Vallata - brevi cenni storici -
      Prima Ipotesi

      I primi colonizzatori irpini, giungendo nella nostra zona, e notandone l'importanza strategica, nonché la fertilità del suolo, ricco di acque, avrebbero occupato la parte alta della collina. Si sarebbero stabiliti inizialmente in grotte naturali, ampliate nel magma roccioso arenaceo, e in qualche punto argilloso, del suolo, costruendovi davanti, successivamente, un vano per tutti gli usi, più o meno grande, a seconda delle esigenze familiari e delle disponibilità, con un finestrino per la luce ed aria, e con una porta di difesa da uomini e da in temperie.

      Quante di queste case non sussistono ancora, prolungandosi all'interno con ampie grotte, adibite oggi per ottime cantine, ripostiglio, ecc. e che una volta servivano anche per abitazione, di uomini e di animali, e per sicuro rifugio in caso di attacco? Gli anziani ricordano che queste grotte, in piani diversi, attraversavano la collina in lungo e in largo, tanto che alcune di esse, su testimonianza di molti, dall'attuale via XX Settembre, giungevano al versante opposto di Via Umberto I.

      E' ovvio che l'oppidum, con castello, mura di cinta e porte, sia stato costruito successivamente, forse nel periodo della dominazione longobarda, per cui troverebbe una spiegazione l'origine longobarda voluta da molti storici per il nostro paese, che già aveva vissuto un suo periodo storico molto importante, anche se in condizioni diverse. Questa interpretazione dei fatti ci sorprende, sia che venga da scrittori locali, che da storici di una certa fama, perché, con imperdonabile leggerezza, trascurano completamente quella comune matrice sannito-irpina, che ha dato origine certamente non solo ai centri più importanti, ma anche a quelli meno importanti, la cui storia è ancora da scoprire.

      Risulta perciò evidente che questa loro imperdonabile leggerezza li ha portati anche a trascurare l'approfondimento di quell'anima popolare che, come abbiamo tentato di dimostrare, ha dietro di sé un retroterra meravigliosamente ricco, con una sua cultura ben caratterizzata, con una sua lingua originale ben definita, con uno spirito libertario e democratico, forse mortificato in alcuni periodi storici da prevalenza di forze esterne, ma giammai annullato da dominazioni successive, da parte di Romani o di altri.

      Il popolo sannito-irpino ha sempre conservato nei secoli, e fortunatamente conserva, come "brace sotto cenere", la sua anima popolare, che ben lo distingue dagli altri, e tuttora lo caratterizza. Mi permetto insistere su quest'idea, non per -sicumera o per spirito campanilistico, cui sono visceralmente allergico, ma perché, cercando di leggere la storia dal basso, nel suo innesto col contesto umano, che resta sempre il miglior libro da consultare, fonte inesauribile cui attingere continuamente, mi convinco sempre più che ogni popolo ha una sua storia, da riscoprire non tanto attraverso i suoi "personaggi", ma soprattutto attraverso le "persone", che sono state e sono le cellule vitali del corpo sociale, le vere pietre miliari che segnano il cammino storico dell'umanità, le fonti più autentiche e valide, cui attingere notizie sicure del passato é valori umani profondi, su cui costruire il futuro.

      Ma riprendiamo la nostra analisi storica.

      Le porte storicamente accertate in V. sono state tre: P. Rivellino (il termine "Rivellino" anticamente indicava genericamente i baluardi eretti a protezione delle porte delle fortezze, con basamento scarpato e con corona di terrazze merlate, e tale porta aveva queste caratteristiche), P. del Tiglio (da un secolare albero di tiglio) e P. di Mezzo (perché in mezzo alle due altre).

      a) A nord Porta Rivellino (in dialetto: Urlino), detta anche P. del Torello, ancora esistente, anche se letteralmente deturpata dalle nuove costruzioni, presso la quale, al dire del Pavese, ci sarebbe stata una cappella dedicata a S. Leonardo, di cui non si conserva traccia. In prossimità di tale porta esiste invece un locale adibito anticamente come cappella di S. Caterina. Un manoscritto del 1749 del Sac. Domenico Antonio Mirabelli, citato dal Saponara, ricorda che in prossimità di questa porta, venne alla luce, qualche secolo prima, un teschio umano con una freccia ancora confitta in fronte, e più tardi, nel medesimo punto, si rinvenne un buon numero di frecce rugginose, reliquie e prove di un sanguinoso combattimento verificatosi nel passato: probabilmente la battaglia del 1199, di cui parleremo.

      Il nome di porta del Torello è derivato dal fatto che, da tempo immemorabile, precisa il Mirabelli, i Vallatesi si esercitavano a colpire un bersaglio costituito da un piccolo toro (= torello) in legno dolce: era questo lo sport più diffuso tra i giovani vallatesi, con regolari gare e classifiche, che entusiasmavano le folle spettatrici, provenienti anche dai paesi vicini, e che spingevano i tifosi a sostenere la squadra del cuore.

      I Vallatesi di oggi sono poco emuli dei loro avi perché, mentre seguono la moda di mitizzare lo sport nazionale ed internazionale in una forma esasperante, diseducativa ed alienante, poco o nulla fanno, salvo sporadici ed isolati casi di volenterosi, per favorire, sostenere e sollecitare una pratica dei vari sports per le nuove generazioni.



Elemento ornamentale all'interno della cappella.

      Allora invece i Vallatesi conquistarono fama di abilissimi arcieri, anche per il modo originale e caratteristico, con cui adoperavano il "saiettale" (= arco). Direi che questa inclinazione e attitudine persistono ancora nei nostri bambini, che tante volte si organizzano spontaneamente in bande armate di rudimentali archi e frecce, costruiti da loro, per colpire qualche bersaglio di fortuna o... qualche volatile. Sembra che la tendenza sia congenita nel Vallatele: chi, da piccolo, non si è cimentato a costruire e ad usare un rudimentale arco con frecce del tipo classico, o almeno un saeppolo (chiamato dialettalmente appunto "freccia"), formato da un ramo biforcuto, alle cui punte si legavano strettamente gli estremi di un elastico che, tirato e scattato, faceva partire un sassolino atto a colpire un bersaglio più o meno lontano, a seconda della bravura del tiratore? Ecco perché nello stemma di V., oltre ai "tre fiori" (simbolo della bellezza delle donne vallatesi, secondo il Pavese, che forse si riferisce ad un'espressione dell'Ambone che dice: "Vallata, montibus circumdata, pulcris mulieribus ornata", ed io aggiungerei pure: simbolo della gentilezza del popolo vallatele, particolarmente verso i forestieri, come puntualizzano alcuni storici, e come tuttora si riscontra) ed alle "due spighe di frumento" (simbolo dell'attività prevalentemente rurale nel nostro paese) campeggiano "due frecce", a ricordo di questo sport, che rese famosa Vallata.

      b)      A sud Porta del Tiglio (in dialetto: "Teglia") o Porta Nova, presso il castello: il multisecolare tiglio si trovava nello spiazzo antistante, nel punto dove nel 1961 fu eretto un monumento votivo all'Immacolata.

      Nel cap. XXI dello Statuto del Clero locale, che parla delle processioni, sono ricordate queste due porte: "Il giorno di S. Bartolomeo, s'esce per la porta della Teglia, verso levante alla porta del Torello, ove entra... Il giorno di S. Antonio, di S. Michele, Del Rosario à torno à torno la Terra: dalla parte da cui si esce si entra".

      Il piazzale Tiglio favoriva lo svago dei ragazzi, che vi si recavano per i loro giochi (la tradizione perdura!) e forse vi si svolgevano anche gare sportive tra i giovani, come fa intuire una notizia riportata nel registro dei morti del 1712: "Die XXVI decembris 1712... Angelo Iannuzzi, di anni tre mentre si giuocava, fu ferito al capo da un casuale colpo di maglio, per cui morì qualche ora dopo". Notiamo che il testo non dice: "mentre giuocava", ma: "mentre si giuocava" e ciò fa pensare ad una vera e propria gara sportiva: certo uno sport pesante, adatto al periodo invernale, in cui si usava il "maglio".


Porta Riellino o del Torello


Via Rivellino


Stemma di Vallata


Piazzale Tiglio.




 

      c)       Ad est Porta di Mezzo (= dè moeza), così chiamata, perché in mezzo al muro di cinta che univa le altre due porte: questa immetteva nel piazzale dell'Annunziata. E ciò spiega anche il secondo nome dato a questa porta: "Porta del Piano ", perché dalla pianeggiante Via Levante immetteva al Piano Annunziata con l'omonima cappella, dove si seppellivano i morti in occasione di terremoti e pestilenze, come si riscontra dai registri parrocchiali.

      Dissento quindi dal Saponara, che ammette l'esistenza di una quarta porta chiamata "del Piano", sia perché non abbiamo documenti che ne attestino l'esistenza, come per le altre, sia perché, a fil di logica, si sarebbe dovuta trovare al versante opposto, ma con quali possibilità di accesso, se quella parte delle mura si levava su burroni inaccessibili?

      Certo, anche la porta di Mezzo non doveva essere molto trafficata, ma aveva una sua importanza strategica perché, mentre dava agli abitanti una buona posizione di difesa e di offesa, non permetteva ai nemici una facile manovra di attacco, per il terreno sottostante scosceso e roccioso, anche se non raggiungeva la ripidità di Via Ponente. Immagino questa Porta, mi sia consentito il confronto, con la funzione che aveva la "Porta delle pecore" in Gerusalemme, situata in una identica posizione: un servizio normale per le esigenze di gente dedita all'agricoltura ed alla pastorizia, ed un servizio di emergenza in caso di assedio.

      L'oppidum di V. ebbe pure i suoi fossati di difesa, come ci fanno intuire i nomi delle sue vie esterne alle mura di cinta: "Via Fossato di Levante" (oggi Via XX Settembre), "Via Fossato di Ponente (oggi Via Umberto I), Via di Mezzogiorno (oggi V. Mastroprospero e V. Chianchione) e di Rivellino, che conserva l'antico nome.

      L'ubicazione del Castello è ricordato dal piazzale detto "Largo Castello", dove verso il 1650 furono edificate varie case, tra cui quella di Medoro Schiavina, com'è tramandato nelle Memorie Gentilizie della famiglia Netta. Sulle rovine del castello, come ricordano le Memorie citate, furono costruite pure le case di D. Generoso Cataldo e di D. Domenico, suo zio (oggi Laurelli e Tullio, eredi dei Cataldo).

      "E' fuor di dubbio, ricorda il Saponara, che più vani del castello, per essere in buono stato, furono riparati dai Signori Cataldo, come ad esempio il salotto e il piano attiguo, in cui le dame ed i cavalieri deponevano i  loro mantelli, ambienti con muri dello spessore di un metro e venti!

      Restano nel cosiddetto "Giardino" degli eredi Laurelli, le reliquie della torre. Il giardino è adiacente a "Via sottocorte". Costituiva la "Curtis" longobarda, in cui il Cappellano (o un legale) amministrava la giustizia... ".

      In questa nostra prima ipotesi, il nome di "Vallata", dato al paese, troverebbe la sua spiegazione, nella posizione più bassa della collina, occupata dal centro abitato, rispetto alle montagne di S. Stefano, di Serra Longa, e dell'altopiano del Formicoso, con una posizione strategica di primo piano, perché a cavallo delle due ampie vallate del Calaggio e dell'Ufita. Il succitato Ambone, facendo menzione di M. Albo, da cui nascono due torrenti, uno la Bufola (l'Ufita) e l'altro il Calaggio, che discende dal territorio "Formicoso" (o Famoso), parla appunto di "Vallata, montibus circumdata".


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