Studi Sociali e Giuridici - Tommaso Mario Pavese

6.— Sistemi distributivi socialisti.

        L’ordinamento attuale della proprietà è spesso nato e cresciuto dalla violenza, dal privilegio o dall’inganno; e le sue basi furono gittate per mezzo dell’occupazione e della conquista, molto tempo prima che la legislazione e la giurisprudenza avessero progredito sull’orizzonte della storia; alcuni sistemi socialisti invece tendono a distribuire la ricchezza con maggior riflessione politica e scientifica. I sistemi distributivi socialisti si distinguono in soggettivi ed oggettivi. Secondo i sistemi soggettivi, i beni di consumo si assegnano ai singoli cittadini in proporzione dei loro bisogni. Nei sistemi oggettivi invece, la distribuzione dei beni avviene specialmente secondo la quantità e qualità del lavoro compiuto dall’ individuo. Il sistema o metodo oggettivo è per sè insufficiente, e non può essere applicato se non col concorso di elementi tratti dal sistema soggettivo, perchè lo Stato dovrebbe pur sempre provvedere, in un qualsiasi modo, al mantenimento dei numerosi inabili al lavoro.
        I principali sistemi socialisti proposti per distribuire equamente le ricchezze rispondono ad una delle seguenti formole di distribuzione: 1.° a ciascuno parte uguale; 2.° a ciascuno secondo i suoi bisogni (comunismo); 3.° a ciascuno secondo il suo lavoro (collettivismo), 4.° a ciascuno secondo i suoi meriti (sansimonismo). Sembra che la divisione in parti uguali sia stata praticata in un passato remotissimo, e che gli antichi legislatori, dei quali fanno menzione la storia o la leggenda (Minosse, Licurgo, Romolo) dividessero la terra in parti uguali per famiglie, se non per capi. Simile sistema — che era possibile nelle società primitive aventi scarso numero di cittadini e una sola ricchezza, la terra, — sarebbe di difficilissima applicazione nelle nostre società, e forse neppure molto utile, non solo perchè la quantità di ricchezze esistenti non potrebbe che assai lievemente attenuare la miseria, ma anche perchè esso non sarebbe di incitamento all’esplicazione dei meriti individuali, nè sarebbe conforme a giustizia il trattare ugualmente persone di merito ineguale.
        Il comunismo invece dice: essendo difficilissima e poco utile la divisione in parti uguali, lasciamo tutto comune tra i membri della società, come tra i membri di una famiglia; come in quest’ ultima, così nella società, ciascuno prenda secondo i proprii bisogni
        La scuola anarchica diede nuova vita a questa teoria, ma in parte la discreditò. La distribuzione a ciascuno secondo i suoi bisogni sarebbe per molti la più gradita, ma è inattuabile per le stesse ragioni per cui e inattuabile la divisione in parti uguali; le ricchezze esistenti, cioè, non bastano a soddisfare i bisogni e i desideri degli uomini che — si badi —crescono appunto in ragione della facilità nel soddisfarli si fiaccherebbe in certo modo l’esplicazione delle attività personali; non è giusto tenere in nessun conto il valore individuale; ed inoltre una simile distribuzione sarebbe anche immorale perchè, essendo la specie meno buona (ammalati, invalidi) quella che richiede maggiori cure ed ha più bisogni, a questa si darebbero maggiori e migliori mezzi di sodisfazione, contribuendo così all’incremento di essa, che pullulerebbe a danno di tutta la società e della specie migliore.
        Il collettivismo, che è una forma attenuata di comunismo, propone di mettere in comune solo i mezzi di produzione, cioè la terra ed i capitali di produzione, lasciando gli oggetti di consumo ed i redditi sotto il regime della proprietà individuale, salvo una migliore distribuzione. Il collettivismo stabilisce la formola: a ciascuno sia dato secondo il numero di ore di lavoro compiuto, col correttivo di un minimo garantito a coloro che non possono lavorare. Ma anche questo sistema — oltre ad essere poco attuabile, perchè le società presenti sono in generale assai contrarie all’idea di mettere in comune la terra ed i capitali di produzione — offre grandi difficoltà pratiche e morali, perchè: 1.° Non solo dal numero di ore impiegate a compirli, ma specialmente dalla loro qualità si valutano i prodotti del lavoro, i quali possono essere eccellenti, anche se compiti in pochissimo tempo, e viceversa. Quindi, non si riuscirà ad impedire che un oggetto assai ben fatto valga più di uno comune, anche se sarà costato minor numero di ore di lavoro. 2.° Non è pienamente conforme a giustizia che ciascuno sia retribuito in ragione del numero di ore impiegate; ma è più giusto che sia compensato secondo il risultato ottenuto. Criterio di giustizia distributiva deve essere non il lavoro impiegato, ma l’opera ottenuta, l’opus cioè, piuttosto che il labor. Se non m’illudo, parmi d‘aver così quasi annientate queste tre prime teorie, in parte ingiuste o immorali. Veniamo ora alla quarta.
        Il sansimonismo presenta la più seducente formola di distribuzione: a ciascuno secondo i suoi meriti. Evidentemente questa scuola — la quale rettificherebbe in meglio il collettivismo, perchè essa, con la sua formola, darebbe modo di guardare al risultato ottenuto (opus: merito vero), e non al numero d’ore impiegate (labor, merito irrilevante e fittizio) — vuole sostituire alle disuguaglianze derivanti dalla nascita, quelle derivanti dai meriti individuali. Il capo principale del programma sansimonista è quindi l’abolizione del diritto di eredità. Ma, prima di tutto, è difficilissimo trovare un criterio infallibile dei meriti; e poi, anche ammesso che si trovasse, sarebbe un simile sistema pienamente conforme a giustizia? Si potrebbe invece sostenere che la superiorità intellettuale non debba dar diritto alla ricchezza più della superiorità fisica; perchè ambedue costituiscono già bastante privilegio, che non deve essere aggravato da un altro, dal diritto cioè di reclamare una maggiore porzione di beni materiali. E poi la società dovrebbe far tacere ogni sentimento umanitario? Questo sistema sarebbe, da un certo punto di vista, utile, perchè così si potrebbe forse arrivare alla darwiniana selezione della specie, in cui prevalerebbero, esisterebbero solo i più forti ed i migliori.
        Ma obietto innanzi tutto, a quale forza, a quale superiorità deve badarsi nel selezionare la specie, alla forza e superiorità fisica od a quella intellettuale e morale? Certo all’una di esse soltanto non può, non deve badarsi; ammettiamo quindi che si debba tener conto di entrambe. Ed allora quali meriti si terranno in maggior considerazione, quelli fisici, intellettuali, o morali (di bontà e di virtù) ? E poi quale dinamometro misurerà i meriti, in modo da compensarli in proporzione ?
        L’opinione pubblica? No, perchè essa è spesso fallace superficiale ed errata. L’opinione dei dotti? Neanche, perchè la coltura non basta a misurare l’intelligenza. L’opinione degl’ intelligenti? No, perchè l’intelligenza da sola non basta a misurare la coltura. L’opinione di quelli che accoppiano l’intelligenza alla coltura? Neppure, perchè questi son rari, te spenderebbero così quasi inutilmente gran parte del tempo, che potrebbero certo assai meglio dedicare. Inoltre valutatori del merito non dovrebbero essere gli uomini, perchè essi farebbero facilmente prevalere sentimenti soggettivi, (simpatie, partigianerie), ma dovrebbe trovarsi un misuratore serio, oggettivo, un quid simile al termometro che registra imparzialmente la temperatura, sia di uomo ricco o povero, bello o brutto, forte o debole. Altrimenti, chi conoscerà inoltre il merito modesto, la bontà e la virtù modeste che, come le viole, cercano nascondersi agli occhi degli uomini, i quali solo dall’ esterno credono di poter giudicare anche l’interno?
        E poi l’intelligenza e specie la coltura sono indubbiamente sottoposte a variazioni. Ogni quanto tempo, quindi, l’intelligenza e la coltura dovrebbero nuovamente misurarsi, per compensarle proporzionalmente? Ancora: se quelli la cui intelligenza non è sviluppata, ma potrà in seguito svilupparsi, sono lasciati nel frattempo deteriorare o perire, quale rimorso non avrebbe la società? E dicasi altrettanto di ogni altra specie di meriti.
        Adunque la distribuzione della ricchezza secondo i meriti non deve avvenire fin quando non esisterà un misuratore preciso di essi: ed anche allora la società non dovrebbe far tacere ogni e qualsiasi sentimento di beneficenza, non fosse altro che per educare rendendo buono e mite il cuore umano. Come potrebbe poi lo Stato disconoscere quello che attualmente non ha più meriti, ma prestò dapprima al bene della patria le sue migliori e più valide energie, che gli furono poi tolte da malattia od altro infortunio di cui egli non ebbe colpa ? In conclusione, teoricamente il sansimonismo mi sembra il miglior sistema, e raccoglierebbe non solo la mia modesta adesione, ma tutto il mio entusiasmo, se fosse praticamente possibile una valutazione esatta dei meriti. Ma non esistendo questa, non sarebbe affatto bene contentarsi di una valutazione grossolana ed imprecisa, perchè così si potrebbe dar luogo a favoritismi, che renderebbero ingiusto nella pratica quel sistema che, in teoria, è fondato esclusivamente sulla giustizia. Inoltre, tal sistema dovrebbe andar sempre corretto dal sussidio della carità e della beneficenza, le quali, se non altro, servirebbero, come ho detto, all’educazione ed al miglioramento del cuore umano, soccorrendo gl’invalidi; sebbene sembri anche a me logica e giusta l’affermazione di quel grande filosofo moderno che disse la carità e la beneficenza essere immorali perchè sono di incitamento alla neghittosità ed all’imprevidenza, e perchè fanno sopravvivere la specie meno buona, con sottrazione dei mezzi di sussistenza ai migliori.
        Un sistema che, in certo modo, si accosta pure al socialismo è il cooperativismo che, insieme ad un intero programma di rinnovamento, si propone anche di ottenere miglioramenti sociali. Secondo alcuni, il cooperativismo è soltanto uno stadio transitorio, che dovrà preparare l’avvento del regime collettivista. Per ora, la maggior parte dei cooperativisti si rassegna al fatto di conservare la proprietà individuale coi suoi principali attributi. Il cooperativismo propone l’emancipazione economica di alcune categorie di persone (produttori, consumatori, mutuatarii, salariati, ecc.), coll’abolire gli intermediarii e bastare a sè stessi; ed inteso in questo senso, esso non è più solo una teoria che si agiti nel campo scientifico, ma è un fatto compiuto ed approvato dalle legislazioni. Mercè le cooperative, i consumatori comprano direttamente dai produttori o fabbricano essi medesimi ciò che è loro necessario, impedendo così che un mercato o capitalista qualsiasi si arricchisca a loro danno. Infatti, le cooperative di produzione fabbricano la merce e la vendono direttamente al pubblico, permettendo agli operai di far senza del padrone che, altrimenti, avrebbe egli, in parte, guadagnato sul loro lavora; le cooperative di credito impediscono di ricorrere agli artigli dell’usuraio, I cooperativisti propongono di sostituire all’impresa individualista ciascuno per sè, l’impresa ciascuno per tutti; propongono di generalizzare la proprietà individuale, rendendo facile ai cooperatori la formazione di capitali propri, col risparmio, colla produzione o col credito, creando nello stesso tempo anche una proprietà sociale, in forma di magazzini, banche, officine e case di abitazione; propongono inoltre non di sopprimere il capitale, bensì di togliergli la parte che ha nel dirigere la produzione, togliendogli anche la porzione di prodotti che esso sottrae, per il suo potere direttivo, in forma di utili e dividendi. Gli utili delle cooperative si versano nel fondo di riserva, e si ripartiscono poi tra i soci, o in proporzione delle compre se sono consumatori, o del lavoro se operai, quasi mai però in proporzione delle azioni che possiedono, cioè del capitale conferito. Mentre le società per azioni, così sviluppate attualmente, fanno del lavoratore un salariato, prendendo i capitalisti il prodotto e la direzione dell’impresa; il sistema cooperativo invece, costituendo una vera rivoluzione sociale, rende salariato il capitalista, dandogli talvolta nessun interesse, spesso un interesse modesto, mai dandogli l’utile che esclusivamente dal lavoro deriva. Le cooperative hanno anche un valore educativo, perchè insegnano ai soci l’aiutare gli altri aiutando sè stessi, il considerare per fine dell’attività economica, non il solo conseguimento del profitto, bensì anche la sodisfazione dei bisogni; rendono morali le relazioni economiche con la soppressione della réclame, dell’ inganno, dell’adulterazione delle merci; fanno cessare tutte le forme di sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e tutte le cause di conflitti. Così l’associazione di consumo dà fine al conflitto fra venditore e compratore, quella di produzione ai conflitto fra padrone e .salariato. Claudio Iannet scrive che il cooperativismo è il solo esperimento sociale ben riuscito del secolo XIX.Le cooperative di produzione ebbero talvolta ottimo successo; quelle di credito e sopratutto quelle di consumo hanno spesso uno sviluppo rapido e rigoglioso. La superiorità del cooperativismo consiste nell’essere facoltativo, nel non ricorrere alla forza rivoluzionaria e neppure a quella legale per sopprimere o modificare l’attuale organizzazione economica, che combatte invece con le sue stesse armi, concorrenza e libertà. In generale, è vero però che il regime sociale cooperativo non dà che poco notevoli risultati, perchè gli operai — e fossero almeno tutti! — non hanno che scarsi mezzi per dedicare ad esso, e forse ne hanno anche poca fiducia o poco entusiasmo; tuttavia, specie nell’epoca presente delle società, esso va molto incoraggiato, ben regolato e diffuso, anche ad iniziativa dei legislatori, perchè, oltre al racchiudere già in sè un fermento atto a migliorare le condizioni delle sempre più minacciose classi povere, è una valida spinta al bene ed un sicuro presagio di più equi e più lieti destini.

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