GERARDO DE PAOLA - ZINO e MOLOK - Forno

Forno.
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        Il forno a riscaldamento diretto, consisteva in due camere di mattoni refrattari, di cui una interrata (per evitare dispersione di calore), che serviva per l'alimentazione del fuoco con paglia, stoppie (d. cùrmi), foglie secche (d. r'pàmpine) e legna, e l'altra superiore, comunicante con l'inferiore attraverso un'apertura centrale, chiamata emblematicamente in dialetto «la vocc'a ri lu'nfierno = la bocca dell'inferno», attraverso la quale la fiamma passava dall'una all'altra, espandendosi sotto la volta a cupola.
        La suola era in pietra refrattaria, bàsoli di origine eruttiva (d. vasili). inclinata dal fondo verso la bocca esterna, in comunicazione con la cappa della canna fumaria.
        Il forno era sistemato in un grande vano, i cui muri erano muniti di staffe in legno (d. li gusti) su cui poggiare le «spole» del pane: le grandi assi di legno, leggero ma resistente, ricavate in un unico pezzo per sezione longitudinale da un tronco d'albero, sulle quali si adagiavano le forme del pane «r' schanate», sia prima che dopo la cottura. Ogni famiglia era fornita della sua spola, più o meno lunga a seconda delle bocche da sfamare. Le spole più piccole erano chiamate «li tumpagni e li tumpagnigh'” La panificazione in casa aveva un suo rito solenne, ritmato da varie operazioni:

        a) La sera precedente si stemperava in acqua il lievito naturale di pasta acida, capace di provocare la fermentazione. Questo lievito chiamato dialettamente «lu cr'escent», perché faceva crescere, sollevare, era un pezzo di pasta della precedente panificazione che, tenuta in serbo al calore naturale della farina, si inacidiva e conservava la capacità di lievitazione.

        b) All'alba3, mentre i fornai si portavano in campagna, per fare un primo viaggio di combustibile, il capo fornaio, chiamato Atlante da Zino, passava per le strade attigue al forno e, al suono del corno (strumento a fiato ottenuto da un corno di bue, opportunamente lavorato, o da una grande conchiglia) si informava quante famiglie intendevano panificare, e stabiliva il turno di cottura, se al primo, al secondo o al terzo forno per cui questa operazione era chiamata in dialetto «pass lu furnaro a cumannà = passa il fornaio a comandare, a predisporre i turni di cottura».

        c) Il fornaio cominciava a predisporre il forno per la prima cottura (d. accuminzava a vuttò fuoch, ropp luvòt la tenera morta = cominciava a «buttare» fuoco, attizzare, dopo aver levato la cenere morta, perché quella «viva» rimaneva nel forno, per ravvivare il fuoco col combustibile che vi si buttava)4. Le massaie frattanto impastavano il pane nella madia con farina, acqua, sale e lievito e, quando la pasta era amalgamata, la si lasciava fermentare, coprendola con mensale speciale di tela doppia chiamata «banchera», diversa dal mensale (d. mesale) e panni di lana5. Alimentazione del forno e fermentazione del pane duravano un paio di ore.

        d) Quando il forno si approssimava alla temperatura richiesta e la pasta alla fermentazione giusta, mentre un fornaio continuava ad alimentare la combustione con la paglia, un altro al secondo suono del corno, avvisava le massaie interessate ad alzare il pane (d. alz'a ru pône); quando prevedeva folla aggiungeva: «... e nu'n fà pizz'e ca t'r fazz fà a triiegh'i = non fare pizze, altrimenti te le faccio fare in «cavatelli». Questa alzata del pane consisteva nel sommuovere alquanto la pasta e dividerla nelle forme volute, che venivano allineate sulla spola, spalmata di farina per evitare appiccicature, e coperte dalla «banchèra».

        e) A questa seguiva un'operazione critica da farsi con celerità, per cui erano impegnati i vari soci, gestori del forno, con rispettivi familiari, per il prelievo delle spole da portare al forno, in modo da infornare il pane al punto giusto di fermentazione, e quando il forno aveva raggiunto la temperatura necessaria, 250'o 300% che certo non si misurava allora con termoregolatore, ma per esperienza accertata dalla fiamma divenuta biancastra, che si stendeva al momento opportuno su tutta la superficie della volta. Anche il nostro Zino si era edotto in questo. Prima di arrivare a questo punto di temperatura del forno, sia da parte dei primi arrivati che dei familiari dei fornai, c'era quasi sempre un assaggio «cu lu p'izzegho», che si cuoceva in breve tempo per la sua piccolezza e si mangiava subito ben caldo, mettendovi alle volte in mezzo una bella fetta di caciocavallo. Per i meno abbienti l'assaggio si faceva «cu lu parruozzo = pane rustico di campagna, preparato con farina di granone o con altri farinacei, come miscela di orzo e avena».

        f) Prima di passare all'infornata, dopo aver chiuso con un coperchio di ferro la bocca inferiore del forno e dopo aver chiuso il fossato con un forte assito «lu tavulòne», con un'asta lunga metri quattro o cinque, alla cui punta si legavano degli stracci bagnati (d. munilaturo), c'era da pulire la suola del forno dalla muniglia (variazione dialettale di «minutaglia» dal latino minutalia = minuzzoli residui di foglie e paglia bruciate) da cui la voce dialettale «muniliscià = liberare la suola dalla muniglia». Per evitare che gli stracci, asciugandosi all'alta temperatura del forno, bruciassero, e per pulirli man mano dalla muniglia, si bagnavano frequentemente in un grande vaso di pietra (d. lu òvto) sempre pieno di acqua, in prossimità del deposito della cenere.

        g) Finalmente si giungeva all'infornata: si prendeva ogni singola spola, che si appoggiava con un capo ad un lato del davanzale antistante alla bocca superiore del forno, mentre l'altro capo era sostenuto a braccia da un uomo; la padrona da una parte scopriva man mano le forme, che un'addetta dall'altra parte prendeva singolarmente e posava su una grande pala di legno, incastrata ad un'asta di quattro o cinque metri (d. palu'mmessa), con la quale l'infornatore sistemava le forme in bell'ordine nel forno, sino all'esaurimento.

        L'infornata iniziava con i pezzi più piccoli, che si tiravano fuori già cotti prima di chiudere il forno a fine operazione: «r'e pizz'e = le pizze, r'e fresenghe = piccola forma di pane rettangolare, un po' allungato ai due estremi, l'i p'ezzegh'e = piccole pizze, l'i pirciatigh'i = pane con buco centrale, a ciambella; a Pasqua si preparava una forma più fine di questi ultimi, chiamata la squarciategh'a = ciambella imbottita di uova sode, abitualmente 4», che già delimitavano la divisione in quattro parti (dal lat. ex-quartiare, derivante da quartus, donde l'italiano squarciare = spaccare in quarti). Il posto lasciato libero da questi pezzi più piccoli, era poi occupato da r'e' panegh'e, forma media di pane bianco delle famiglie ricche o benestanti, del peso da 1 a 3 chili» (il maschile di questa parola «lu paniegh'o»indicava invece la quantità di pasta, che si ricavava, prima dell'infornata, dalle grandi forme di pane, per pagare la cottura ai fornai che, a loro volta, pagavano il fitto al proprietario del forno «cu na panegh'a» = una forma di pane bianco di 3 chili. Alcune massaie predisponevano questo baratto già a casa, preparando «lu p'ezzegh'o p'i li furnàri» = la piccola forma di pane per i fornai, da non confondere con «la p'ezzegh'a» al femminile, che rimaneva alla padrona). «R'e schanat'e = forme grandi di pane dai quattro chili in sù», erano infornate subito dopo le pizze, e prima delle forme medie.
        Insieme al pane si infornavano «r'e tielle r'i patan'e e carn'e, (dal lat. tegella = padella) tegami di patate e carne, oppure di patate e zucchini = ciambott'a»; per l'arrosto si preferiva questo tipo di tegame di metallo, tondo e basso, perché durante la cottura si tirava fuori con la pala, si afferrava ai manici con due straccetti, si versava parte del sugo in un recipiente e lo si spandeva sull'arrosto, per poi far completare la cottura; per dolci e pizze di pomodoro si preferivano invece «li ruot'i = teglie senza manico in rame o alluminio».
        A fine di tutta l'operazione il forno si chiudeva col chiusino. Il pane era così sottoposto alla giusta temperatura, che non si propagava però al di là dei suoi strati superficiali. In questi strati dapprima una parte dell'amido si trasforma in destrina; man mano che essi assumono la temperatura del forno, le destrine si caramellizzano e una parte del rimanente amido comincia a torrefarsi. Si forma così una crosta più o meno spessa e di colore più o meno scuro.
        Prima che il pane arrivasse a cottura completa c'era da spostare le forme da un posto all'altro con la solita pala, in modo da avere uniformità di cottura.
        Il forno poteva contenere da 60 a 80 forme di pane, per un peso complessivo di oltre tre quintali. Il tempo di cottura era di un paio d'ore.
        Alla sfornata, bisognava avere l'accortezza di sistemare le forme di taglio, in modo che, durante il raffreddamento, parte dell'umido evaporasse, lasciando dura la crosta del pane, sia dalla parte superiore che da quella inferiore.
        Col riportare a casa del proprietario le spole del pane cotto, riprendeva il ciclo delle operazioni per l'infornata successiva.
        A Pasqua, insieme alle ciambelle, si cuocevano a fuoco più lento e temperatura più bassa dei dolci tradizionali come «li bischott'i, li tarall'i e li scallatiegh'i cu la cèml'a».
        In occasione di matrimoni si preparava il pan di Spagna per le paste «ru pôn'e r'i spagn'a p'e li rulg'i».
        In autunno si arrostivano le castagne «r'i castagn'e infornat'e», che si conservavano per l'inverno; si cuocevano anche frutti di stagione, come mele, pere, ecc. e, durante la notte, sfruttando così anche il calore residuo, le spighe di granone «r'int a callar"e, callariegh'ie marmitte chien'e r'acqua e cummigliati cu li cuffi'l e lu cupierch'io = pannocchie dentro caldai, caldaini, marmitte, piene di acqua e coperti con bràttee e coperchio» (nelle marmitte il coperchio di rame aderiva meglio al recipiente, ugualmente in rame, per cui l'acqua si essiccava di meno durante la notte e le spighe venivano ben cotte, ma non bruciate come negli altri recipienti). Per Zino era tutta una festa in questo periodo, perché era lui stesso a preparare la marmitta alla sera e a dare una «buona mano» anche alla consumazione all'indomani.
        Prima di proseguire, puntualizziamo a questo punto una sfumatura dialettale: «lu callar'o» al maschile era un recipiente di rame, che serviva per tanti usi; «la callàra» al femminile era una grande caldaia, che serviva per la salsa, le bottiglie di pomodori, ed ancora per bollire una grande quantità di acqua, come quando «si faceva la festa» al maiale, ecc.
        Come curiosità della cultura contadina, possiamo notare che della pianta sia del grano che del granone, nulla andava perduto, oltre al frutto: le stoppie si bruciavano nei campi come concime, nelle case e nei forni come combustibile; la paglia come vettovaglia e combustibile; la crusca come mancime; foglie e piante del granoturco come foraggio e combustibile; le bràttee per riempire pagliericci e nella fabbricazione della carta; i «tutoli» come combustibile e concime. L'espressione dialettale «cuffi'li» può derivare dal lat. tardo «cufia(m)» donde «cuffia», che serve come copricapo per i bambini neonati, allo scopo di proteggerli dal freddo, come «li cuffi'li» proteggono la spiga del granone.
        Il forno di «mastro Laterizio» era sistemato in un grande vano, i cui muri erano muniti di staffe in legno «li pusti», su cui venivano appoggiate le spole del pane.
        In un angolo di questo grande vano, dotato di due finestre di misura diversa, si depositava provvisoriamente la cenere tirata fuori dal forno che poi si portava nei campi.
        Il grande vano, attraverso un arco molto alto, dava in un immensa grotta, comunicante con altre più piccole «r'i grutticegh'e», che servivano come deposito del combustibile, per il periodo invernale di neve, quando non si poteva andare a raccogliere foglie nei boschi, oppure a fornirsi di paglia o stoppie dalle «méte» grandi mucchi di paglia o stoppie, a forma di cono o piramide, che si preparavano in campagna dopo la mietitura.
        Le foglie si raccoglievano nel pomeriggio nei boschi a mucchi «li monton'i» che dovevano servire anche per la provvista del viaggio dell'indomani mattina, di buon'ora. Paglia e foglie erano trasportate dalle donne con lenzuoli di tela «li lenzuol'i», riempiti di materiale e legati ai quattro pizzi. Questi erano portati dalle donne in testa, su cui prima si appoggiava un panno intrecciato «la spara» per evitare che il peso arrecasse danno al cuoio capelluto. Per gli uomini invece c'era la balla, in cui si insaccava la paglia o le foglie, legata al centro con una fune, e portata a spalla, su cui prima si appoggiava ugualmente la giacca ripiegata o un panno «la spallier'a », perché i due capi della fune impugnati davanti al petto non lasciassero sfregature sulla spalla. I furbi, che non mancano mai, stavano attenti a non ammassare molto la paglia che, lasciata più soffice, procurava al portatore un peso inferiore.
        Il forno scoperto a Pompei è simile a questi forni in muratura a riscaldamento diretto; solo alla fine del secolo XIX, entrarono in uso forni a riscaldamento indiretto e poi i forni elettrici.
        Perché il pane sia di buona qualità e fragrante deve essere poroso, leggero, di odore gradevole, deve avere la crosta sottile superiormente e più grossa e sonora «adda ndùnà», alla base; deve avere la superficie di color vivo e dorato, la mollica soffice ed elastica.
        Il peso specifico del buon pane è inferiore a 0,300; è ritenuto pessimo il pane che ha peso specifico superiore a 0,370. L'assimilabilità del pane e la sua digeribilità sono in dipendenza, oltre che della sua qualità, anche del suo coefficiente di imbibizione, che a sua volta è in stretto rapporto con la porosità e col peso specifico. Inoltre, a parità di peso specifico, riesce tanto più digeribile il pane che ha il maggior numero di alveoli e con l'uniforme distribuzione di essi. I tipi e le forme di pane variano da paese a paese.
        Una particolare attenzione merita il pane integrale (nero, bigio), preparato con farina non abburattata e ricco di proteine e fosfati. È ormai accertato che gli strati periferici (strato aleuronico) e la gemma (embrione) del chicco di frumento, che vengono scartati nella macinazione ed entrano nella crusca, sono i più ricchi di elementi nutritivi, anche se c'è da fare attenzione a problemi di cellulite.
        Il pane uscito dal forno, disseccandosi lentamente, diminuisce di volume, finché l'umidità non sia ridotta al 12-14% e cioè alla percentuale che normalmente si osserva, sia nel grano che nella farina. Contemporaneamente la crosta perde la sua fragilità e diventa flessibile e tenace; la mollica si disgrega e ri sce più facile a ridursi in briciole. In tal modo il pane diventa raffermo e duro. Però, se lo si rimette al forno, riacquista quasi completamente i caratteri originari. Gravi alterazioni del pane sono dovute a batteri, a muffe, a insetti ecc.
        Il forno era per le donne uno dei più allegri e caratteristici punti di incontro dove, in attesa dell'infornata avevano modo di confidarsi notizie riguardanti la vita di famiglia e di campagna, di fare apprezzamenti e giudizi sui fatti più salienti di vita paesana, di darsi e ricevere ambasciate di ogni genere, di scambiarsi battute allusive e ambigue, scherzi di cattivo gusto, di lanciare pungenti frecciate a presunte rivali, vicine o lontane, di cadere in espressioni diffamatorie, in vivaci pettegolezzi che, alle volte, sfociavano in aspre contese e... accapigliamenti, che solo la voce grossa e le braccia nerborute di qualche fornaio riuscivano a sedare, per riportare «bonaccia» in quella bolgia surriscaldata, fisicamente e analogicamente.

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        3 «facenn e nun facenn iuorno = sul fare del giorno».
        4 Il combustibile era dato da paglia, stoppie «cùrmi», foglie secche «r'e pampine» raccolte nei boschi di querce o di castagni e, in mancanza d'altro, fascine di legna che certo costavano di più. Questo combustibile si buttava prima nella «fossa» antistante alla bocca inferiore del forno, e poi a manate o con la forca all'interno.
        5 Le famiglie piccole, sfornite di madia, facevano quest'operazione su una tavola quadrata più o meno grande a seconda delle esigenze, chiamata dialettalmente «lu tumpògno», su cui si preparava anche la «pasta a mano».

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