, di sabato, il Marchese fu accolto a Roma con grandissime manifestazioni di rispetto dai diplomatici accreditati in Vaticano, fu ricevuto affettuosamente dal Papa, dalle cui mani all'indomani, domenica delle Palme, ebbe la Rosa d'oro (1).

      Il 29 marzo partì per il Regno di Napoli, facendo tappa a S. Germano, Teano, Marzano, Galluccio, che gli si arresero, e Capua. A Benevento fu accolto dal Principe Federico, in assenza del Re, che si trovava in Puglia. Il 14 aprile ripartì per Foggia, dove contava di riunirsi al Re, per attaccare i Francesi, concentrati a S. Severo.

      Attraverso Ascoli Satriano e Lucera, il 26 aprile il Gonzaga raggiungeva a Foggia Ferrandino d'Aragona.

      Frattanto, ci ricorda l'Equicola, 1e cose francesi cominciarono ad inclinare, benché gli fosse souragiunto Virginio Orsini, col quale militavano tutti i Baglioni, Camillo, e Paolo' Vitelli, Paolo Orsino, e Bartolomeo d'Aluiano e altri Signori della fattione, che ascendeuno al numero di trecento e più huomini d'arme. Non era senza divina prouidenza, ò fato, che Ferrandino il lampo, e' 1 Gonzaga paresse il folgore non solo alle città, che alla diuotione francese si trouauano, ma anche alle Provincie. Qualunque si preparava alla resistenza, diueniva miserabile preda de' soldati, VALLATA il sà ......

      Dopo questa breve sintesi storica, ricavata da notizie dei vari autori citati nella bibliografia, con alcune descrizioni di dettaglio, trascritte quasi integralmente, senza citarne le fonti, per non appesantire il racconto di continue citazioni, conviene adesso lasciare completamente la penna ad uno storico del tempo di chiara fama, ordinato e ricco di dettagli, anche se alquanto soggettivo e parziale nella presentazione dei fatti: Paolo Giovio, nato a Como nel 1483 e morto a Firenze nel 1553. Egli fu Vescovo di Pagani e compose una poderosa opera di 45 libri "Historiarum sui temporis", dal 1494 al 1547, una inesauribile miniera di notizie, tramandate con una freschezza di linguaggio così vivace, da far rivivere al lettore gli avvenimenti narrati.

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   (1) Il citato Equicola così ricorda questo episodio: "Nella Messa solenne gli fu data la Rosa d'oro, dono ecclesiastico solito darsi a' grandi e grati alla Sede Apostolica; la qual Rosa significa gaudio e allegrezza del Chore Christiano. Fùiui aperto lo stendardo di S. Marco, portato dal nobilissimo e valoroso Alessandro Bajese, persona di somma bontà e fede: e Alessandro sesto cerimoniosamente lo benedisse...".

      Grazie allo zelo del nostro ricercatore, possediamo il racconto del Giovio che ci riguarda, nella freschezza originale del "volgare" e nella musicalità del testo latino, che non ha nulla da invidiare ai migliori testi del latino classico.

      Siamo pertanto lieti di far gustare al lettore la bellezza di questo duplice testo:

Testo volgare

      Dalle Istorie del suo tempo, lib. I, Cap. IV, pagg. 166-167

      "Il Marchese di Mantoua dunque desideroso di ferire di proprio uolere si tolse quella impresa: e passato innanzi con Francesco Orsino Duca di Grauina, molto pratico del paese, et sopra tutto fedele a' casa Aragonese, prestamente ritornò a' ubidienza Monteverde, Rocchetti, e Carbonara. Et anco la Vallata, castello posto sopra d'uno alto monte, fu presa con gran forza, e colera dei soldati e saccheggiata, essendoci tagliati a' pezzi quasi tutti i terrazzane; perciò che i Vallatesi con crudeltà villanesca perseuerando in fede de' Francesi subito di prima giunta haueuano ferito con frezze Alesso Beccacuto e Luigi Aluero Capitano d'una compagnia di fanteria scelta, e' 1 Grasso capo di squadra, ch'erano uenuti a' parlamento, e haueuano anco d'un colpo di sasso guasto il uolto a' Scardino, giouane nobile, e honorato paggio del Marchese. Perché tutti i popoli spauentati per la disgrazia de' Vallatesi, cioè gli habitatori di Vicobisaccia, di Carifra, della Guardia, di ciuita Santo Angelo, ritornarono a' ubidienza de gli Aragonesi. Il medesimo poco dapoi fecero Pandinesi, e Montecutani; e con una sola, e molto presta fattione s'aperse tutta quella strada..."
 
Testo latino

      Historiarum sui temporis, pagg. 144-145

      "Mantuanus, navandae operae cupidus, eam provinciam ultro sibi desumpsit : progressusque cum Francisco Ursino Gravinae regulo, regionis admodum perito et Araganiae domui in primis fideli, celeriter Montem Viridem, Rochetam et Carbonariam in fidem recepit. Vallata quoque, oppidum in edito colle positura, magna vi atque ira militum expugnata; trucidatisque ad unum ferme omnibus oppidanis, direpta, quod Vallatenses, agresti feritate in fidem Gallorum perseverantes, primo statim adventu ad colloquium progressos Alexium Beccacutum Aloisiumque Alberum, delectorum cohortis praefectum et Crassum centurionem missilibus vulnerassent; Suardinoque etiam, ex armigeris familiaribus nobili decoroque adolescenti, adversum os lapidis ictu deformassent. Vallatensium calamitate permoti, populi omnes qui Vicobisazam, Carifras, Guardiani, S. Angeli castrum urbemque Cidoniam incolunt, praemissis oratoribus, ad Aragoniam fidem redierunt. Idem paulo post fecere Pandinenses et Montecutani totumque id iter una atque ea admodum celeri expeditione patefactum est...".

      Per farci un'idea delle vessazioni cui erano sottoposte le nostre popolazioni, in questo burrascoso periodo storico, or dall'una or dall'altra parte, riportiamo nel solo volgare, fresco di cronaca, alcune pennellate del racconto di Giovio che, in qualche punto, sa dello "orripilante".

      "In questo mezzo i Francesi raunarono una innumerabil moltitudine di bestiame à San Seuero. Ma quando essi sperauano di dover riscotere i denari della gabella, Ferrando di notte mandò fuora tutta la caualleria di Foggia; e fatto uenire i causi leggeri del Marchese di Mantoua, e attaccato à un tempo scaramuccia in più luoghi, gli tolse, e menò gran parte del bestiame; tal che i Francesi, essendo rimase le greggie in preda dei soldati dell'una, e l'altra parte, e presi, e disper si i pastori, et poi messi in fuga gabellieri, perderono affatto l'occasione di preoccupare i denari.

      Erano, cosa ch'à fatica è da credere, più di seicentomila capi di bestiame minute, e circa à dugento mila delle grosse. Fu molto brutto, e degno di compassione lo spettacolo di quella fattion che si fece, essendo in quel tumulto con non aspettata calamità ruinate le ricchezze de gl'innocentissimi popoli. Perciò che si uedeua i soldati à uso d'assassini combattere fra loro per la preda, e i bestiami spauentati d'ogni parte fuggire per paura de gli huomini armati, i quali s'affrontauano insieme; i pastori legati essere strascinati; e ogni cosa essere messo sottosopra con tumultuosa qualità di contesa; e quello che era quasi cosa da' ridere, i soldati per disperatione di maggior guadagno frettolosamente tosare le pecore, e gli altri scorticare le scannate, per auere la lana, et le pelli.

      Gli Aragonesi menarono parte del bestiame à Troia, ma i Francesi ne condussero la maggior parte al monte Santo Angelo, e quindi nel paese dell'Abbruzzo, per restituirlo a' padroni, i quali erano della parte Angioina. Ma quella parte ancora del bestiame fu poco da poi saccheggiata da gli Aragonesi, essendo per isciagura Gratiano, et molti altri Signori Angioini, i quali assai sprouedutamente andauano per l'Abruzzo à difesa de' bestiami, incontratisi nel Cantelmo Conte di popoli, e in Traiano Sauello, da' quali furono uinti in scaramuccia à Pallena del contado di Sulmona. Mompensiero essendogli mal riuscito il suo disegno, che nè egli, nè i nemici haueuano hauuto i danari della gabella, s'inuiò a Casale albero per leuar quindi l'artiglierie grosse, e secondo il suo primo disegno andare à combattere Napoli. Doue nel uiaggio la terra di Coglionese dapoi ch'ella si fu resa, per crudeltà di Tedeschi, e di Francesi, tagliati a pezzi quasi tutti i terrazzane, e suergognate le donne, fu rouinata. Et anco Petracallo non ignobil castello, corse la medesima furia, e fortuna; e quindi si giunse à Casal albero per le ualli dell'Appennino...".

      Le poche pennellate del Giovio sono state sufficienti a presentarci il quadro fosco dell'avvenimento in tutta la sua drammaticità, che è confermata ed integrata da altri dettagli trasmessici da lettere personali del Gonzaga, inviate alla moglie quasi giornalmente, e da lettere di persone che presero parte attiva alla famigerata spedizione, come avremo modo di esaminare.

      Ma prima di vagliare questi documenti, non possiamo fare a meno di confrontare il citato testo del Giovio con quello di Riccardo da S. Germano, riguardante l'impresa di Marcovaldo: vi scopriremo un sorprendente parallelismo, anche di espressione, che conferma meravigliosamente la scoperta di quella spregiudicata fierezza del popolo vallatele, inserita come una "tessera" ben definita, nel contesto dell'anima popolare irpina.

      Notiamo anzitutto che il "quoddam Casale Apuliae" è ricordato da Giovio come un "Castello posto sopra d'uno alto monte = oppidum in edito colle positura": quindi una fortezza, un luogo ben fortificato che, per la sua posizione strategica, alla confluenza delle due vallate, regola il passaggio verso le Puglie e verso Napoli, donde la sua importanza di rilievo, rispetto ai paesi limitrofi. Ciò spiega perché è sempre Vallata ad essere presa di mira nei momenti storici più importanti, e la caduta di V. trascina dietro di sé la resa dei paesi viciniori, che potevano offrire ben poca resistenza: "Vallatensium calamitate permoti, populi omnes... ad Aragoniam fidem redierunt".

      Riccardo da S. Germano aveva detto: "vi cepit, et suis dedit in direptionem et praedam", mentre la traduzione latina del testo del Giovio puntualizza: "magna vi atque ira militum expugnata... direpta". Marcovaldo dovette ricorrere ad una prova di forza, per prendere il Casale e abbandonarlo "al fuoco e al sacco" dei suoi; il Gonzaga, per espugnare lo "Oppidum" dovette esercitare una "gran forza" e sollecitare la "colera dei soldati", con tutta la sua esperienza di valente capitano, per riuscire in un'impresa, che fa ricordare l'eccidio delle Termopili, come vedremo.

      L'ira dei soldati, accesa per la durezza dell'attacco inaspettato, non è soddisfatta dal sangue versato in campo aperto e dal successivo saccheggio del Paese, ma cerca di sfogare brutalmente nel truculento eccidio di quasi tutti gli abitanti, "essedoui tagliati a pezzi quasi, tutti i terrazzane". Questo "tagliare a pezzi", come carne da macello, ben giustifica la denominazione data dai nostri antenati al rione, che ancora oggi porta il nome "Chianchione" (o "Chiancone", come si trova alle volte nei registri parrocchiali), per ricordare ai posteri la Grande Chianca = il Grande Macello dei fieri Vallatesi.

      Dissento pertanto dall'interpretazione preferita dal Saponara, nel far derivare "Chianchione" dal verbo "chianchiere", per ricordare il "gran pianto"; e ciò per due motivi:

      a)    la nostra voce dialettale per indicare "piangere" non è "chianchiere" ma "chiangere", per cui si sarebbe dovuto dire "chianghione o chiangone";

      b)    il gran pianto, un pianto quasi isterico, sarebbe poco confacente al carattere dignitoso e fiero del Vallatele, che stiamo riscoprendo; la fierezza si rivela soprattutto nelle grandi prove. Del resto, sappiamo che i dolori più forti e profondi sono senza lacrime.

      Perciò, il riferimento alla "grande chianca" mi sembra esprimere molto più veristicamente la macabra scena, cui dovettero assistere i pochi superstiti.

      Passiamo ora all'esame della motivazione apportata dal Giovio, per dare una spiegazione all'orrendo eccidio: "... perciò che i Vallatesi, con crudeltà villanesca persuerando in fede dei Francesi...". E' sinceramente sorprendente, soprattutto per quei tempi, la crudeltà di questi montanari che, con il loro spregiudicato esempio, anche se ovunque spiri vento contrario, tentano di scuotere le popolazioni vicine, per liberarsi dal giogo delle vessazioni cui sono sottoposte: è un esempio di fierezza che, di fronte al sopruso, reagisce con... brutalità e spregiudicatezza!

      D'altra parte, lo scoppio violento di questo fuoco della crudeltà villanesca -vallatele, covava da tempo sotto la cenere di una sorda odiosità verso gli Aragonesi da parte di tutti i montanari irpini, esclusi pochi centri di minore importanza. Il Segretario Gaspare precisa infatti che, di tutta la Baronia di Flumeri, parteggiavano per l'Aragonese soltanto "quatro picoli Castelli, cioè Flumeri, Zungoli, Percarino et la Grota; e se l'andata costì del Marchese non era così presta, erano necessitati darsi a li Francesi, perhò che se ritrouauano da ogni canto.. circumdati da li nemici et maximamente de quelli de Ariano, (i quattro piccoli castelli si trovavano infatti in territorio d'influenza arianese) con chi loro non posseuano contrastare". Di Ariano si dice altrove: "il colateral speraua ozi hauer d'accordo Ariano, terra grossissima, e po' star a barato con Cojonise, et è il capo di la Baronia".

      L'avversionie quindi di tutta l'alta Irpinia agli Aragonesi, che per i Vallatesi è irriducibile, non può trovare altra spiegazione che nello sfruttamento continuo, cui erano sottoposte queste terre, che speravano di liberarsi votandosi, in questa circostanza, alla causa francese. Quest'odio era poi rinfocolato certamente dall'atteggiamento di alcuni feudatari, guardiani, fattori e curatoli vari, che rincaravano le dose dello sfruttamento fino all'esasperazione.

      Vallata, come abbiamo ricordato, aveva avuto da Ferdinando I qualche privilegio (23/8/1484), ma un singolo atto di magnanimità non poteva bastare a strappare dal cuore della popolazione un astio continuamente rinfocolato. Tale odiosità aveva forse raggiunto l'acme in V., per la tragica e proditoria fine del suo feudatario Pirro Del Balzo. Tutto questo spiega la crudeltà villanesca esplosa da un'intera popolazione, esasperata per tanti motivi.

      A conferma di questa nostra interpretazione dei fatti, il Pontino nel "De bello neapolitano" (Lib. 1, pag. 273), ci ricorda che, nelle famose guerre tra Angioini ed Aragonesi, Vallata, con altri paesi, parteggiò per i primi, giacché nel 1460 Ferdinando I svernava in Montefusco, Giovanni d'Angiò Duca di Lorena e il Principe di Taranto furono in Gesualdo, Vallata e Carife, donde passarono nelle Puglie. Da ciò possiamo dedurre che V., posseduta, insieme ad altri paesi viciniori, da Pirro Del Balzo Principe di Altamura, per la ribellione di costui e d'Isotta sua figlia (maritata a Pietro di Guevara), gli fu tolta e data a Federico d'Aragona, insieme alla baronia di Vico e Flumeri ed altre città e castelli, come da un diploma dato in Napoli il 3 agosto 1487. Perciò non deve far meraviglia sé questa terra, fedele agli Angioini ed ai Del Balzo, parteggiò per Carlo VIII nella sua discesa in Italia.

      La goccia, che avrebbe fatto travasare il vaso, sarà stato certamente il modo altero e provocante, con cui i legati erano venuti a parlamentare a V., imponendo una resa immediata, come si era verificato il giorno pretendente con Monteverde, Rocchetti ed Aquilonia, solo perché il Marchese disponeva di una schiacciante supremazia di forze. Anche Monteleone, centro di 250 fuochi, cedette codardamente, come attesta il Gaspare: "... terra forte de sito et de muro, subito li huomini uenero fora et se redusserd a la deuocione del Re, che fo cosa de momento per auere el transito libero da Napoli, per le uictuarie, che securamente non posseuano uenire".

      Ma, in questo quadro avvilente di codardia delle vicine popolazioni, spicca maggiormente la spregiudicata reazione, offerta da Vallata all'incontrastata marcia del Gonzaga, come ci tramanda anzitutto il citato Segretario Gaspare in "Croniche del Marchese di Mantova", pubblicate un secolo fa dalla Rivista "Archivio storico lombardo" del 1879 (pagg. 503-504).

      "El giorno seguente haueua determinato andare ad un altro loco chiamato Castello per castigare quelli homini che se ne erano dimostrati perfidi inimici dil Re, ma perché il paese era molto aspero per il condure le artegliarie, tomo uolse la fortuna, gionto Francesco ad una terra chiamata Vallata, li homeni de la terra saltorno prosumpuosamente fora et feritino quatro homini principali cioè: il Grasso Capitanio de li Provisionati de Venetiani, el Suardino, Alexio Becacuto prefetto de Stratiotti et Alouisio de li Arbori, homini tutti ualorosi et molto grati al Marchese. De che indignato fece uenire le zente tutte et detteli una asperissima bataglia in la quale mancharono più de cento settanta homini de la terra et messola a sacho, doue fu guadagnato un numero infinito de bestie, arzenti et altre robe de grande ualore, et perché gli sopragionse un sinistro tempo fu forza fermarse lì per otto giorni, doue fu guadagnato, ultra le altre cose, formento et uino in grande quantità; et Francesco come principe magnanimo et pio anchora -che la infedeltà di quella terra hauesse meritato ogni male uolse perdonare alle donne et a li figlioli piccoli, commettendo al Conte de Pianella suo secretario che pigliasse cura che alcuna non ne fosse maculata, le quale mettendole in loco securo facendogli prouedere de le cose necessarie, tutte furono saluate, tanto la loro uerecundia como de li denari et robe si ritrouauano hauere adosso. Et tomo più presto fo partito lo exercito, le fece ritornare in la terra et in le case loro proprie".

      Questo documento, pur affermando dei particolari discutibili, circa la magnanimità del Marchese verso donne e bambini, come avremo modo di contestare, aggiunge altre pennellate al quadro già così ben definito dal Giovio. Vediamo anzitutto questi intrepidi Vallatesi, che saltano fieramente fuori le mura e rispondono per le rime alla legazione del Marchese, che pretende la resa immediata. Il Gonzaga non conosce ancora l'ostinata fierezza di questo popolo, che non si piega alla sopraffazione, per cui sorpreso ed indignato di tanta "presuntuosità", con tutte le forze disponibili attacca una "asperissima bataglia", in cui trovano la morte più di 170 uomini.

      Il numero dei caduti, in campo aperto, è precisato meglio dallo stesso Marchese, in una lettera scritta al Signor Floriano Dolfo, un giureconsulto bolognese, che aveva importanti incarichi nella Repubblica di Venezia (Arch. di Stato di Mantova, Gonzaga, busta 2907, Copialettere libro 155, ff. 92^- 93).

      Domino Floriano Dolpho

      "... tacemo cum quante amorevole demonstratione fossimo recolti da questo serenissimo et magno Re, che più non seria possibile dire o immaginare, et per non perder tempo fino ad tanto che la prefata M. tà seducesse le zente alla campagna, noi se transferessimo alla Baronia de Flumere, la qual tutta acquistassimo in quatro giorni, dando una asperissima bataglia ad Vallata, la qual expugnata minimo ad sacho cum occisione de più de 250 persone, salvando sempre la vita et honore de le donne et de li putti picolini, el che fo di tanto spavento che tutto il resto, col magiore timore del mondo, retornarono alla pristina Regia devotione, et ultra de questo, Monteleone, Pandi (= Panni, Fg.) et Monteacuto (= Montaguto, Av.), (2) lochi ultra la fortezza assai de importantia, per avere via expedita di Napoli, dove prima non se posava andare..." Ex castris felicis... apud Tellam XXVIII junij 1496.

   _________________________
   (2) La rivalità di questi due paesi che, pur essendo situati uno di fronte all'altro, appartengono a provincie diverse, è ricordata da una tradizione popolare secondo la quale, in uno avrebbero costruito un muro, che impedisse all'altro paese di godere della luce del sole, e nell'altro avrebbero costruita una campana di legno, per impedire al paese rivale di sentirne il suono!

      Secondo questo documento quindi, i morti in campo aperto furono più di 250, probabilmente proprio nella zona antistante alla porta del Tiglio, corrispondente al rione Chianchione, fuori le mura.

      In una lettera di Bernardo Contarini, inviata da Nocera il 9 maggio 1496, abbiamo altre precisazioni importanti: "... la presa di Vallata, mia (= miglia) 16 lontano da Montelion, et che, da li villani che ussiteno, fu ferito el Grasso capitano magnifico, non però di pericolo, et che in meta hora combatendo presero la terra, et nel primo assalto fo tagliati a peti più di 200 homeni et 5 femene, come intese da Zuan da Feltre da l'Ochio contestabele nostro, era venuto la sera avanti da lui per tuor danari per dar paga a li provisionati. Et chome li tre castelli nominati di la Baronia del signor principe di Altamura, la matina seguente, li portò le chiave e tornò a l'ubidienza dil re...

      Possiamo allora puntualizzare il numero degli uccisi in questo "primo assalto" durato mezz'ora: la discordanza su tale numero non è da attribuirsi a leggerezza di valutazione da parte dei cronisti, in quanto le precisazioni sono date in tempi diversi: subito dopo l'evento, il Segretario Gaspare, ancora nella confusione del momento, riporta la notizia di "170 uomini"; dopo tre giorni, la cifra è precisata in "200 uomini e 5 donne" dal Contarini" ed il 28 giugno dallo stesso Gonzaga, dopo aver controllato tutto con calma, la cifra è ulteriormente precisata in "oltre 250 persone", fra le quali delle donne.

      Anche per quanto riguarda il saccheggio, che procurò ai vincitori un lauto bottino di animali in gran numero, di argento in abbondanza, di monete e di altri oggetti di gran valore, ecc., siamo in condizione di apportare ulteriori precisazioni.

      Il Sac. D. Domenico Antonio Mirabelli, in un suo manoscritto inedito, ma consultato e citato di frequènte dal Saponara, parla di tesori saccheggiati, fra i quali fu certamente svaligiato anche il rinomato tesoro della Chiesa matrice. Siccome poi l'esercito, a causa del cattivo tempo, rimase accampato presso Vallata per otto giorni, "ultra le altre cose", come corredi nuziali finemente ricamati, vestiarii, arredi di casa ecc., i soldati ebbero tutto il tempo di fare man bassa di provviste casalinghe, come formaggio, salami, legumi, animali domestici ecc., "formento et uino in grande quantità". Non poteva certo sfuggire a quelle soldatesche il pastoso nostro vino collinare che, non essendo di elevata gradazione, si lascia bere con gusto ed... in quantità!, anche perchè ben conservato, a temperatura costante, nelle numerose grotte del paese.

      I vari cronisti poi, molto ostentatamente, puntualizzano "la magnanimità e pietà" del Marchese nel salvaguardare l'onore delle donne superstiti : ma sarà egli veramente riuscito a controllare la condotta dei suoi uomini, assetati di vendetta, di bottino, di pasti innaffiati dall'ottimo vino? Pur precisando il solerte Gaspare che le donne "tutte furono saluate, tanto da loro verecundia come de li denari et robe se ritrouauano hauere adosso"? Abbiamo molto da dubitare che i soldati, in quello stato d'animo, si siano contentati di fare soltanto delle rispettose... perquisizioni personali!... alla caccia di questi tesori reconditi!!!

      Inoltre, anche sei cronisti non parlano esplicitamente di incendio del paese, tale incendio sembra essere sotteso nell'espressione usata dal Marchese di "totale disfactione", che fa pensare ad una totale distruzione. Il citato Mirabelli, dopo oltre tre secoli, sembra ancora cogliere nella tradizione orale tutto l'orrore di questa tragedia, dandone una descrizione che sa di... apocalittico!

      "... non ci rimase pietra sopra pietra... fu una gran violenza diabolica, che non ci rimase pietra in piedi... fu uno spettacolo di forza che i convicini si arrendessero... il tutto anderà a fuoco, a sangue... Spalancate le porte, rovinate le mura, gettata al suolo la Terra, diroccati i palagi e i sacri tempii, morti o fuggiti gli habbitanti, saccheggiati i tesori, vi trionfò l'orrore e vi passeggiò la morte... e fino al giorno d'oggi v'è la nomina fresca della gran rovina partorita".

      Il manoscritto ricorda poi che anche la Chiesa fu saccheggiata e bruciata, per cui il Duca di Gandia Giovanni Borgia, figlio di Alessandro VI, Principe di Altamura, cui il re Federico donò il feudo di Vallata, "la ristorò dalla miseria e dal sacco", donandole il feudo di Salitto, lo jus terreggiandi e. il molino ad acqua, detto appunto della chiesa, che fruttò la rendita di vari tomoli di grano.


      Questo gesto di magnanimità da parte del Duca è sotteso nell'epigrafe, sistemata a fianco dell'ingresso secondario della chiesa (chiuso con i lavori di riparazione del 1903, ed oggi riaperto con l'attuale riparazione), che ricorda la riapertura al culto e la seconda consacrazione della chiesa, avvenuta il 2 luglio 1499:

"A. D. MCCCCLXXXXVIIII
REGNANTE REGE FEDERICO
DOMINANTE DUCE GADIE"

      "Nell'anno del Signore 1499 - Sotto il regno di Federico e il dominio del Duca di Gandia".

      Il nostro Mirabelli, dopo molti anni dai fatti, dà la chiara sensazione di leggere vivo ancora negli occhi, sul volto e nelle espressioni, nella "nomina fresca" dei suoi contemporanei tutto l'orrore di quella rovinosa tragedia.

      L'orrore dell'eccidio e della distruzione di V. dovette far colpo su tutte le popolazioni vicine, i cui sindaci "tremando" portano al Gonzaga le chiavi delle loro città, come precisa il citato Secretario Gaspare: "Impauriti li lochi circumstanti de tal caso, quella medesima nocte uenero da Francesco li Sindaci de la cità de Vico Bisaza, de Carife Castello, la Guardia Lombarda, la Morra Santo Angelo, la cità de Lacedonia et tutte le altre terre circumstante, tremando cum la chiaue in mano, domandando misericordia, li quali Francesco receuete cum grato animo confortandoli ad essere fideli a la Regia Maestà".

      Sullo sfondo di questo tremore pavido di tante popolazioni irpine, spicca maggiormente la fierezza dignitosa e quasi di sfida del popolo vallatele, riconosciuta dallo stesso Gonzaga, come si può notare da queste lettere scritte alla moglie, nei giorni della sua permanenza nella zona.

      In una lettera scritta da Torrecuso (Bn.) il 30 maggio 1496, richiama l'attenzione della moglie sulla vigliaccheria del nemico in un paese del Beneventano, Circelli, in questi termini: "... li nimici, essendole acampati ad una terra chiamata Cercegli... dove havendo data bataglia cum artiglieria, se è tenuta forte et restatone cum loro vergogna. Et noi mo terzo giorno cum li cavalli legieri andassimo insino nel campo loro, tollendogli ben XXV cavalli et amazandogli li homini insino in li allogiamenti loro, che mai hebero animo atacharse cum noi, demostrando una gran vilità..."

      In una lettera scritta da Monteleone il 5 maggio 1496, alla vigilia della battaglia di V., così si esprime:

      Ill/ma Coniunx Amatissima.

      Hogi col nome di Dio havemo dato felice principio alla nostra vicina victoria, che essendo appena gionto qui ad Monteleone, luoco de sito et de muro forte et de grande importantia maxime per il transito libero de andare ad Napoli, li homeni sono venuti da noi et liberamente se sonno reducti alla devotione de la M. tà del S. Re, cum promessione de esserli sempre fideli; dove noi per beneficio de quella l'havevamo acceptati et tolta la tenuta de la terra ad nome de Sua M.tà et domane bonis avibus andaremo ad un luoco qui vicino chiamato Castello, quale estimamo obtinere incontanenti et metterlo. ad sacho et fargli ogni aspero tractamento per terrore et exemplo de li altri, havendo anche così ordine dal S. Re et poi de mano in mano andaremo seguitando la victoria, sperando de tale impresa felice exito... Ex castris feliciss. Regiis et Ill.mi Do. Ven. apud Monteleonem V maij 1496.

      E adesso trascriviamo la lettera che puntualizza l'ostinata fierezza vallatele, che giunge spregiudicatamente alla sfida:

      Ill.ma Coniunx nostra amatissima.

      Hieri circa le XX hore (= le due pomeridiane) essendo conducti qua ad Vallata, luoco forte de sito et de homini (ammirevole questo riconoscimento che viene dal nemico, in un quadro di generale ed avvilente vigliaccheria!) al quale avendo data una asperissima bataglia; tandem per forza havemo havuta et messa ad sacho et amatati una gran multitudine de homini, dove de li nostri non è morto et pochi feriti, seben alla prima scaramuza forono feriti lo Capitano de Citadella de Verona Alexio nostro Bechacuto et Alovisio de li Arbori, avisandove che de questa aspereza et morte de tanti homini, loro medesimi se ne hanno dato causa per haver voluto tenerle et usare termini molto insolenti, seben sopra tutto havemo voluto che l'honore de le donne sij stato salvo et fattole reservare tutte insieme cum li putti piccolini. Per la quale demonstratione meritamente impagurite tutte le terre rebelle de questo paese, questa nocte un luocho chiamato Carife ne ha mandato le chiave, et tutta volta se aspetta Vicho et Castello. Hogi staremo qua fermi et domane col nome de Dio andaremo sequitando la victoria; del successo de passo in passo ve ne daremo aviso.

      Tutta volta scrivendo questa sono venute alla fidelità de la M.tà del S. Re la città de Vicho, Castello, Bisaza et la Guardia de Lombardi...

      Ex castris... apud Vallatam VII maij 1496.

      Il panico continua a dominare incontrastato!

      Ill/ma Coniunx nostra Amatissima.

      Questa macina li homini de la cità de la Cidonia sono venuti a noi reducendose alla fidelità de la M.tà del S. Re li quali noi havemo acceptati voluntiera, pur essere luoco molto importante de questa baronia... Datura in castris... apud Vallatam VIII maij 1496.

      Ill.ma Consors nostra Amatissima.

      Essendo noi bonis avibus heri gionti qua ad una terra chiamata Pandi, subito li homini de essa venero fora ad noi et per meno nostro reductosi alla fidelità de la M.tà del S.r Re. Hora per lettere sue se levamo de qua et con questo nostro fortunato exercito se inviamo verso l'Orsara. Et noi con la nostra persona andaremo alla prefata M.tà aciò possiamo conferire con quella quanto accade...

      Ex castris... apud Pandum XV maij 1496.

      Ill.ma Coniunx nostra Amatissima.

      Da poi acquistata la terra de Pandi... ve havemo significato... noi se inviassimo alla volta de l'Orsara... dove ne vennero incontra li Sindaci de Monteacuto, portandone le chiave de la terra...

      Datura Lucerie XVIII maij 1496.

      I testi riportati ci hanno forniti altri particolari di rilievo:

      a)    Obiettivo iniziale della spedizione punitiva, anche per valore del Re, non era Vallata, ma Castel Baronia, che pavidamente accetterà la resa.

      b)    L'ora di arrivo del Marchese a V., col grosso dell'esercito, da Monteleone è "circa le XX hore", corrispondente alle due pomeridiane, in quanto le ore 24, secondo anche l'antica consetudine, corrispondono alle sei pomeridiane, quando ancora oggi si usa suonare "ventiquattrore" per l'Ave Maria.

      c)    Il Gonzaga comunica alla moglie l'uccisione di "una gran moltitudine de homini", senza precisare il numero, per non spaventarla, mentre dalla sua parte ci sarebbero stati soltanto pochi feriti, senza nemmeno un morto! Notizia falsa perché in evidente contrasto con l'asprezza della battaglia ed il valore dimostrato dai Vallatesi, come egli stesso ammette.

      d)    Inoltre egli, quasi a volersi scusare con la moglie del barbaro eccidio, precisa che "loro medesimi se ne hanno dato causa" per la loro insolenza: non poteva certo dire alla moglie che tale insolenza era stata provocata dall'atteggiamento sprezzante della sua delegazione.

      Infine, per non urtare la viva sensibilità della moglie, ci tiene ad ostentare impegno per la salvaguardia della vita, nonché dell'onore. delle donne e dei bambini. Ma la notizia è in evidente contrasto con quanto egli stesso trasmette la sera stessa del 6 maggio all'orator Polo Capelo, con una lettera che giunge a Nocera subito all'indomani: "... in uno loco nominato Vallata, qual pigliorono per forza, tagliando a peti ogniuno, non guardando né a sexo né a età".

      Anche il collateral Zuan Philippo, in una lettera scritta "hora prima noctis", verso le ore 19 di quel fatidico 6 maggio, così si esprime: "... tandem (= finalmente, dopo un durissimo attacco) se obtenero le mura et intrati dentro non fu perdonato né a età né a sexo" e solo dopo che i pochi superstiti deposero le armi, "fu facto un bando che le dove e li homeni fusero salvi della vita".

      Ecco quando si rivela la magnanimità del Marchese! quando si trova di fronte ad un residuo di superstiti inermi, in mezzo alla carneficina di un... grande macello!!! Altro che "crudeltà villa nesca " di fronte a questa raccapricciante barbarie di un intero paese ridotto ad una immane... mmane... chianca!

      e) Le date delle lettere confermano che, effettivemente, il Gonzaga si fermò con l'accampamento presso V., a causa dell'inclemenza del tempo, dal 6 al 13 maggio 1496: le soldatesche ebbero così tutto il tempo di sfogare la loro sete di vendetta col saccheggio e con la "totale disfactione" del paese. La partenza per Panni infatti avvenne la mattina del 14 maggio.

      Lasciamo, ancora una volta, la parola ai cronisti, che si rivelano dei veri cesellatori di ogni minimo dettaglio della spedizione, anche se non liberi da... mitomania!

      Il citato orator cavalier Polo Capelo così trasmette a Venezia le notizie giuntegli a Nocera il 6 maggio, con lettera inviata da Zuan Philippo colateral da Monteleone, datata al 5 maggio 1496:

      "Ho auto lettere ozi, fate eri in campo appresso Montelion, a hore 21, dil capitano zeneral nostro e di Zuan Philippo colateral. Dice che presentati a le mure non ancora con tutto l'esercito, quelli di la terra levono segno di acordo, i quali sono ricevuti per nome dil re. Ozi doveano andare a Chazitello (Castello), qualle voleva dar a sacho. Il colateral scrive sperava ozi haver d'acordo Ariano... poi anderiano Apize, mia 7 propinquo a Benivento. Li nimici sono dove erano apresso Cajonise, ne altro se intende".

      Questa lettera giunse a Venezia il 17 maggio per via Napoli e poi Roma, evitando la via di S. Germano, dove c'era il pericolo che fosse intercettata.

      Altre notizie giungono allo stesso a Nocera il 7 maggio da parte del Marchese, con lettera scritta da V. il 6 maggio, subitò dopo la battaglia: "Per lettere di la excelencia dil signor marchese capitano, di heri, si ha esser andato con la zente ad uno loco nominato Vallata, qual pigliarono per forza, tagliando a pezi ogniuno, non guardando né a sexo né a età. Fo tutto messo a sacho, e fo necessario far cussì per rispetto di altri lochi.

      Ben è vero fu ferito 4 de li soi valenti homeni, videlicet el Grasso capitano di la fantaria, Alexio capitano de li balestrieri, Alvise di Albori, e uno missier Jacomo Soardino. Però non è tropo ferite da conto, excepto el povero Alvixe di Albori, qual è stato ferito in una tossa da una partesana (= partigiana, lancia, alabarda, che è un'arma in asta, con ferro tagliente molto largo, a mezzaluna).

      Li imimici non sono ancor levati da Cojonise, e questo perché li fanti alemani, che se hanno ingrassato del butino, non se vollero levar se non barano l'exito di quello. El re ozi è cavalcato per veder uno alogiamento, perché di breve vol ussir in campagna. Li stratioti ardono col capitano...". Questa lettera giunse a Venezia il 18 maggio.

      Abbiamo. inoltre una lettera di Bernardo Contarino diretta a l'orator a Roma, scritta il 7 maggio a Nocera, dietro lettera del Marchese, inviata ugualmente da V. il 6 maggio (quale intreccio di trionfalistica informazione!)

      "Ozi, a meno zorno, ho avuto lettere da lo illustrissimo signor marchexe, de campo suo appresso Vallata, per le qual dichiara che, havendo li homeni del dicto castello voluto defenderse gagliardamente, per le qual defese fu ferito el capitano Grasso di uno passador, per forza quello tolse et halo sacomanato (= saccheggiato) et facto tagliar a pezi ogniuno.

      Questa nocte a hore due (= ore 20), pur per sue lettere, se intende come quella, havendo mandato a dir ad alcuni altri castelli li vicini dovessero ritornar a la devuzion di questa regià majestà, aliter li faria lo instesso, 4 de' dicti castelli, zoè Vico, Castello, Cirife et Basata se sono renduti a la devotione de la dieta regia majestà, et cussì sua excelencia va proseguendo felicissima victoria, con grandissima reputatione et immortalissima fama de la Illustrissima Signoria nostra, contento et satisfactione grande di questa regia majestà".

      testi riportati colpiscono per il gesto sinceramente avvilente dei Sindaci dei vari paesi che, "tremando cum le chiane in mano e col magiore timore del mondo", di buon mattino si presentano al vincitore per "domandar misericordia", come se fossero stati colpevoli di qualcosa verso l'oppressore; mentre l'unica, vera e grande colpa, che avrebbero dovuto sentire in quel momento verso la conterranea Vallata, era il fatto ignominioso di non essere stati solidali, per tentare almeno di scuotersi dal giogo secolare dello sfruttamento.

      Un vero gioiello di "servizio giornalistico" ci viene offerto da una lettera di Giovan Filippo Aureliano, in cui egli cronometrizza ogni movimento, quasi per farci rivivere tutti i particolari dell'episodio; abbiamo così le ultime pennellate del quadro, che abbiamo cercato di ricostruire in tutta la sua drammaticità.

      Copia di una lettera scritta a l'orator nostro a Roma per Zuan Philippo collateral, narra la presa di Vallata.

      "Magnifica et Ilarissime eques, domina et compater honorabilis.
Hozi, non expectato altro hordine da la regia majestà, venissemo ad uno loco de la baronia, chiamato Vallata, distante da Montelione circa miglia sei. Et zonto prima alcuni ballestrieri nostri a cavalo, li homeni de la terra, extimando che fusseno andati per far butino, (ma il bottino in denaro non era certo escluso,  come compenso della resa immediata che si chiedeva!) venano fuori animosamente, (è l'animosità di chi non intende accettare la sopraffazione!) ma per li nostri fu rono rebatuti fino a le mura. Et in questo congresso, el magnifico Francesco Grasso capitano fu ferito da uno passatore soto a la alesino destra, che passa quasi a la extremità di la schena, e di una lanza a uno zenochio (è la prima "freccia" che colpisce il capitano Grasso sottoil braccio destro, lanciata con tale perizia e forza, da farla uscire dietro la schiena, e un colpo di lancia al ginocchio). Manfredo da Vizenza, capo di balestrieri a cavallo del prefato magnifico Grasso, in uno brano con uno passatore (è la specialità vallatese!); Alexio, capo de li stratioti (= soldati levantini a cavallo, armati alla leggera) de lo illustre signor marchese, in uno deto grosso del pede (trovandosi egli a cavallo, è colpito all'alluce); Alvise da li Albori in una cosa da una partesana (anche costui è sistemato con un colpo di alabarda alla coscia: quest'arma in asta, con ferro tagliente molto largo, a mezzaluna, è usata tutt'oggi dagli "alabardieri" nella Processione di Venerdì Santo. E' probabile perciò che, in tale circostanza, i Vallatesi, d'intesa con l'Arciprete che, come vedremo, fu anche l'animatore di questa azione bellica, siano ricorsi anche alle armi riservate per la processione, come lance, alabarde, spade, ecc.: a mali estremi, estremi rimedi!).

      De questo se dubita: tutti li altri non haverano mal di pericolo. Da poi, sopravenute con difficoltà le nostre artegliarie, et facto intender a li homeni se volessero render, cominzono Gridar Franza, Franza (par di sentirlo questo grido di guerra dichiarata!).

      Piantate duo bombardelle et alcuni passavolanti (= macchine per lanciare sassi in guerra), e da poi messi li schiopetieri et balestrieri a le poste, li fanti nostri se presentorono a le mura, animosamente, benché li sazi volaseno da le mura (altra specialità vallatele! C'è da pensare che anche i ragazzi abbiano dato il loro contributo) et quelli de la terra lavorassimo cum artegliarie. Apuzate le scalle, et ascendendo li nostri, più volte furono rebatuti dall'altra parte; (e poi si vuol far credere che non ci sia stato fra loro nemmeno... un morto!) pur li fanti nostri atendevano a romper le mura. Ultimo loco, lo illustrissimo signor marchese, el qual astava e dava animo a tuti exhortandoli a la victoria, fece desmontar duo squadre de li suo homini d'arme et conduseli a le mura, et russi cominzorono ancor lhor a scender con le scalle. Combatendosi la terra da tre bande (quasi certamente in prossimità delle tre porte) et defendandossi li homeni virilmente, tandem se obtenero le mura, et intrati dentro non fu perdonato né a età né a sexo. Deposte le armi per quelli de la terra, fu facto un bando che le dove et li homeni fusseno salvi della vita (non si poteva certo ancora infierire contro questo manipolo di superstiti inermi, che portavano scolpiti sul volto e negli occhi la terrificante visione di quella tragedia!). Tuta la terra fu sachizata (possiamo immaginare con quale rabbia!). Magnifico patron, io riferisco el vero perché vedo ogni cosa con l'ochio. Lo illustrissimo capitano ha facto da savio et, da animoso. Le sue zente d'arme da viril homeni. Non dirò niente de li nostri contestabili et provisionati, perché voglio che altri li laudano; ma pur non posso tacer che io li vidi apresentar cussì animosamente quanto vedesse mai altri soldati, o che 'l fusse per la virtù lhoro, o che la presentii del capitano li desse animo. Prexa la terra, io entrai dentro. Era una pietà a veder li homeni morti per la terra che zasevano per le strade e ne' le caxe (Ecco espresso molto veristicamente e crudalmente la grande chianca, offrendo uno spettacolo allucinante, che non ha nulla da invidiare agli spettacoli tramandatici dalla fantasia omerica). Tute le donne che restorono, per prudentia del capitano fono reducte a una chiesia et furono salvate (si tratta certamente della chiesa madre, sia per la capienza, che poteva offrire ai superstiti, sia perché situata al punto più importante del centro storico, in prossimità del castello: è questo uno dei tanti motivi che ci legano a questa chiesa secolare, le cui pietre ancora ci testimoniano tante vicende dei nostri avi).

      Spero che con questa crudeltà, molte altre terre veniranno sponte a la devution del signor re (per motivo di esemplarità si giunse a tanta barbarie!).

      Ex felicissimis castris apud Vallatam, die 6^ maji, hora prima noctis (= ore 19) 1496.

      Scripta la presente et non serata, sono venuti ad obedientia de la majestà dil re le infrascripte terre, videlicet Vico, Castello, Bisaza et Carafe et spero ne venirano de le altre senza bota de spada,

      Data ut in litteris, 7^ maij hora 12^(= ore 6 del mattino).

      A tergo. Magnifico et Ilarissimo equiti domino Hironimo Georgio oratori etc.

      Questo capolavoro di servizio giornalistico, tramandatoci dalla penna di un acuto osservatore che ha visto "ogni cosa con l'ochio" ci ha fatto rivivere tutta la tragicità di quel doloroso episodio, la cui eco si conservò a lungo nella tradizione popolare di tutta l'Irpinia e dei vicini paesi della Puglia, come Rosso Pietrantonio da Manfredonia ricorda nel suo "Ristretto dell'Istoria della città di Troia". Questi sintetizza così la terrificante battaglia di Vallata:
Il marchese "giunto a Vallata, quella trovata molto ostinata nella perseveranza della fedeltà al francese, l'assediò; e, al combattere, dai terrazzane fu, a colpi di sassi, morto uno dei più chiari della corte del marchese (il Scardino è dato da lui per morto); il che tanto più gli giunse sdegno; e non attese ad altro, se non a restringere le forze de' Vallatesi, ed incalzare l'assedio e battaglia chè, finalmente la prese, e la fece saccheggiare; e fece tagliare a pezzi quasi tutti i terrazzani. Con detto marchese era capo di squadra d'uomini d'armi vecchi Italiani il Grasso di Troia, qual' fu buon soldato di quel tempo; sua posterità è in Troia, benché in pochi e poveri a' loro condizione. La fama d'esser stata rovinata Vallata sì sparse per le terre convicine... e così fu aperta agli aragonesi la via sicura da Puglia a Napoli".

      Per poter riuscire in questa impresa, il Marchese impegnò tutte le forze stanziate nel campo di Monteleone, che si era arresa senza colpo ferire, come abbiamo ricordato. I particolari di questa disponibilità di forze sono ricordati in una lettera di Bernardo Contarini, scritta da Nocera il 3 maggio 1496:

      "... era stato deliberato (in un consulto del 30 aprile fra D. Cesare, Prospero Colonna, il conte Alessandro Sforza, il duca di Melfi ed altri) chè il marchese andasse a campo a Montelione, mia 12 da Ascoli, et ivi bisognava condur le bombarde, et che erano avantazati tutti uniti da li inimici, homeni d'arme 100, cavali lizieri 1.000, et fanti piuttosto più che meno".

      Per altre notizie il lettore può consultare i "Diarî" di Marin Sanudo (il Giovane: 1466-1536), iniziati il I° gennaio 1496, al quale giorno arriva il racconto dell'impresa francese "La spedizione di Carlo VIII", dedicata al doge Barbarigo, come ammonimento che, "Havendo l'eterno Iddio posto le Alpi per termene che barbari e tal generatione fusseno divisi dalla italica giente", nessuno straniero poteva "longamente dominar" in Italia.

      In questa poderosa opera dei Diarie, di ben 58 volumi, il Sanudo registra quotidianamente ogni avvenimento, che si verifica nella Repubblica di S. Marco in quegli anni, raccogliendovi lettere, documenti, relazioni di oratori, ragguagli sulla cultura, sul commercio, sulle opere pubbliche, sui costumi. Abbiamo con essa una schietta ed inestimabile fotografia di quell'epoca tempestosa, nella quale le conquiste straniere in Italia, il duello gigantesco tra Francia e Spagna, l'incalzare minaccioso del Turco, lo spezzarsi dell'unità religiosa, le scoperte geografiche, il trionfo della cultura rinascimentale aprivano per Venezia, per l'Italia e per il mondo intero un nuovo capitolo di storia.

      Il Gonzaga, durante la sua campagna bellica nelle nostre zone, continuò ad interessarsi anche di affari amministrativi riguardanti alcuni paesi sottomessi, come si rileva dalle seguenti lettere.

      La prima lettera che esaminiamo è diretta a D. Federico, Principe di Altamura, che ben presto sarà re.

      Archivio di Stato di Mantova, Gonzaga, busta 2.907. Copialettere, libro 155, f. 70 t.

      Ill/mo Domino Don Federico Principi Altamure.

      Ill.me... in la expugnatione de questa terra de Vallata se gli è trovato un Don Angelo de Antonello de Meo Archiprete del dicco loco, tanto perfido inimico del nome et stato de la Regia M.tà ed de la V.Ill.ma Signoria che più non se ne potria dire, et quello che era cum alcuni altri potissima causa de fare stare cusì pertinace la ditta terra rebella corno stava, (motivo di questa pertinace avversione agli Aragonesi, rinfocolata nel popolo dallo stesso Arciprete e da "alcuni altri", fra i quali certamente il Sindaco, era indubbiamente, come abbiamo già puntualizzato, il sistema di sfruttamento, cui erano sottoposte le nostre popolazioni. Non abbiamo elementi per stabilire chi sia stato il sindaco all'epoca, ma nemmeno possiamo escludere, come vuole il Saponara, che sia stato un Mastroprospero, forse caduto in battaglia, per cui sarebbe stato ricordato ai posteri con la denominazione di una via) che ne è causata la ruina et totale disfactione sua et esso Arciprete in persona in la bataglia ultimamente contro li nostri combatette fortemente (la solidarietà di questo animoso Arciprete con la sua gente è totale ed incodizionata!) et perché lui è stato causa ultra el pubblico danno de la terra predicta, tenere sempre bandito don Matheo de Antonello de Vallata fidelissimo servo et capellano de la V. Ex. (pur essendo questi confratello nel Sacerdozio e, molto probabilmente, parente del precedente, per le sue idee politiche diverse e per il suo attaccamento al Principe, consequenziale del resto al suo incarico di cappellano di corte, era stato bandito da Vallata) presente exibitore, cum gran mutria et obrobrio suo (esemplare questo atteggiamento di contegno e vergogna del nostro don Matteo, esibitone della lettera al Principe) me pareria che per merito de la sua sincerità et restoro de li danni et affanni patiti in lo exilio suo, meritasse essergli dato lo beneficio desco Archiprete, et privare el soprascripto don Angelo, però prego la V. Sub. che se degni havere per recomandato don Matheo predetto cum operare che habia dicco archipresbiterato, de la qual cosa ultra che la Ex. V. farà cosa degna da sè, et quello che rechiede la fidelità et devotione sua, a mi anche ne farà singolare piacere...

      Ex castris... apud Vallatam die VIIII maji 1496.

      Possiamo notare quanta diplomazia e finezza di stile riveli il Gonzaga in questa sua lettera di raccomandazione, che certamente avrà sortito il suo effetto, perché, come avremo modo di documentare, l'Arciprete della nostra ricettizia veniva designato dal Feudatario, e confermato dal Vescovo.

      Le altre lettere che riportiamo sono dirette, una al Duca di Gravina, Francesco Orsini, con successiva comunicazione al Vice Principe della Baronia perché provveda al caso, e l'altra alla corte di Taurasi.

      ib., f. 72

      Duci Gravine.

      Ill. etc. Ad noi pare cosa fusta et ragionevole che la preda che V. S. ha guadagnato da la Cidonia nauti alla reductione sua alla M.tà dil S. Re debba essere et sia de quella; ma perché li citadini de quella terra ne hanno facto intendere che la comprariano voluntera, confortamo et astringemo la S. V. che volendola vendere la venda ad essi homini più presto che ad altri et quando anche ne avesse facto contratto cum alcuni altri de vendita, non ne voglia procedere più ultra, ma per h dinari pari darla alla prefata cità de la Cidonia, che parendone così fusto et ragionevole V. S. ordini che dicci homini de dieta terra l'habino et che tutti li altri contratti che quella avesse facto sii retractati et alla S. V. ne offerimo. De questo anche ne parlerà ad S.V. Mariotto nostro trombetta.

      Datum ez castris apud Vallatam XIII maji 1496.

      Per dirimere la questione il Marchese dovrà ricorrere al Vice Principe della Baronia, con una lettera scritta da Panni il 15 maggio. Viceprincipi Baronie.

      Mag.ce etc. Vederiti quanto per l'alligata ne scrive lo Ill/mo Duca de Gravina circa il facto de li homini de la Cidonia, alli quali l'altro dì el prefato Duca levò certo bestiame et perché ne fecero querela, noi ordinassimo che gli fosse provveduto opportunamente et ad questo effetto gli mandassimo Mariotto nostro trombetto, donde che essi homini non havendo servato l'ordine dato del pagamento, sonno andati violentemente ad tarli per forza alli mercanti che havevano comprato diete bestiame et toltoli etiam li denari et roba, ve imponemo et astringemo che gli sia preveduto, et farli restituire el suo bestiame, overo li dinari che hanno speso in esso et ad questa posta mandamo lo presente nostro trombetto Mariotto qual è informatissimo de questa cosa. Datum in castris... apud Pandum XV maji 1496.

      L'altra lettera riguarda una questione di Vico. Ib., f. 72 t.

      Capitaneo et Universitati Tauracii.

      Egregii etc. Li homini de la cità de Vicho presenti exhibitori ne fanno intendere che doppoi la reductione loro alla fidelità de la M.tà del Sig. Re gli sonno stati tolti certi bestiami che sonno capitati lì et venduti, cosa che in verità a noi molto dispiace et ne pare iniusta. Vi pregamo et strigemo che per nostro respecto provediati che dicco bestiame gli sia restituito et dato, acciò alcuno non se possi lamentare che gli sia facto iniustitia, perhò exequireti quanto havemo speranza in voi et aciochè vi possati informare del tutto vi mandamo la qui inclusa supplicacione.

      Ex castris apud Vallatam XIII maji 1496.

      A questo punto diamo una sintesi degli avvenimenti successivi all'eccidio di Vallata, ricavata da un dettagliato racconto di Giuseppe Coniglio in "Francesco Gonzaga e la guerra contro i Francesi nel Regno di Napoli".

      "... il 6 maggio (il Marchese) si spostò verso V., che conquistò d'assalto e trattò con grande severità. Gli abitanti di altri centri, spaventati, pensarono di arrendersi, come fecero quelli di Carife, Trevico, Castel Baronia, Bisaccia, Guardia Lombardi, Lacedonia, Orsara, Montaguto. Successivamente il Gonzaga ritornò a Lucera, ove il 17 maggio concentrò il suo esercito, che presentò al re".

      All'indomani, 18 maggio 1496, con grande soddisfazione il Gonzaga scriverà alla moglie: "... ferendoli vedere ordinatamente tutta la campagna, incomenzando da li stratiotti, li balestrieri a cavallo e poi le zente d'arme tutte ornate e ben in ordine de ogni cosa, che non se ne potria dire quanto comparsero bene et sumptuosamente et quanto piacere ne hebe la p. ta M.tà et universalmente tutti li altri che se gli retrovorno et maxime de li cavalli de la persona nostra et soi ornamenti che fo bellissima et superba cosa ad vedere ...".

      "I Francesi, riprende il Coniglio, andavano verso il Molise, tra Guglionesi, Sant'Elia et Pietracatella e gli eserciti del Marchese Gonzaga e del re di Napoli si congiunsero per poterli affrontare con maggiori possibilità di vittoria. Le truppe napoletane e veneziane, riunite, lasciarono Lucera il 20 maggio e si diressero verso Biccari. Il 21 giunsero a Castelfranco in Miscano, occupato dai Francesi, che non poterono assediare per mancanza di artiglierie, scale ed altri attrezzi. Gli abitanti però, nel timore di peggio, si arresero.

      Il 22 ne ripartivano, per incontrare a Paduli Giovanni Sforza, Signore di Pesaro, che era giunto per unirsi ai due eserciti. Intanto le truppe aragonesi in Calabria avevano riportato una grande vittoria sui nemici. Il Marchese di Mantova, raffinato signore, ma soldato di scarsa resistenza, non gradiva troppo queste peregrinazioni per monti selvosi e pianure assolate, ove l'alimentazione era ben diversa, per forza di cose, dai pasti succulenti, che di solito gli erano serviti a Mantova. In tono scherzoso se ne lamentava con Isabella, deplorando la mancanza di ogni comodità ed i dannosi effetti che le privazioni producevano sul suo fisico e su quello degli altri membri della spedizione; si proponeva di rifarsi con ottimi pranzi mantovani. Già anelava al ritorno e scriveva alla moglie che, dopo le esperienze di questa guerra, sarebbe stato necessario che fossero trascorsi molti anni, prima che si fosse deciso ad allontanarsi di nuovo da Mantova.

      Il 23 maggio, da Paduli, si preparava a ritornare verso Benevento, per combattere ed eliminare tra Fragneto (3) ed Apice, alcuni concentramenti di Francesi, che minacciavano le comunicazioni tra Napoli e la Puglia. Durante le operazioni, tutto l'esercito e lo stesso Gonzaga soffrirono qualche disagio, che egli esagerava nelle lettere alla moglie. Nel corso di questi spostamenti, a Torrecuso, si trovò a fronteggiare un distaccamento francese di stanza a Circello. In questo periodo ricevette da Isabella, mossa a compassione delle lamentele del marito, l'invio di una partita di formaggio, spedita per mare da Venezia e giunta a Trani.

      Egli era ancora a Torrecuso ed il 30 maggio informava la moglie che il carico era giunto felicemente in Puglia e ne attendeva la consegna: "el formagio che ne aveti mandato per la via de Venezia è gionto ad parechi giorni favo aspettando che in breve ne sii conducto in campo".

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      (3) Il citato Equicola così ricorda la distruzione di questa città: "... Francesco col Re nel cospetto de' nemici abbruciò Fregnito, cosa spauentosa à quelli che fino à quel dì haueuano liberamente uagato...".

      Ancora partecipò ad operazioni nelle zone di Fragneto Monteforte, Mortone, Montecalvo Irpino, Gesualdo, Andretta, che si protrassero per buona parte del mese di giugno. Riportò dei successi; i Francesi accennavano a ritirarsi ed egli sperava di poter presto tornare in patria. Isabella intanto non dimenticava il marito e cercava di confortarlo come poteva. All'invio del formaggio seguì quello di ben cento salami, che il Gonzaga gradì moltissimo, come si rileva da una sua lettera del 30 giugno: "Joan Antonio Tezano et Cechetto sono gionti cum li cento peti di salami che V. S. ne ha mandati, li quali sono venuti molto a tempo per goderseli in questi luochi, dove non se ne retrovano et anco per farne parte ad questi signori".

      I Francesi non stavano certo meglio. Il 1° luglio ad Atella, furono costretti ad organizzare una spedizione per procurarsi vettovaglie. Furono fermati dal Gonzaga, che vigilava e h inseguì, impadronendosi di circa sessanta tra cavalli e muli. Ma non era solo la mancanza di vitto adeguato a tormentare il Gonzaga, che soffriva per il male che ne andava minando la salute, cioè di attacco di mal francese, complicato da febbri di natura tifoidea.

      Il 21 luglio fu concordata una tregua di trenta giorni con i parlamentari di Montpensier; il Gonzaga ne dava notizia alla moglie, manifestando la speranza di poter tornare a casa presto. Il 31 luglio lasciava Atella, ove aveva tenuto il campo piuttosto a lungo, diretto verso Apice e Guardia Lombardi".

      Da Guardia Lombardi scrive una lettera datata al 1° agosto, che riportiamo integralmente. Ib. f. 115 t.

      Ill.me Domine nostre.

      Ill.ma etc. Hiermatina partessimo cum li cavalli legieri da la Atella accompagnando li Francesi per la via di sopra distante dal nostro exercito circa sei miglia et questa sera siamo allogiati qua alla Guardia Lombarda et domane ne levarimo et andarimo verso Apice alla via de Castello ad mar, dove ne sforzarimo condurli ad salvamento tomo è nostro debito per non manchare de la promessa fede. Questa sera lo nostro felicissimo exercito se retrova ad Selva Piana (= Selvetelle) due miglia distante ad Conza, dove lo conte di Conza (Gesualdo Luigi, V conte di Conza) et suo fratello sonno andati alli pedi de la Regia Maestà et reductose alla sua devotione, la qual li ha acceptati voluntiera, et remessogli ogni preterito errore et fattoli molte carene, che è stata cosa de non pisolo momento alla Maestà sua et al stabilimento de le cose sue.

      In Calabria sonno stati mandati lo Capitano spagnolo cum le sue zente da perle e da cavallo et lo S. Don Cesare cum nove squadre contra Monsignor de Ubegnin (= Aubigny), per forma che speramo presto le cose di questo Regno seranno pacificate et reducte tutte alla pristina fidelità del prefato S. Re. Del successo V. S. ne sarà advisata. Benevalete.

      Ex Guardia Lombarda primo Augusti 1496.

      Il 26 agosto il Marchese giungeva a Napoli e si fermava poco lontano da Castellammare., Qui si manifestò in tutta la sua violenza, con coliche e disturbi di stomaco, l'infezione intestinale che era già da tempo latente. Trasportato a Napoli per mare, fu curato e presto fu in grado di pensare al ritorno. Si mise in viaggio per Capua e Venafro, giunse ad Isernia, ove però fu trasportato in lettiga, perché era sopraggiunto un attacco di malaria. Continuò tuttavia con lo stesso mezzo per Castel di Sangro, dove si fermò qualche giorno. Migliorato, il 26 settembre ne partiva ed il 29 giungeva a Sulmona. Orinai stava meglio e potè proseguire con maggior celerità; il 2 ottobre era a Pianella; passò il Tronto a Giulianova, entrò nelle Marche e, lungo l'Adriatico passò per Fermo, Loreto ed Ancona, dove la moglie gli andò incontro da Ferrara. Ripreso il viaggio, il 16 era a Ravenna, il 19 a Ferrara. Di là rientrò a Mantova, ove fu raccolto con grandi manifestazioni di affetto.

      Frattanto moriva in Castello Nuovo il Re Ferrante o Ferdinando II e cominciava a regnare in Napoli il Re Federico di Aragona, suo zio paterno, il 7 settembre, dal quale furono subito pubblicati in Napoli 68 capitoli a beneficio di questa Università degli Studi della città e di tutto il Regno. In ottobre i Veneziani si impossessarono di Taranto, ceduta loro dai Francesi, per una somma corrisposta.

      Il 26 giugno 1497 fu coronato in Capua il Re Federico, che fece coniare in Napoli una nuova moneta d'oro con l'iscrizione: "Recedant vetera, nova sint omnia" (= si ponga in oblio il passato e sia tutto nuovo); in settembre sottrasse ai Francesi Gaeta.

      Anche Consalvo Fernandez, dopo aver scacciato i Francesi da tutte le città e terre del Regno, ritornò coi suoi nella Spagna per la fine del 1497.

      Qualche anno più tardi, nel 1501, Ferdinando II d'Aragona, il Cattolico Re di Sicilia, farà alleanza con Luigi XII, Re di Francia, per sottrarre al Re Federico il Regno di Napoli, da dividere poi fra loro. In questa Lega entrò anche il papa Alessandro VI, perché in precedenza il Re Federico aveva ricusato di dare in moglie una sua figlia (con la dote del Principato di Taranto) a Cesare Borgia.

      Per quanto poi riguarda il generoso contributo offerto dalla nostra gente anche al movimento risorgimentale per la libertà e l'unità d'Italia, offriamo al lettore una sintesi, dettagliata e documentata, del Saponara, in un lungo articolo pubblicato postumo dalla rivista "Economia Irpina" nel 1963:

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