Vallata - brevi cenni storici -
Relazione 1663.

      Questa cattedrale (di Bisaccia) ha per diocesi due Terre, cioè quella di V., cui civilmente presiede la Duchessa di Gravina, che è composta di settecentocinquantadue anime, di cui cinquecento si cibano della Comunione.
      La Chiesa matrice è ricettizia ed ha il titolo di S. Bartolomeo; ogni giorno vi si recitano le ore canoniche e si celebra la Messa conventuale; l'Arciprete, che è il capo del capitolo di tutta la Terra, ha la cura delle anime ed è presentato dal capo civile di detta Terra; vi sono in questo capitolo altre due dignità, che furono sempre conferite dall'Ordinario ( - Vescovo) del luogo; la chiesa non è collegiata.


      In questa Terra vi è ancora un ricovero per i poveri; nella chiesa madre vi è la cappella dello Spirito Santo, i cui introiti e beni temporali sono amministrati dai confratelli (della congrega), come essi, o a meglio dire il Maestro, pretendono senza rendere conto all'Ordinario, basandosi su un Privilegio Apostolico che mi hanno presentato, col quale la Sede Apostolica concedeva ai confratelli di provvedere direttamente, senza l'intervento del Vescovo, nonostante le disposizioni del S. Concilio di Trento; in verità, siccome anche dopo il detto privilegio, i resoconti furono regolarmente presentati ai miei predecessori, prego le VV. Eminenze, di abolire (detto privilegio).

      Anche questa relazione ci offre lo spunto per cogliere, dietro l'aridità di notiziole, che ad un occhio superficiale possono sembrare banali, altri aspetti interessanti di quella realtà umana ed esistenziale, che insieme stiamo scandagliando.
      Notiamo anzitutto un graduale aumento della popolazione, che raggiunge in quell'anno 752 anime, di cui "comunione reficiuntur quingentae", ben 500 si cibano della Comunione. Si tratta quindi della totalità della popolazione in età adatta a ricevere la Comunione, sottratti gli infanti. Anche in altre relazioni si precisa sempre che sono all'incirca i due terzi della intera popolazione a frequentare la Comunione.
      Precisiamo ali riguardo che ci poteva essere una certa esagerazione, da parte dei parroci, nel comunicare al vescovo queste cifre, ma non dimentichiamo che la fede in quei tempi era un fatto di massa, che coinvolgeva tutti attraverso il sistema stesso di vita, misera e dura per tanti versi; attraverso le strutture sociali e tradizioni locali, che sollecitavano e facilitavano questa fede di massa; attraverso le organizzazioni laicali che, con gli articoli del proprio statuto, si autoimponevano la frequenza dei Sacramenti; senza dire che terremoti, pestilenze, fame, guerre, malattie facevano il resto, per sollecitare un più facile ricorso alla fede, alla cui base non sempre c'era una scelta libera e responsabile.
      Si afferma poi nella relazione che, nelle cose civili, presiedeva la Duchessa di Gravina, la quale aveva il diritto di presentazione "ad presentationem" dell'Arciprete al Vescovo: se alle parole corrisponde la realtà, possiamo dedurre che, in precedenza, il signore di V. aveva il diritto di elezione dell'Arciprete (la relazione del 1595 parla appunto di "electio"), che il Vescovo immetteva nel possesso; col passare degli anni il signore del paese si limitava a "presentare" l'Arciprete, che il Vescovo poteva confermare o meno. E' già un primo passo verso l'avocazione di questo diritto all'autorità ecclesiastica, lasciando all'autorità civile il privilegio di "beneplacito", come si stabilirà nel Concordato.
      Nella relazione si ricordano altre due dignità, di nomina del Vescovo (così chiamate impropriamente, perché la chiesa di V. non è né "collegiata" né "cattedrale", ma solo per analogia à queste): Primicerio e Tesoriere. Conviene al riguardo spendere qualche parola.
      Primicerio, dal latino "Primicerius" (- nome inciso per primo sulle tavolette cerate): questa dignità è da collegare a quanto ci ha ricordato la relaz. del 1595, circa la chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie, che era insignita appunto della dignità primiceriale, di nomina del Vescovo, e che dipendeva, a differenza delle altre cap- pelle, dalla chiesa madre, per cui il Primicerio della cappella era anche la prima dignità del clero ricettizio, subito dopo l'Arciprete, col quale collaborava nella cura delle anime, o che sostituiva a tutti gli effetti, quando questi era impedito.
      Al Tesoriere invece era affidata l'amministrazione economica della massa comune della ricettizia: una carica molto importante e delicata per la consistenza delle entrate della Parrocchia, che, come ormai sappiamo, venivano utilizzate per la manutenzione della chiesa, per le spese di culto, per opere sociali e caritative, e per il mantenimento del clero.
      I pochi libri di amministrazione che si conservano nell'Archivio Parrocchiale, ed i Cedolari dell'Archivio di Stato di Napoli confermano regolarità e precisione dei resoconti, anzi addirittura meticolosità nell'amministrazione di questa massa comune, in cui tutti i sacerdoti erano corresponsabili, anche se la contabilità era delegata al Tesoriere. Nel' corso di questo capitolo, avremo modo di approfondire anche questo aspetto dell'utilizzazione della massa comune della chiesa, da cui potremo capire quanto siano, a dir poco, ingenerosi certi giudizi sul passato, che sanno di populismo e di settarismo.
      Infine, oltre alla menzione del ricovero per i poveri, si accenna alla rivendicazione di un diritto della confraternita dello Sp. Santo, di voler disporre liberamente dei propri beni, senza presentare al vescovo l'annuale resoconto, appellandosi ad un privilegio ad essa concesso dalla Sede Apostolica, che peraltro sarebbe stato in difformità dalle disposizioni del Concilio di Trento.
      Notiamo al riguardo che certamente non ci fu polemica accesa se, come precisa la stessa relazione, la confraternita aveva continuato a presentare al Vescovo il resoconto annuale, nonostante la dispensa romana, procurata forse subdolamente da parte di qualcuno, che poteva avere secondi fini, per cui il vescovo chiedeva l'abolizione del privilegio, ma quasi con un senso di distacco.
      Questa soluzione bonaria del caso ci fa dedurre che nella nostra chiesa ricettizia (come certamente in tante altre ricettizie meridionali) non c'era la pretesa di quell'autonomia esacerbata, di cui parla qualche storico, ma soltanto la volontà di base di una giusta autonomia, radicata del resto sulla fierezza e sul buon senso della nostra gente, che poteva rifiutare interventi eccessivamente autoritari, ma non rifiutava sollecitazioni e controlli pastoralmente validi.
      D'altra parte, sappiamo dalla storia che i maggiori danni alla Chiesa non sono venuti tanto da una equilibrata autonomia di base, che responsabilizzava tutta la comunità, coinvolta nella testimonianza di valori umani e cristiani, ma dagli intrallazzi di persone (ecclesiastiche o civili), di famiglie e di gruppi, che miravano a strumentalizzare la base per i propri interessi.
      Inoltre, quanto male non ha fatto, anche nella Chiesa, un eccessivo autoritarismo, che lentamente ha esautorato la base di ogni diritto decisionale e senso di corresponsabilità?
      C'è voluto l'intuito profetico di Papa Giovanni XXIII, recepito dal Vaticano II, non diciamo per invertire, ma per correggere la rotta, onde "riconoscere e promuovere la dignità e la responsabilità dei laici" nella vita della Chiesa, finalmente riscoperta come "popolo di Dio", pellegrinante lungo l'itinerario storico dell'umanità. Dopo secoli di accentuato verticismo deresponsabilizzante, sappiamo in questi anni del post-concilio quanto sia difficile riportare le nostre parrocchie alla corresponsabilità di una volta, ed a quella vitalità socio-religiosa, che dovrebbe continuare a caratterizzare le nostre comunità cristiane, nel solco della tradizione.

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