GERARDO DE PAOLA - ZINO e MOLOK - Giochi

Giochi.
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        Per bambini e ragazzi, invece, il forno, nei tempi morti di lavorazione, soprattutto d'inverno, si riduceva ad una «grande palestra», quando, per i buoni uffici di Zino presso Atlante, di cui era un pupillo, si riusciva a disporre dei locali del forno per i loro giochi. Zino chiamava così il capo fornaio perché, quando questi tornava dalla campagna con il suo carico di paglia o di foglie, aveva rispetto agli altri la balla più grande, che gli faceva ricordare il pianeta terra sulle spalle del gigante.
        Egli sfruttava spesso questo suo rapporto di predilezione con Atlante, per avere la possibilità di passare con tanti amici, tra i quali i figli dei fornai, il tempo libero da impegni scolastici, le ore più belle della giornata, in cui la fantasia di tutti si sbizzarriva a modificare i soliti giochi o a crearne dei nuovi.
        Gare di abilità negli esercizi ginnici alle staffe «li gusti» che variavano continuamente, anche con l'imprevisto di qualche «bitorzolo» alla fronte o in testa, soprattutto quando tra gli spettatori, era ammessa anche qualche ragazzina, cui dare prova di particolare valentia. Entusiasmante era il gioco dell'altalena, perché la fuga della fune, legata ad una trave di ferro piuttosto alta, era abbastanza lunga.
        Molto divertente il gioco a nascondiglio «a 'nnaccuô» soprattutto quando grotte e grotticelle non erano piene completamente, per cui ci si poteva nascondere dovunque, magari coprendosi di paglia.
        Una divertente variante di questo gioco abituale era data dal gioco a trentuno salva tutti «trentuno salva tutti».
        Si stabiliva anzitutto lo spazio della tana che, quando si giocava all'aperto era definito da un semicerchio segnato a terra, in prossimità di un muro e, quando si giocava nel forno, dallo spazio del «tavolon'e».
        Il primo, penalizzato a sorteggio, ad occhi chiusi, stando nella tana, doveva contare fino a 31, in modo da dare il tempo ai compagni di andare a nascondersi, senza che egli ne controllasse il movimento; a fine conteggio apriva gli occhi e, molto guardingo, doveva scovare ad uno ad uno i compagni di gioco, chiamarli per nome e correre in tana per gridare: «trentuno!!!» e poi continuare la ricerca dei rimanenti sino all'esaurimento.
        Se durante questa ricerca, uno dei compagni tra quelli non ancora scovati, riusciva a raggiungere prima la tana al grido di «trentuno salva tutti», tutti rimanevano liberi per riprendere il gioco daccapo, senza sostituzione di ruoli. Quando nessuno della squadra arrivava a fare questa operazione di salvataggio, l'ultimo scoperto era penalizzato al conteggio, per far proseguire il gioco.
        La tana era utilizzata anche per il gioco a «Fra' Girolamo».
        Il sorteggiato dava inizio al gioco lasciando la tana, al grido di: «esce Fra' Girolamo dalla sua tana!» e, saltellando su un solo piede cercava di colpire uno dei compagni in fuga, con la cinghia di cuoio «la currescia» che teneva impugnata dai due estremi. Quando egli, per stanchezza o per mancanza di equilibrio, appoggiava a terra il piede sollevato, subiva una grandinata di cinghiate «r'e currisciate» da parte dei compagni, fino a che non riusciva a tornare in fretta alla tana, per riprendere il gioco.
        Quando invece, sempre saltellando, riusciva a colpire con la cinghia uno dei compagni, era questo mal capitato a trovare rifugio nella tana, a suon di scudisciate, per poi continuare il gioco.
        C'era ugualmente bisogno della tana, nel gioco all'aperto a «Mazza e pilzo». Questi strumenti di gioco erano ricavati da un ramo di albero, resistente e diritto: il primo della lunghezza approssimativa di un metro e il secondo, di circa 10 centimetri, tagliato ad unghia alle due estremità, in posizione opposta l'una all'altra.
        Il pezzetto dal primo giocatore era posizionato nella tana in modo che, battendo con la mazza su una estremità, potesse saltare e, prima che ricadesse a terra, con un secondo colpo di mazza, fosse spinto il più lontano possibile.
        Il giocatore avversario lo raccattava e lo lanciava verso la tana con tutta forza, in modo da farlo cadere il più vicino possibile, entro la distanza stabilita in partenza: tale distanza era misurata con la stessa mazza. Se il pezzetto era caduto nell'area di gioco, si invertivano i ruoli. L'abilità del giocatore fornito di mazza si rivelava pure nel colpire, ancora a volo il pezzetto lanciato, in modo da non farlo cadere nell'area suddetta.
        Con gli stessi arnesi si poteva giocare in quattro «a r' eciack'e», due cerchietti delimitati a terra, alla distanza di cinque o sei metri.
        A sorteggio erano scelti i due che dovevano impugnare le mazze (li mazzar'i) e tenerle puntate nel proprio cerchietto, affiancati alla loro destra dai due avversari, di cui uno era fornito di (pilzo). Tale posizione in diagonale era necessaria per impedire di sbagliare bersaglio: invece di colpire il pezzettino di legno si poteva colpire il compagno affiancato!
        Il gioco iniziava con il lancio di «lu pilzo» verso «lu mazzaro» di fronte, che doveva cercare di colpirlo a volo, per non farlo cadere nella distanza di una mazza dal proprio cerchietto. Se il pezzetto cadeva in quest'area, si cedeva subito il gioco alla coppia avversaria; se invece si riusciva a spingerlo lontano, i due mazzari, in senso contrario, cominciavano a correre da un cerchietto all'altro e, ogni volta che puntavano in esso la mazza, contavano in progressione: uno, due, tre..., fino a raggiungere il numero stabilito in partenza.
        Dei due avversari, uno correva a raccattare «lu pilzo», per lanciarlo verso i cerchietti, in modo che l'altro potesse a sua volta raccoglierlo al più presto, per correre a puntarlo in uno dei cerchietti: a questo punto il gioco rimaneva bloccato e finiva il conteggio dei mazzari. Se il numero stabilito all'inizio non era stato raggiunto, riprendeva il gioco senza cambiare ruoli, altrimenti si cedevano le mazze agli avversari.
        Con questi giochi, ogni tanto capitava l'imprevisto, poco piacevole, di qualche bernoccolo in testa a qualcuno, o di qualche rottura di vetri, con conseguente fuga all'impazzata, per la paura della reazione del padrone di casa o per non essere scoperti: il più delle volte, in verità, prima che qualche ruffiano ci mettesse lo zampino, erano i ragazzi di squadra ad autoaccusarsi, per pagarne i danni, o meglio, per far pagare dai genitori, dopo l'immancabile ramanzina o qualcosa di peggio.
        Divertentissimo era il gioco «zompa 'in cuogh'o» = saltare sul collo, sulle spalle, addosso, donde l'espressione «t'i porto 'in cuogh'o».
        I componenti della squadra penalizzata al sorteggio, a spalle ricurve, si tenevano legati con le braccia l'uno dietro l'altro, in modo da permettere agli avversari di saltare addosso e rimanervi «a cavallo», fin quando non venivano autorizzati a scendere, da qualcuno che non riusciva più a sostenere il peso dell'ammucchiata, non sempre ben distribuita. Riprendeva così l'operazione.
        I compagni della squadra saltante erano attenti a far saltare per prima i più capaci, a raggiungere con il salto di rincorsa il capo fila della squadra avversaria, in modo che tutti trovassero successivamente spazio per il salto e per rimanere a cavalluccio senza toccare terra con i piedi. Quando qualcuno toccava terra o non lasciava dietro di sé lo spazio sufficiente per il salto degli altri, si invertivano i ruoli di squadra.
        Il nostro Zino era uno dei più capaci in questo gioco, per cui i compagni di squadra, molto spesso, lo facevano saltare per primo: solo qualche volta tradiva le loro attese, o per mancanza di equilibrio a fine salto, o addirittura perché, dopo una rincorsa troppo veloce e incontrollata, andava a sbattere la testa contro il muro di fronte, con conseguenze non certo piacevoli, sia per sé che per la squadra.
        Qualche elemento di somiglianza con questo aveva il gioco a «uno monta l'uno», che consisteva nel fare una corsa ad ostacoli, costituiti da tutti i giocatori meno uno, che si mettevano in fila colle spalle ricurve e le mani appoggiate alle ginocchia, ad una certa distanza l'uno dall'altro. Il sorteggiato doveva superare con un salto ogni singolo ostacolo, appoggiando le mani sulle spalle di ognuno e divenendo egli stesso un ostacolo in capo fila, mentre l'ultimo subentrava nel salto e così di seguito fino a che non ci si stancava.
        Più riposante dei giochi predetti era il gioco «a la caccirijola» in cui i giocatori, tenendosi per mano, formavano un grande cerchio, in cui era chiuso il ragazzo che fungeva da cane, mentre all'esterno c'era un altro che faceva da lepre il quale, correndo in ogni senso all'esterno o all'interno del cerchio, doveva fare del tutto per non farsi afferrare, fino a quando non ne diveniva preda. Il gioco continuava con la lepre che diveniva cane, mentre un altro del gruppo si offriva a far da lepre.
        Molto movimentato era il gioco «a la ciacc'ia», che consisteva nel buttare a terra, da parte del sorteggiato, il proprio berretto, che veniva spinto a calci dall'uno all'altro, fino a che il padrone non riuscisse ad impadronirsene, per passare al berretto di chi non era stato capace di fare il passaggio. Certo, quando si ritornava a casa con il berretto ridotto ad uno straccio, c'era da divenire personalmente bersaglio di qualche inattesa gragnuola.
        Il gioco a «spezza catena» era preferito dai tipi robusti. La catena era formata dai ragazzi di una squadra che, tenendo le braccia conserte, si tenevano fortemente per mano, in modo da impedire lo spezzamento. I ragazzi della squadra avversaria, uno alla volta in rincorsa, dovevano cercare di riuscire in quest'operazione, fino a che tutti non fossero passati oltre, per poter cambiare ruolo.
        C'erano poi altri giochi, ancora oggi conosciuti, come: alla «settimana, a mosca cieca, allo schiaffo», e così via. Alcuni di questi erano praticati anche dalle ragazze, che avevano però i loro giochi caratteristici, meno violenti degli altri.
        Alle volte, checché ne dicessero gli inesorabili adulti, sempre pronti a tacciare di sfacciataggine soprattutto le ragazze, per il gusto del «vietato» si organizzavano «giochi misti», che aiutavano i ragazzi a rompere quella diffusa ed ipocrita mentalità di chiusura e di segregazione.
        Erano dei momenti molto belli, vissuti in simbiosi nella spontaneità e nell'ingenuità anche se non mancavano gli smaliziati precoci, sia per il piacere di integrazione ludica, sia per la curiosità naturalissima di osservare diversità anatomiche, con sbirciatine furbette e toccatine «poco vereconde», facilitate da mancanza, di biancheria intima, che non era da tutti, per le condizioni di miseria diffusa. Curiosità infantile, giudicata implacabilmente dal fariseismo degli adulti, come cose sporche «ri cos'e ri purcaria».
        Ma Zino e compagni, forse già per una inconscia esigenza di libertà, nel loro rione avevano scoperto uno spazio riservato, strategicamente più adatto per questo tipo di giochi, lontano dagli sguardi indiscreti degli immancabili guardoni, appostati ovunque, perché il gioco, con le conseguenti curiosità puerili, si svolgesse nella massima libertà, nel pieno rispetto reciproco, ma anche senza scrupoli di sorta, in barba a tutti i farisaici divieti.
        I ragazzi, nel rione, avevano anche coniato una espressione specifica: «sciàmm a giuocò a li mirivli = andiamo a giocare a quel posto riservato», che dagli adulti era interpretata solo come indicazione locale per giocare, ma dalle ragazze era accolto anche come un invito galante a ... Quanta fantasiosità furbesca e creativa, specifica anche solo in un rione!
        Questa inesauribile creatività si rivelava in tutti, non solo per il gusto saporoso del «vietato», ma anche per ovviare, senza rinunziare al divertimento, alle ristrettezze economiche (basti pensare che per ovviare alla mancanza di gomme per matita o per inchiostro, si andava alla ricerca di pezzi di gomma delle ruote di bicicletta o delle rare macchine, chiamati li «scassatùr'i») nella continua scoperta di strumenti di gioco, i più impensati e fantasiosi. Le bocce di legno, possedute dai più fortunati erano sostituite da ciottoli, piccoli sassi tondeggianti, o da pietre piatte «r'stacc'e», che avevano la stessa funzione delle bocce. Come al solito, con gli stessi strumenti di gioco, si creavano variazioni come: «a lu pitrucc'il'o» oppure «a lu stacciuligh'o»: si faceva a terra un fossettino «la funtaneggh'a», in cui i giocatori depositavano la puntata dei giochi (soldini, bottoni, ecc.) e, come bersaglio, si sistemava davanti «lu pitrùcc'iloo lu stacciuliggh'o», che bisognava colpire a turno col ciottolo più grande o con la pietra piatta «chiatta» per impadronirsi della puntata; questo ciottolo doveva fermarsi più vicino al buco, rispetto al bersaglio. Il turno di lancio era stabilito per sorteggio «lu tuock».
        Le palle di gomma all'occorrenza erano sostituite da stracci avvolti e legati strettamente con spago.
        Con i pochi spiccioli disponibili si giocava «a tozza mur'o, a spacca maton'e, a testa o croce». Il primo consisteva nel lanciare verso il muro, ognuno la propria monetina che stabiliva il turno di battuta, in base alla vicinanza al muro. Il primo, pigliando la sua monetina, la batteva contro il muro, in modo che, cadendo, toccasse una o più monetine degli altri di cui si impadroniva, col diritto di ripetere la battuta fino a quando non sbagliava. Al primo subentrava il secondo e così via.
        Per il gioco a testa o croce, le monetine si appoggiavano in serie sul dorso della mano, tra l'indice e il medio, e si lanciavano in alto, per poi controllare in quale posizione si posavano a terra; oppure si ammucchiavano l'una sull'altra, su una pietra levigata e si cercava di farle voltare con un calibrato colpo di sassolino = «lu pitrùcc'ilo». Il sorteggio stabiliva il turno di battuta. Quando il tempo non permetteva di giocare all'aperto, si ricorreva al gioco dello spaccamattone.
        Il gioco a soldi era sempre molto accanito, in quanto non si disponeva di molto denaro, per cui, quando gli studenti erano fuori paese, parecchi si vendevano persino i libri, a prezzo ridotto, costringendo i poveri genitori a comprarli più di una volta.
        Quando proprio i soldini mancavano, nemmeno allora ci si arrendeva, perché si riusciva a soppiantarli con tappi metallici di bottiglie, o coperchietto di scatole di cromatina abilmente ammaccati e conservati gelosamente, essendo il trofeo di vincite accumulate e di tenace lavoro di ricerca. Erano chiamati in dialetto «li bill'i », voce infantile, forse in analogia al gioco infantile, consistente nell'abbattere con palle cilindri di legno: ogni ragazzo aveva il suo deposito più o meno ricco in centinaia di questi, di cui si millantava con gli altri: «ei'o tengo ruieciento, triciento bîlli». Quanto poco ci voleva per fare allora la nostra felicità, di fronte ai... musoni di oggi che, pur non mancando di nulla, mancano di tutto!
        Un'altra ricchezza, conteggiata questa volta in ventine, era costituita da «li nùzz'i ri vascinèggh'e», semi di carrube «sciuscelle», che si riuscivano a sottrarre ai cavalli, non solo per la gioia di mettere qualcosa di piacevole sotto i denti, ma anche per aumentare il proprio patrimonio «ri nùzzi». Quando poi qualcuno andava in santuario, per questa doppia gioia dei bambini, si provvedeva di un po' di queste carrube che, oltre tutto, non costavano molto ed erano leggere a portarle, da parte di pellegrini che andavano a piedi a San Gerardo in Materdomini, all'Incoronata a Foggia o a San Michele al Gargano, per strade di campagna.
        Il gioco «a li nùzz'i» cominciava con lo stabilire il numero delle ventine di semi da giocare ad ogni tornata, per passare al turno di gioco fissato in successione dalla vicinanza raggiunta nel lancio, da una certa distanza, del primo seme alla «funtanegha», un buco praticato a terra. Il fortunato che già in questo primo lancio riusciva addirittura a far cadere nel fossettino il seme, senza proseguire nel gioco, s'impadroniva delle ventine giocate da tutti; se i fortunati erano in due o tre, i semi si dividevano equamente. Questo caso però era piuttosto unico che raro per cui, in ordine di successione dei concorrenti, ognuno aveva diritto a lanciare gli altri diciannove semi verso la fontanella; quelli che riuscivano a far entrare il seme nella buca si dividevano il bottino.
        Quando nessuno riusciva in questa impresa (le possibilità erano studiate tutte), il primo giocatore in graduatoria aveva diritto a spingere i semi nel buco, a cominciare logicamente dai più vicini, con dei colpettini ottenuti facendo scoccare l'indice sul pollice: per ogni seme si disponeva di tre colpi, conteggiati con il verso proprio di questo gioco: «tic... tac... funtón'a».
        Allo sbaglio del primo giocatore, subentrava il secondo, e così di seguito fino all'esaurimento dei semi buttati, per poi riprendere daccapo «ra cap'o».
        Una variante più impegnativa di questo gioco era di spingere i semi nel buco, con la punta di ferro della trottola in movimento, che si faceva salire sul palmo della mano, attraverso lo spazio tra indice e medio, e poi si spingeva, sempre in moto «cu lu ruzziègh'o, ca frullâv'a», contro ogni seme per farlo cadere in buca, disponendo ugualmente per ogni seme dei tre colpi: «tic... tac... funtón'a». Logicamente, giocando a soldi, il gioco era più accanito.
        La trottola «lu ruzziègh'o» poi aveva una sua storia, per il modo con cui ci si forniva dal tornitore («Mast'ro Pazzijator'e, ca vulev'a semp're pazzijà»; in italiano potremmo chiamarlo Mastro Motteggièro, in quanto voleva sempre motteggiare su tutto e su tutti).
        I più fortunati si procuravano la trottola con alcuni spiccioli, e la stragrande maggioranza con qualche uovo rubato o con qualche chiave vecchia inutilizzata. Tanti però, costretti dalla necessità, rubavano chiavi dalle porte, per correre da Mastro Motteggièro e barattarle con le trottole. I proprietari delle chiavi, sapendo dove la refurtiva andava a finire, ricorrevano ugualmente a lui, per... comprare la propria chiave, senza nemmeno tentare di chiedere chi fosse stato il ladruncolo (alle volte i loro stessi figli!), perché il tornitore era... una tomba!
        In tal modo, anche i ragazzi più «sfortunati», oltre a procurarsi divertimento, diventavano datori di lavoro, per sé e per gli altri.
        Mi si perdoni l'interruzione del racconto, ma a questo punto non si può fare a meno di spendere qualche parola per questo personaggio, ancora piacevolmente ricordato, che da solo programmava uno dei più spassosi canali di «televisione dell'epoca», perché sapeva condire la sua ineguagliabile esperienza artigianale, con inesauribile originalità dei suoi scherzi e motteggi.
        Uno degli episodi più significativi, conosciuto a Caterina e paesi limitrofi, è quello della compra di cenere «assoluta» di quercia, verificatosi in un paese vicino, dove «mast'ro Pazzijator'e» aveva fatto bandire che un chimico, proveniente da Napoli, avrebbe comprato cenere «assoluta» di quercia, a due lire al chilo.
        Al giorno stabilito, di buon mattino, Mastro Motteggièro in persona, con camice bianco, col volto alquanto truccato e con lenti da «dottorino», si fa trovare in piazza con un tavolinetto, su cui da una parte c'è la bilancia e dall'altra uno sgabellino, coperto da una lastra di marmo, per osservare da vicino, ad altezza di «donna», l'analisi «chimica» della cenere.
        Man mano che le donne arrivano con la provvista di cenere, prima della pesa, egli, con molta prosopopèa, ne fa posare un pizzico sul marmo, e, dopo una finta analisi, «seriosamente» sentenzia che trattasi di cenere mista, non assoluta di quercia. Con una bella «soffiata» fa volar via la cenere, non senza colpire gli occhi della proprietaria che, stupefatta, si trova di fronte.
        L'esperimento, suscitando ilarità fra i presenti, si ripete fino a che un uomo, vedendo la moglie avvicinarsi alla «bancarella», per la stessa operazione, la manda via in «malo modo», gridando: «ch'iro è la scuppettóro ri... = quello è lo scioppettaro (armaiolo) di... ».
        Il motteggiatore deve avere «buon piede» a svignarsela, onde sfuggire al linciaggio delle donne, inferocite per la beffa subita, di fronte ad un intero paese, percorso fulmineamente dalla «esilarante» notizia. Le battute «spiritose» del nostro simpatico ridanciano sono tante, per cui sarebbe bello farne una raccolta, riesumandole dai ricordi degli anziani. Ne ricordiamo un paio.
        Una volta, trovandosi a Napoli, finge di voler comprare delle lenti presso una bancarella, e, nel provarle, tenendo gli occhi chiusi, asserisce di... non vedere! Alla protesta del venditore, che gli fa notare di avere gli occhi chiusi, facendo il «finto tonto», con sorpresa, risponde: «Ma allora debbo vedere con gli occhi miei!...».
        In un'altra circostanza, il nostro burlone, dovendo trascinare la carogna di un mulo fuori paese, per sotterrarla, si fa aiutare da alcune persone, tra le quali anche un prete dà «una mano». A conclusione dell'operazione «funebre», esprime il suo rammarico, declamando a tutto fiato: «Nun ti chiango p'er quanta fatica m'hai fatto, quanto pecchè t'aggio fatto pigliare ra nu prévte sûlo = non ti piango per quante fatiche mi hai fatto, quanto perché ti ho fatto prendere da un prete solo!...». Allora l'accompagnamento con un solo prete era il funerale dei ... poveracci! Oggi, invece, e, tanto più domani, sarà una fortuna trovarne uno!...
        Ci siamo prolungati a descrivere alcuni giochi, sia perché essi sono uno specchio infallibile delle condizioni di vita di un popolo, sia perché, in conformità del tema propostoci col presente lavoro, di mirare a costruire costruendosi, il gioco ha un suo grande valore educativo, per la crescita individuale e sociale dell'uomo: attraverso il gioco il bambino è sollecitato all'inventiva, più che attraverso «ricerche di fotocopiatura e seriose unità didattiche», che frettolosi adulti oggi gli propinano.
        A questi frettolosi professori, specializzati in «fuga» nulla hanno insegnato i tre prìncipi di Serendip che, con la loro serendipità, trovano qualcosa cercando qualcosa d'altro, come Colombo nella sua scoperta, e come tante conquiste scientifiche, maturate all'insegna della casualità.
        Come pure a tanti professori di religione nulla ha insegnato la meravigliosa pedagogia di Gesù che, senza fare discorsi astratti, ricorre a quella stupenda parabola in azione, che offre ai suoi uditori prima ancora di iniziare a parlare, donde la forza di trasmettere un messaggio, in modo immediatamente percepibile da tutti, con tutta la carica del paradosso: «Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: In verità vi dico, se non vi convertirete e diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt. Cap. 18, 2-3). Nel mondo orientale il bambino non contava nulla, per cui non era neppure registrato, fino a quando non entrava nella maggiore età: era sempre e solo oggetto dell'educazione degli adulti.
        Gesù, come al solito, capovolge le convinzioni più sedimentate e sclerotizzate, dicendo con fermezza che il bambino è anche soggetto di educazione, in quanto ha da insegnare all'adulto.
        Di fronte a questa affermazione così categorica di Gesù, il nostro pensiero corre subito alla semplicità, alla purezza, all'innocenza, che il bambino avrebbe da insegnare all'adulto. Ma questo non rientra nell'orizzonte di Gesù, è frutto soltanto della nostra incrostazione culturale, sedimentata nel tempo dalla faciloneria di pigri interpreti del Vangelo.
        Un tema da smitizzare, perché il bambino, purtroppo, è una creatura corrotta come noi: non c'è bisogno della psicologia o della psicanalisi, basta un'attenta osservazione, per rendersi conto che il bambino è egoista, ha tutti i suoi vizi e, nel suo piccolo, ha in sé tutto un mondo oscuro.
        Gesù presenta il bambino per un'altra ragione come modello, direttamente per la comunità dei discepoli, ma indirettamente per ogni struttura educativa, come famiglia, scuola, società.
        Il bambino si fida perché, avendo un orizzonte di conoscenza ancora limitato, ha fiducia dell'adulto, mette la sua mano in quella del padre, dell'educatore.
        E quando Gesù parla di scandalo dei piccoli, si riferisce soprattutto al tradimento di questa fiducia, e non solo alla corruzione dei bambini, cosa pur drammatica e vergognosa, perché se è vero che il bambino ha in sé i suoi limiti, non ha ancora raggiunto quei livelli di perversione cui può arrivare l'adulto.
        Tu educatore non puoi tradire la fiducia che il piccolo ripone in te, non devi scandalizzarlo, non devi farlo inciampare nel suo cammino di crescita, già di per sé tanto faticoso. Guai a te se, nella tua sicurezza, nella tua autosufficienza, nella tua schiavitù da cose e miti della vita, non ti preoccupi di questi deboli, che stanno camminando lentamente. verso la loro maturità. Sarebbe meglio che tu sia «meno uomo», dice Gesù, pur di non macchiarti di questa crudeltà: spezzare il cammino di crescita di questi piccoli.
        Bambini e meno bambini oggi, parcheggiati a casa davanti a «mamma televisione», e inchiodati a scuola in quelle «galere» di banchi, non solo non ricevono «spazio», ma nemmeno «tempo». Spazio fisico per reinventarsi nel gioco, come Peter Weir insegna ne «L'attimo fuggente», e prepararsi responsabilmente alla vita; tempo per dialogate, per crescere, per appassionarsi ad imparare stupendosi, e a stupirsi imparando.
        Sedicenti educatori potrebbero meglio chiamarsi genitori-allevatori e professori-plasmatoci di statuine. Non è un caso che il citatissimo Froebel si scandalizzi che alle piante e agli animali giovani si dia spazio e tempo, mentre «per l'uomo i giovani sono un pezzo di cera, un'argilla con la quale si può plasmare ciò che si vuole».
        Sotto certi aspetti, le generazioni passate pur in condizioni disastrosamente disagiate, o proprio in forza di esse, hanno avuto stimoli continui alla creatività, in ogni espressione di vita, nella famiglia o nella scuola, in casa o sulla strada (tutta per loro), nella dura lotta per la vita o nei momenti di distensione (chi non ricorda le belle serate invernali intorno al camino?), nel sacrificio di lavoro e di studio o nelle ore di gioia e di divertimento.
        L'attuale generazione invece, pur disponendo di innumerevoli canali di informazione (televisione, radio, stampa, concerti, films, musica, moda, pubblicità, ecc.) dai quali è continuamente «bombardata», non è sufficientemente stimolata alla crescita, alla riflessione e all'inventiva, assuefatta com'è ad una ricezione passiva del messaggio, così spesso mistificante, dell'immagine. Quello che desta maggiori preoccupazioni è che le strutture educative, non disponendo di spazio e tempo, quasi nulla fanno per ovviare a quella deficienza, per rendere la vita più vivibile per tutti.
        Il nostro Zino, nel suo cammino di crescita, pur fruendo degli stessi stimoli dei suoi coetanei, proprio negli anni della fanciullezza, ha avuto un'esperienza drammatica che, se lo ha segnato duramente, lo ha anche positivamente coinvolto in un ostinato movimento di autocostruzione del suo futuro e del suo carattere.
        Come anzidetto, il passaggio dalla lavorazione e dalla cottura di tipo artigianale a quelle di tipo industriale, col conseguente acquisto delle macchine e di tutta l'attrezzatura necessaria, aveva inferto alla famiglia un duro scossone economico, cui si aggiunse il crollo della fornace alla prima cottura, rendendo insostenibile la situazione.
        Il colpo di grazia fu dato dalla crisi economica degli anni trenta che, non favorendo lo smercio dei laterizi, pur di ottima qualità, non permise alla famiglia «mastro Laterizio» di rifarsi delle spese.


        Il padre di Zino, gelosissimo della sua specchiata onestà, alla dichiarazione di fallimento, consigliata pure da qualche legale, ma da lui mai accettata, per mantener fede agli impegni assunti, sia per l'acquisto del materiale che per pagare la manodopera, preferì vendere parte, della sua proprietà: povero sì, ma onesto!
        Con la vendita dei migliori terreni, nonché della casa in cui era nato, il nostro Zino, negli anni più belli della sua fanciullezza, sentì aprirsi nel cuore una ferita profonda, che si portò dentro, sanguinolenta, per molti anni.
        Gli era molto costato il distacco violento sia dalla vigna (venduta per 800 lire) sia, soprattutto, da un ciliegio a lui particolarmente caro, come dalla casa, bellissima ai suoi occhi infantili, perché carica dei ricordi più belli della sua infanzia.

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