SCRITTI VARI - Tommaso Mario Pavese - Poesia latina nuovissima.

RECENSIONI

Poesia latina nuovissima*

        Certo non spenti possono dirsi gli echi della venusta e sonora poesia latina se, oltre a' classici antichi, che formano ancora la lettura preferita di molte menti elettete, ci è dato non di rado gustarne sprazzi di nuova luce, ad opera ora di uno, ora di un altro insigne latinista. Gl'Italiani — che furono, sono e saranno sempre orgogliosi della gloria e del vanto che ad essi viene dal nome di Roma — anche nel campo -della intellettualità, come ieri con le armi, sentono il dovere di non mostrarsi figli degeneri; e, giacchè le facoltà intellettuali ingenite furono e sono mai sempre tutt'altro che inferiori a quelle de' letterati di altre nazioni, essi, anche negli studi classici, riescono, per ingegno e per fervore di volontà, emeriti.
        Fin dai primi anni in cui Giacobbe Hoeufft, notaio di Leiden e poeta latino, morto nel 1843, bandì la gara internazionale di Amsterdam, lasciando una cospicua somma, i cui interessi sarebbero dovuti servire alla coniazione di una medaglia d'oro per il miglior carme latino, gl'Italiani cominciarono, merita–mente, a distinguersi.
        Infatti, subito dopo, nel 1845, Diego Vetrioli fu premiato per il suo poemetto " Xiphias ,,; dopo di lui, il Pascoli fu premiato tredici volte' con medaglia, a cominciare dal 1891 col " Vejanus ,, fino al 1912 con " Thallusa ,,. Morto il Pascoli, fu premiato il Carrozzare nel 1913, il Reuss, residente da molti anni in Italia, nel 1915, il Faverzari nel 1916, l'Alessio nel 1917, Roél di Berlino nel 1918, l' Albini nel 1919, l'Alessio di nuovo nel 1920 e nel 1921, il Weller di Baviera nel corrente anno. Buoni versi latini, in elegante stile, scrissero anche Alfredo Bartoli, Giosuè Cacate, Angelo Nardis, Gennaro Aspreno Rocco, Arcangelo Sepe, dell' amicizia di alcuni dei, quali, a ragione, mi tengo onorato.
        La gara internazionale di poesia latina di Amsterdam eccita, così, le intelligenze e gli studi classici. Il verdetto dei giudicanti nederlandesi è quasi sempre giusto; lascia, però, talvolta a desiderare, e si resta, in questi casi, maggiormente in contrario avviso e perplessi, per il fatto che, non essendo motivata la decisione, le ragioni del giudizio, e specialmente quelle di preferenza per uno, più che per un altro carme, possono, più o meno fondatamente, supporsi, ma non sono esplicitamente dichiarate e conosciute. Sembra, però, che essi, un po' confondendo l'etica con l'estetica, la morale con la poesia, preferiscano carmi con contenuto morale a quelli affettivi, immaginosi, ricchi di concetti ed eleganti e coloriti nello stile. Questa sarà forse una tendenza del loro ingegno, un particolare loro criterio che, mirando sempre e sopra tutto all'utile, vuole piegare anche la letteratura a scopo pratico , in modo tale che l'Olanda, pur avendola fecondissima, non è riuscita a produrre — osserva giustamente il De Amicis nel libro del suo viaggio colà —, come pur fecero altri piccoli paesi, un sol libro che sia divenuto europeo.
        Fin dallo scorso anno, il Weller risultò secondo nel concorso; c'era forse pertanto già una designazione implicita fin d'allora, per l'avvenire. Ala il suo poemetto di quest'anno non desta troppa ammirazione, tanto più se si mette a confronto — sebbene d'indole diversa—con quello presentato dall'Alessio, il quale non ha per nulla smesso l'abitudine di lavorare accuratamente alla concezione ed alla formazione dei suoi versi latini.
        Dal lato estetico-artistico, l’" Hegesias , del Weller, premiato quest'anno con medaglia d'oro, non ha nulla di notevole, all'infuori della chiarezza, della sempli– cità e, talvolta, anche dell'eleganza della forma, pregi che, in misura non minore, si trovano intrinseci alla poesia latina dell'Alessio.
        Egesia è il noto filosofo di Cirene, il quale — come ricorda Cicerone — affermò che la morte non ci priva de' beni, bensì de' mali e che, essendosi molti data la morte per questa sua dottrina, fu interdetto perciò dal re Tolomeo di insegnarla nelle scuole. Comincia, quindi, il poema con una descrizione della città di Pella, iu Macedonia, invasa dal lutto e dal terrore, perchè moltissimi si davano la morte per l'insegnamento del filosofo. Intanto, questi passa tra la folla atterrita e nessuno osa fargli male, conoscendolo per un mago capace di richìamare persino i morti dai sepolcri :

               "Hie velut aequoreae Sirenes voce canora
               Allexit multos exitioque dedit.
               Iste nocens sparsit verborum triste venenum Míscuit et dotta toxica saeva manu.
               ... putant illum priscis manes revocare sepulcris
               et fluvios canto sistere posse suo ,, .

        Ma, tutt'altro che pentito della strage che semina, Egesia anzi pretenderebbe, per questo, essere onorato, invece che mandato in esilio :

               " Si tamen est laudi nova lamina promere caecis,
               Cur non eximio dignus honore putor ? ,.

        Sconfortato, si domanda se deve darsi la morte; ma..., precursore di padre Zappata e di quei guerrafondai che non vollero, però, fare essi medesimi la guerra, preferisce la vita.

               " Quid dubito? nitidum quid non manus arripit ensem
               Finem perpetuis impositura malis ?
               At me fata vetant medio subsistere cursu ,, .

        Bravo!!! Non c'è che dire; egli deve predicare la sua dottrina agli altri, ma non darne l'esempio. Anche questo è un insegnamento di... benintesa morale; ma Socrate bevve la cicuta, Cristo soffrì il martirio, e tanti altri grandi sostennero i più aspri tormenti, per rinsaldare, col sacrificio della vita, le dottrine da essi affermate. Non importa; Egesia è uomo di altro carattere e di altro coraggio. Mentre, dunque, il filosofo pensa, per dirla con una frase toscana moderna, a serbar la pancia a' fichi, ode un dolce suono, e vede un vecchio, abitatore dì una spelonca, Abante, circondato da una lieta e canora turba di fanciulli e fanciulle. Il vecchio è cieco ; lo consiglia, perciò, ad uccidersi :

               " Sub aeterna nocte dolore vaces !,,

        Ma il vecchio saviamente risponde :

               “Crede, suis fortuna fovet mea pectora donis
               Et mea nox (la tenebra de' suoi occhi) multo lamine Clara micat.
               Sed me luce nova numera donavit amicum,
               Qua non olla mihi dulcior esse potest !
               Dulcia restio quae mulcent modulamina menten.
               Suavisonumque melos per mea corda fluit.
               His ego divitiis vivo moriorque beatus ;
               Di mihi decernant qualiacumque volent ,, .

        Il maestro Cirenaico — stavo per dire Cireneo, — greco di nascita e di fede, che Savonarola e Bruno italici non vollero imitare, in viaggio per l'esilio, dopo ciò, cio, ripensa alla sua dottrina :

               " Ardebatque ovuli — quis crederet ? — ignis acerbi
               Mitius et lacrimis immaduere genae".

        La chiusa è veramente morale e poetica : Egesia si bagna di lacrime le guance, al pensiero, al rimorso del male, che aveva seminato con la sua cattiva e perniciosa dottrina: tardi, ma pentito !
        Esaminiamo ora, pure brevemente, il "Virgilio scacciato dal campicello „ del Sofia Alessio, ritenuto degno di grande lode, ma non premiato di medaglia, nel concorso internazionale latino di questo anno.
        Spunta nel mattin nuovo l' Aurora da' rosei colori, e Virgilio lascia la casa intessuta di virgulti e di canne: i galli batton l' ali, al tornar del giorno, e vola al cielo l'allodola sublime.

               “Mane novo roseis Aurora coloribus exit,
               Ac resonant avium soavi virgulta canore ;
               Virgilius tandem pius expergiscitur...
               lam redeunte die, simul alis undique galli
               Plaudunt... atque polo volitat sublimis alauda ,, .

        La natura, dunque, si sveglia, spuntando il giorno. Si sofferma il Vate all'ombra del vecchio faggio :

               "Consistit Vates veteris sub tegmine fagi,
               Contemplatur agros..."

        Contempla i campi, e s'appresta a celebrare, come conviene, il suo natalizio :

               "Natalemque diem placeat celebrare decenter,, .
        S'avanza Amarillide ed intreccia corone di fiori:

               "Ecce Amarylks adest, et florum plena canistra
               Affert, ac varias nectit studiosa corollas,, .

        Cinge di verde alloro le chiome del suo padrone. Giunono gli amici alla festa, e la vezzosa Amarilde risplende nel banchetto ; i garzoni cingono di fiori i dolci vini, il banchetto risuona di concenti, e risuonano per l'aria argentei sistri. Alza Virgilio il dito, e tutti tacciono; Amarillide, composta al canto, effonde dal cuore queste note : Poichè su molli fronde, il natalizio e il Genio di Marone celebriamo, invochiamo i numi a supplichevol voce. Fiorisca il mio signor poeta, e possa sempre circondare il capo d'eletta fronda. Vive tranquillo e placido fra i coloni ed ama i campi, e la pace recante in man l'olivo, loda ne' carmi.

               “Phoebe, qui gaudes cithara, benignus annue votes,, .

        Già sorge il dì seguente e un triste annunzio perviene al pio Virgilio: nel mese successivo deve abbandonare il suo campicello:

               " Mense sequente suo procul ire iubetur agello ,, .

        Mentre Virgilio va, perciò, a Roma ad invocare l'aiuto di Pollione, Amarillide geme immersa in grave lutto :

               “Lascia sospese a gli alberi le frutta,
               Lascia languire ne l'aiuole i fiori.
               Il cardo e il loglio dominano ovunque
               Ne la squallida terra. Ma le fonti
               Col suono, i pini con loquaci fronde,
               E le colombe chiamano l'assente.

        Era novembre,

               Era già notte, e Vespro le capanne
               Con la placida luce illuminava,
               Quando nel suo campestre casolare
               Entra il Poeta verecondo, e arride
               E Amarillide sua dolce carezza.
               ... I campi miei restano, esclama,
               Comincia il canto, poichè clemente
               Il triumviro a me cede il mio regno

        La mattina Amarillide incorona i suoi lari di festose fronde : cantano gli uccelli, e gli agnellini scherzano sui prati. La sorte crudele, intanto, invidia il pio possessore :

               "... Ecco s'avanza un grande
               Centurione co' soldati suoi:
               Risuonano le spade ed i calzari.
               Vecchi coloni, via di qua andate,
               Arrio esclama, questo campo è mio.

        Il poeta impallidisce, va incontro e

               Mostra l'editto del potente Duce ;

        ma il barbaro fulmina con gli sguardi il buon poeta,

               L'insegue e lo minaccia con la spada.

        Virgilio cede, passa il fiume a nuoto e, addolorato, si ferma su un alto colle, a riguardare il gran tumulto de' fanti ed i coloni espulsi da' campi conquistati con la spada.

               Non pìù pe' prati le camuse capre
               Saltellano, non più canta il bifolco,
               Sdraiato sotto un'elevata rupe.

        L'empio soldato minaccia bimbi e vecchi, perchè fuggano presto, e il campo risuona di lamenti.

               Tutto Virgilio vede, ed i coloni
               Commisera :si duole e disperato
               Preme il suo cuore con le palme, e solo
               Ai colli ed alle selve così dice :
               Addio patri confini e dolci campi,
               Pecore erranti e duci del mio gregge:
               Mi partorì qui la pia madre, ed io
               Qui respirai pei colli aure vitali.

        Sdraiato al rezzo d'ampio faggio, moderai, prudente, le gare de' pastori ; sottoposi al giogo robusti torí; volsi le glebe, coltivai le viti e i pingui olivi, e colsi in autunno le mele coperte di lanugine. Sospesi a te, bionda Cerere, serti di spighe, offersi a Bacco piene le coppe, e qui placidamente cantai il dolce amore di Amarillide.

               O blanda mia fanciulla, io vigilando
               Ne la notte dinanzi al focolare
               Stavo con te, mentre fremeva il vento.
               Or che farò ? Di nuovo il campicello Mi fu rapito.
               Mi costringe il fato D'abbandonare la casetta mia,
               Ricoperta di verdi zolle, invano
               Coi belati m'invocano gli agnelli,
               Che nutrivo con erbe tenerelle,
               E che nel petto riscaldai...

        Il barbaro avrà ora questo mio gregge e questi campì? Il fiero Marte infuriò molto sul nostro suolo, e fece rosseggiare di sangue le terre desolate
        Nutrano gli uomini la terra con l'amore e non col sangue, e cerchino nelle zolle fecondo il biondo grano. Regni la pace, il riposo, l'amore, ed a me basta la vita; e la terra Saturnia sia la gran madre delle bionde messi; e gli uomini, stretti come l'api, vivano legati ad un santo patto. Intanto, Amarillide accorre, lacrimando, al suo signore, e narra che il soldato crudele la mise in fuga e la scacciò dal campo, con la madre moribonda. Il Poeta, commosso al duro caso,, piangendo per la selva , accompagna Amarillide e vede una vecchierella distesa sotto un'irta siepe, languente ed oppressa da un gelido sudore. La figliuola ne raccoglie, piangendo, l'ultimo spirito errante sulle labbra e geme oppressa da crudele affanno. La compongono, poi, nel sepolcro ed Amarillide, ora orfana, invoca dal signor suo, conforto, pietà, difesa al suo pudore:

               Ti seguirò paziente, ovunque il fato
               Ci chiamerà, e teco ogni disagio
               Sopporterò; tu padre mio,tu madre
               Per me sempre sarai...

        Ciò detto, irrora le pupille di lacrime, e Virgilio pietoso:

               Ovunque il fato ci trarrà, la sorte
               Esperimenteremo insieme, andiamo.

        Gli tengono dietro

               Il genitore cieco e i due fratelli,
               Che il soldato scacciò dal patrio campo.

        Virgilio contempla per l'ultima volta il suo podere , col volto bagnato

               Di lacrime. Già fumano lontano
               I tetti de le ville ricoperte
               Di zolle; già le timide caprette
               E i lor teneri nati il pio Signore
               Richiamano con tremuli belati.
               Una schiera d'uccelli si lamenta,
               E commisera l'esule, che parte. 1
               Grex avium queritur simul et miseratur euntem,, .

        È questo il contenuto dei due poemetti.
        Più Propriamente, in verità, Egesia è un padre Zappata alla rovescia; perchè mentre questi predica bene e razzola male, Egesia invece predica per gli altri il suicidio, e per sè preferisce la vita. Un tipo simile il Weller ha voluto rendere protagonista del suo carme, che ha scarso contenuto poetico e scarso contenuto morale. Poeticamente, ì due migliori quadri, i soli, sono la visione dell' esterminio dì Alessandria , seminato dalla dottrina del filosofo , e il vecchio Abante — circondato da un gaio e giocondo sciame — che, pur nel dolore, inneggia alla vita. Due assai semplici descrizioni queste, che hanno per _giunta il difetto di essere poco verisimili. — Moralmente, il contenuto del carme è ancora peggiore. Innanzi tutto, non sono neppur accennate le ragioni di Egesia, per preferire alla vita la morte; nè quelle di Abante per preferire alla morte la vita. Perchè, Abante sente di vedere nella sua tenebra, più che se avesse la vista ? Indagine estranea ad un poeta; ma un accenno era necessario. Non basta che un coro lo allieti e che i numi gli abbiano donato la contentezza.
        Il Weller sembra, poi, che abbia dimenticato ciò ,che, fra moltissimi altri, affermò pure un grande filosofo suo connazionale, il Kant: " Mi addormentai sognando che la vita è piacere e mi svegliai conoscendo che essa è dovere ,.
        La vita, quindi, non va solo, eticamente, esaminata e vagliata per il bene e per il male che può dare, i quali sono sempre apprezzati soggettivamente e variamente, pur negli stessi fatti, da' diversi individui; ma anche per il contenuto morale appunto, cioè per il compimento de' doveri verso la famiglia, verso se stessi, verso la religione, verso lo Stato, ne' quali può l’uomo, in una catarsi sempre progressiva, nobili tarsi e , migliorandosi, sentirsi perciò sempre più lieto. Egesia nega i doveri sociali.
        Al pari della filosofia di Egesia, è nota l’estorsione fatta a Virgilio del suo campicello.
        Ma quanta differenza, quanta luce morale e poetica diversa, tra il buon Virgilio ed il fosco e bieco propagandista di morte! -- Come abbiam visto, il carme dell'Alessio si schiude con un inno alla natura che si ridesta, ai campi lieti, alla vita che, ad ogni aurora, si vivifica e si rinnova. Canti di uccelli, belati di agnellini, sorrisi di fiori, armonie di cetra. Su ciò Virgilio presiede, nel suo natalizio, come un dio mite del bene: ed è un bene, infatti, la vita che si spende nell'opra feconda del braccio su' campi, nel Culto dell'amore e del raggio eterno della poesia. E una tal vita è irraggiata ancora da un sentimento pio, appunto da una soave dolcezza virgi1iana; che solo potè avere così grande l'anima del poeta mantovano.
        Virgilio, la più grande sirena della poesia , che canta la campagna e la patria, la mite, paziente e feconda opera de' buoi e dei bifolchi e le magnanime gesta degli eroi.
        Un confronto con Egesia sarebbe un insulto : la luce è il contrario della tenebra, la morte e il male sono il contrario della vita e del bene. È questa l'antitesi stridente tra i protagonisti dei due poemetti, alla quale non han forse badato i giudici del Nederland, dimenticando le loro solite tendenze morali.
       

_____________________
* Dalla Rivista La luce del pensiero, Napoli, febbraio-marzo 1923
1 Da una traduzione del medesimo Autore, Messina, Premiata Off. Graf. La Sicilia, 1922.

__________________________________________

Indice Home Pagina Successiva